martedì 15 dicembre 2015

Architettura: Gregotti e il gruppo Aua

L’architettura come dovere civile 
Impegno politico e urbanizzazione, l’esperienza del gruppo francese Aua. E la sua eredità 
15 dic 2015  Corriere della Sera Di Vittorio Gregotti © RIPRODUZIONE RISERVATA 
La più importante mostra di architettura (in corso sino al 29 febbraio a Parigi alla «Cité de l’Architecture e du Patrimoine») è dedicata al lavoro del gruppo Aua proposta sotto la direzione di Jean Louis Cohen e Vanessa Grossman e dotata di un importante catalogo illustrato di 315 pagine con venti saggi. Ma che cosa è l’Aua, cioè l’«Atelier d’Urbanisme e d’Architecture»? È un gruppo di architetti liberamente associati nel 1960 che hanno lavorato insieme sino al 1985, secondo diverse composizioni di attori.
Sin dall’inizio il programma è preciso. Anzitutto formare un gruppo con un intento pluridisciplinare (architetti, ingegneri, impiantisti, sociologi, paesaggisti, grafici) così da mettere in funzione una squadra professionale volta principalmente a un lavoro di interesse collettivo e connesso, con ogni libertà espressiva, al pensiero della sinistra politica francese. Tutto ciò nella tradizione dei principi del Movimento Moderno ma criticamente collegato alle nuove realtà nazionali e internazionali in corso, con attenzione anche all’insegnamento e alla riflessione teorica del dover essere dell’architettura. 
Tra il 1962 ed il 1966 il gruppo Aua pubblicò dodici numeri di una rivista dal titolo «Forum» e nel 1976 fu chiamato a far parte della prima biennale di architettura a Venezia, dal titolo Europa America, e al seminario a cui erano presenti tutti i protagonisti della mostra. «Gli Aua — scrive Jacques Lucan nel suo saggio — erano per la Francia una speranza» pensata per far uscire gli architetti dall’isolamento e scontrarsi con le difficoltà di sviluppo urbano e le sue dimensioni sociali e politiche, utilizzando la relazione dialettica tra creatività e industrializzazione, anche a costo di essere considerati (a mio avviso ingiustamente) «brutalisti» sul modello inglese o ispirato ai gruppi francesi del Team 10. 
La produzione del gruppo Aua è stata molto vasta e sovente di grande scala, nell’insieme abitativo, soprattutto nelle periferie di Parigi, dalle torri di Bagnolet alle Banques Rouges a Vigneux tra il ’63 e il ’68, insieme alle abitazioni della Cité République di Abervilliers e a molte realizzazioni che cercano di sfidare il tema della quantità con strumenti e principi adeguati. Poi, anche a contatto con il Team 10, negli anni Settanta gli Aua realizzano gli edifici di Porte de Pantere aprendosi sempre più al tema del disegno urbano e a un’interpretazione complessiva del luogo e, con le presenze importanti di personalità come quella di Ciriani e di Huidobro che provengono dal Sudamerica, costruiscono a Montreuil e poi Les terrasses de Orly di Jean e Maria De Roche.
Un capitolo del catalogo è dedicato esplicitamente al tema delle attrezzature nelle periferie con i progetti del centro amministrativo e della biblioteca Elsa Triolet, a Pantin e allo stadio nautico di Villejuif. Solo per citare alcuni esempi dei primi venti anni. Paul Chemetov, che ne è stato l’elemento centrale in tutto il percorso, è l’autore all’inizio degli anni Ottanta di una serie di grandiose sistemazioni dei sotterranei delle Halles a Parigi. Terminata l’esperienza dell’Aua, Chemetov realizzerà, nel 1994 con Huidobro, il bellissimo museo nazionale di storia naturale a Parigi. Con Corajoud, il grande paesaggista del gruppo, Chemetov aveva già realizzato nel 1970 un villaggio di vacanze a Gassin e, con vaste critiche e discussioni, la Villeneuve a Grenoble. 
È necessario, io credo, precisare che l’Aua ha sempre inteso proporsi come forza concretamente a disposizione delle municipalità di sinistra, utilizzando le possibilità dei mezzi di produzione messi a disposizione dell’industria per affrontare edifici e parti di città di grande scala, sia di abitazioni che di servizi, distinguendosi anche così dalla tradizione dell’organizzazione tradizionale degli architetti francesi con la propria disponibilità sia plurifunzionale che politica. Si tratta di un’industrializzazione che deve essere aperta alle possibilità combinatorie, come contributo, anche proprio nelle megastrutture, alla qualità del manufatto. Sono possibilità che vengono utilizzate anche nel 1983, per esempio, da Chemetov nel bellissimo edificio del Ministero delle Finanze. 
Gli interventi che abbiamo citato sono solo una parte della loro attività, che comprende anche alcuni progetti di grande qualità architettonica prodotti da gruppi molto variabili ma dotati di una forte serie di ideali comuni. È l’idea della pratica collettiva proposta dal Bauhaus a confronto con l’isolata grandezza del lavoro di Le Corbusier. 
I fondatori dell’Aua provengono in genere da esperienze presso particolari architetti: Chemetov con Lurçat, Deroche con Marcel Lods, altri con l’atelier dei Perret, altri ancora come Huidobro e Ciriani provengono dal Sudamerica, altri come Corajoud dall’Ecole d’Arts decoratifs. Altri urbanisti e architetti del gruppo sono cresciuti guardando soprattutto agli esempi di Le Corbusier ma anche alle esperienze del Nord Europa, a Van Eyck e ad Alvar Aalto. Né sono dimenticate le ricerche di alcuni americani come Kevin Linch e Louis Khan. La varietà delle provenienze ha articolato ma non diviso i risultati delle molte realizzazioni e progetti, solidali ma anche specifici nei loro obiettivi e metodi, e le intenzioni di ciascuno dei componenti del gruppo ancora in vita sono, nella mostra, rese evidenti in una serie di registrazioni singolari di grande interesse storico, critico e di principi. Anche dopo il 1985 sono riconoscibili in alcuni progetti, specie di Chemetov e di Ciriani le migliori qualità ideali del gruppo Aua. 
Dallo scioglimento del gruppo Aua sono passati ormai trent’anni e il loro esempio è diventato una parte importante della storia della cultura architettonica francese della seconda metà del Ventesimo secolo e, dopo la morte di Le Corbusier, forse io credo anche un monito storico con cui confrontarsi. Ma si tratta, comunque, anche dell’abbandono di una speranza comune per una qualità dell’ architettura che non vuole essere in contrasto con la specificità della nostra pratica artistica inseparabilmente dai suoi doveri civili.

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