domenica 31 gennaio 2016

Homo Sapiens era arrivato al Circolo polare artico già 45mila anni fa

45mila anni fa al polo nord L’«homo sapiens» venuto dal freddo
di Gilberto Corbellini Il Sole Domenica 31.1.16
Se la scoperta dei paleontologi, pubblicata nei giorni scorsi sulla rivista Science, ovvero che individui della specie Homo sapiens andavano a caccia ben oltre il Circolo Polare artico già 45mila anni fa, forse sarà il caso di tornare a prendere sul serio alcune teorie che collocavano l’origine delle mitiche popolazioni cosiddette ariane al Polo Nord. In particolare, il suggestivo saggio del matematico, astronomo e fondatore del movimento indipendentista indiano Bal Gangadhar Tilak, La dimora artica nei Veda (1903). Tilak, chiamato dai connazionali Lokamanya («colui che è onorato dal suo popolo come guida») avanzava l’ipotesi, basata sulla lettura di alcuni inni vedici, della cronologia e dei calendari vedici, nonché di passaggi dell’Avesta, che gli ariani abitassero il Polo Nord prima dell’inizio dell’ultimo periodo post-glaciale. Una teoria sostenuta anche nel libro del primo presidente della Boston University, William F. Warren, Paradise Found or the Crandle of the Human Race at the North Pole (1885). Libro che Tilak saccheggiò.
Al di là delle inverosimili speculazioni tendenzialmente razziste tardo ottocentesche fondate su tracce immaginabili a partire dalla letteratura mitologico-religiosa, la recente scoperta è di rilevantissima importanza, perché sposta di ben 15mila anni indietro la presenza dell’uomo moderno nella regione artica, e questo significa che 45mila anni fa i nostri antenati dovevano avere un’organizzazione sociale complessa e molto efficiente per abitare in territori ostili e cacciare mammut o i rinoceronti lanosi che brucavano le steppe-tundre erbose. Sono stati proprio i resti di un mammut a fornire elementi per giungere a un conclusione abbastanza sorprendente. Infatti, per lungo tempo si era pensato che i nostri antenati cacciatori adattati ai climi freddi e in grado di cacciare la megafauna avessero raggiunto l’artico intorno a 15-12 mila anni fa, attraversando lo stretto di Bering per entrare nelle Americhe circa 15mila anni fa. Nuovi ritrovamenti agli inizi di questo millennio aveva portato a ipotizzare che già 35mila anni fa degli uomini cacciassero sui Monti Urali del nord e nella Siberia nordorientale. Ossa umane erano però finora state trovate non più a nord di Mosca, circa (57° nord). Mentre il mammut di cui parliamo è stato rivenuto casualmente da un bambino a 72° nord, cioè ben oltre il Circolo Polare Artico.
L’animale presenta una serie di ferite che sono chiaramente risultato di un’azione di caccia che ha portato alla sua uccisione, a cui sono seguite interventi di macellazione e asportazione di carne, grasso e di parte delle zanne. Per arrivare a quelle latitudini e cacciare un mammut dell’età di circa 15 anni e in piena salute, quegli uomini dovevano essere particolarmente abili nella costruzione di strumenti, nel fabbricare abiti caldi e temporanei rifugi per sopravvivere a climi decisamente rigidi e in ambienti inospitali. Tutte queste capacità applicate alla vita in ambienti rigidi si pensava che avessero richiesto diverse migliaia di anni in più per essere acquisite. E sono proprio queste caratteristiche a far ritenere che si trattasse di uomini moderni e non di neandertal. Alcuni colleghi dei russi, negli Stati Uniti, stanno aspettando più informazioni. Prima di tutto sui metodi usati per la datazione. Ma anche una datazione effettuata su quei resti da qualche laboratorio diverso da quello dell’Accademia Russa delle Science di San Pietroburgo: una contaminazione è sempre possibile.
Naturalmente non tutti sono disposti a dare un significato così pregnante alla scoperta. Infatti, qualcuno sostiene, sulla base delle foto pubblicate, che l’animale non è stato completamente sfruttato per le risorse che offriva, soprattutto il grasso. E questa sarebbe un’anomalia, in quando dei cacciatori moderni, in quelle condizioni, avrebbero usato completamente l’animale, data l’importanza di accumulare e scambiare cibo per la sopravvivenza e il rafforzamento dei legami sociali.

I colpi dell’uomo sul pachiderma
Caccia grossa nell’Artico. Un mammut ucciso in anticipo di 10.000 anni
Nell’artico siberiano è stata ritrovata la carcassa, vecchia 45 mila anni, di un mammut ucciso da uomini che giunsero nella zona prima di quanto si credesse
di Telmo Pievani Corriere La Lettura 31.1.16
Tre anni fa una spedizione di scienziati russi guidata da Alexei Tikhonov, grande specialista di mammut all’Accademia delle Scienze, si spinse fino alla stazione meteorologica polare di Sopochnaya Karga, a 71 gradi di latitudine nord. Su una scogliera ghiacciata della baia dello Yenisei, sul mare di Kara, porzione siberiana del mar Glaciale Artico, un paio di chilometri a nord della stazione, i ricercatori scoprirono la carcassa ben conservata di un mammut lanoso. Se l’aspettavano, poiché la presenza di questi grossi erbivori era già nota nella penisola di Tajmir, Siberia artica. La stratigrafia e l’analisi al radiocarbonio di una tibia permisero la datazione precisa dell’animale: era morto su quella spiaggia remota tra 44.500 e 45.000 anni fa.
Sappiamo che i mammut hanno vagato per decine di migliaia di anni nell’emisfero settentrionale, seguendo le oscillazioni climatiche. Quando in Europa la calotta ghiacciata di Barents scendeva fino in Germania e in Inghilterra, questi bestioni lanosi si spingevano fin nel cuore della nostra penisola. E sono sopravvissuti fino a tempi più recenti di quanto si pensasse. Un manipolo riuscì a rifugiarsi, dopo la fine dell’ultima era glaciale 11.700 anni fa, nella penisola e poi isola di Wrangel, un angolo sperduto dell’Artico siberiano orientale dove i cacciatori paleo-eschimesi sarebbero arrivati soltanto tremila anni fa. Su Wrangel i mammut, un po’ rimpiccioliti, resistettero fino a meno di quattromila anni fa, sfiorando così la storia delle civiltà umane.
Dunque il mammut di Sopochnaya Karga è piuttosto antico rispetto ad altri suoi simili, ma è così ben conservato che, oltre allo scheletro completo, il ghiaccio ha preservato alcune parti molli, incluso il grasso della tipica gobba. Era un giovane maschio di 15 anni, in ottima salute. Chi o che cosa ha ucciso dunque un animale così forte e resistente? La soluzione del giallo ha lasciato di stucco la comunità scientifica, tanto da meritarsi la pubblicazione sul numero di «Science» del 15 gennaio. Le ossa sono state esaminate ai raggi X, ma già a occhio nudo mostrano i segni di ferite inusuali, soprattutto sulla testa e nella zona toracica. L’osso zigomatico è forato da un’arma a punta conica, fatta di osso o di avorio. Altri colpi mirarono invece alla base del tronco, per recidere arterie vitali e uccidere l’animale per dissanguamento. Le lance taglienti furono scagliate con tale vigore da penetrare pelle e muscoli, conficcandosi nelle ossa.
Insomma, si tratta di una ben organizzata scena di caccia, cui seguì la paziente macellazione di ogni parte dell’animale, compresa la lingua accuratamente asportata. Del mammut non si buttava via niente, soprattutto le preziose zanne vennero rotte in modo tale da produrre scaglie appuntite di avorio, a loro volta usate come strumenti per la macellazione della carne. Segno che a quel tempo era all’opera un’intelligenza in grado di trasformare potenzialmente qualsiasi oggetto utile in uno strumento, e di produrre uno strumento a partire da un altro strumento. In assenza di pietre adatte, si ricorreva all’avorio.
Si dimostra così, sorprendentemente, che circa diecimila anni prima di quanto ritenuto finora, già 45.000 anni fa, a una latitudine più settentrionale persino di Capo Nord, quando ancora sopravvivevano altre specie umane come l’uomo di Neanderthal in Europa e l’uomo di Denisova in Asia centrale, gruppi di cacciatori sapiens di origine africana erano in grado di inseguire e abbattere un mammut sulle sponde del mar Glaciale Artico. La datazione precede di 20 mila anni l’ultimo massimo glaciale, cioè il periodo proibitivo, che va da 26 a 19 mila anni fa, in cui l’era glaciale raggiunse il picco.
Chi ha compiuto l’impresa nel grande freddo doveva avere capacità di organizzazione sociale e di coordinamento linguistico notevoli, insieme a tecnologie avanzate per cacciare e proteggersi dal gelo. È chiaro che qui l’evoluzione culturale ha prevalso su quella biologica, permettendo ai nostri antenati di adattarsi a qualsiasi ecosistema terrestre. Homo sapiens divenne una specie cosmopolita e invasiva, capace di creare sublimi opere d’arte (a poche migliaia di anni dopo risale l’arte rupestre recentemente scoperta sull’isola di Sulawesi, ai tropici) e al contempo di lasciare un segno distruttivo sugli ambienti, per esempio in Australia e nelle Americhe, dove all’arrivo dei primi cacciatori sapiens decine di specie di mammiferi di grossa taglia, inermi davanti a un predatore così ben organizzato, furono estinte per sempre.
La scoperta russa potrebbe anche gettare nuova luce proprio sull’arrivo dell’ Homo sapiens in Nord America. Se i cacciatori siberiani erano già in circolazione 45.000 anni fa, non è escluso che possano essersi spinti verso oriente, inseguendo le mandrie di caribù e di mammut, ben prima della fine dell’ultima glaciazione, attraversando la Beringia, cioè il vasto ponte di terra che nei periodi freddi univa l’Asia nord-orientale all’Alaska. L’impressione è che molte storie attendano ancora di essere raccontate sugli antichi spostamenti delle popolazioni umane. 

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