venerdì 29 gennaio 2016

Migrazioni e sistemi di Welfare

Se il magnete sociale non funziona
L’ondata migratoria mette sempre più in crisi i sistemi di welfare degli Stati Ue
di Hans Werner Sinn Il Sole 29.1.16
Il conflitto armato che sta destabilizzando alcuni paesi arabi ha messo in moto un’enorme ondata di rifugiati diretti per lo più in Europa. Nella sola Germania nel 2015 ne sono arrivati circa 1,1 milioni. Al contempo, l’adozione del principio di libertà di circolazione all’interno dell’Europa ha innescato flussi migratori inter-europei di massa, che passano inosservati e dei quali per lo più non ci si occupa. Nel 2014 la Germania ha conosciuto un saldo migratorio netto con l’Ue di 304mila persone provenienti da altri paesi dell’Unione, fatto senza precedenti, e questa cifra, probabilmente, è stata assai simile anche nel 2015.
Alcuni stati membri dell’Ue – tra i quali Austria, Ungheria, Slovenia, Spagna, Francia e altri paesi che in un primo tempo si erano mostrati particolarmente accoglienti, come Danimarca e Svezia – hanno reagito sospendendo di fatto gli Accordi di Schengen e ripristinando i controlli alle frontiere. Gli economisti non si stupiscono poi tanto di ciò. Negli anni Novanta, decine di studi accademici avevano affrontato proprio la questione delle migrazioni negli stati che offrono welfare e prestazioni sociali, evocando molti dei problemi che ormai si vanno chiaramente palesando. Io stesso all’epoca ho scritto molto su questo argomento, cercando, per lo più inutilmente, di aumentare la consapevolezza nei confronti di questo problema tra i politici.
In gioco c’è una questione fondamentale. I welfare state sono definiti dal principio di redistribuzione: coloro che godono di entrate superiori alla media pagano più imposte e contributi rispetto a ciò che ricevono indietro sotto forma di servizi pubblici, mentre coloro che hanno entrate inferiori alla media pagano meno di quanto ricevono. Questa redistribuzione, che drena le risorse pubbliche nette per convogliarle verso nuclei famigliari a reddito più basso, costituisce una correzione sensibile all’economia di mercato, una sorta di assicurazione contro le vicissitudini della vita e la dura legge del prezzo della rarità, che caratterizza l’economia di mercato e ha poco a che fare con la giustizia sociale
I welfare state sono essenzialmente incompatibili con la libera circolazione dei popoli tra i paesi se i nuovi arrivati hanno un accesso immediato e totale alle prestazioni sociali nei paesi che li ospitano. Qualora ciò accadesse, i paesi che li accolgono fungono da welfare magnet (calamite sociali), e possono attirare molti più migranti di quanti sarebbe economicamente consigliabile accogliere, perché i nuovi arrivati ricevono, oltre ai salari, una sovvenzione sotto forma di bonifici. Soltanto se i migranti ricevono unicamente i salari ci si può aspettare un’auto-regolamentazione efficiente del fenomeno migratorio.
Il primo ministro britannico David Cameron ha tratto una legittima conclusione da tutto ciò: il fenomeno del magnetismo sociale non porta soltanto a un’inefficiente distribuzione geografica delle persone, ma per di più erode e nuoce anche alle capacità dello stato che eroga prestazioni sociali. Ecco il motivo per il quale Cameron dichiara di avere il diritto di fissare un limite al principio di integrazione, che si dovrebbe applicare perfino per i migranti economici intra-europei. Dice Cameron che anche nel caso in cui i migranti trovassero un lavoro, soltanto dopo quattro anni dovrebbero avere accesso alle prestazioni sociali offerte dal welfare finanziato dalle entrate fiscali. Ora come ora, un periodo sostanziale di attesa è previsto e in vigore unicamente per i cittadini dell’Ue che migrano per motivi di lavoro e che devono risiedere nel Regno Unito cinque anni prima di conquistare il pieno accesso alle prestazioni sociali pubbliche.
La proposta non si tradurrà necessariamente in una maggiore severità nei confronti dei migranti dall’Ue: essa implica semplicemente che, a prescindere dal tipo di aiuto di cui possono aver bisogno nell’arco dei primi quattro anni, essi dovranno riceverlo dal paese di provenienza. Indubbiamente ci sarebbe molto da dire a favore del mantenimento temporaneo del principio dell’addebito delle spese al paese d’origine, e sulla traduzione di questa disposizione nelle regole dell’Ue: il paese d’origine di un migrante dovrebbe continuare a essere responsabile nei suoi confronti e a fornirgli prestazioni sociali per un certo numero di anni, fino a quando non si potrà applicare il principio di integrazione.
È difficile comprendere perché, per esempio, un tedesco che non può lavorare e usufruisce del welfare tedesco debba essere preso in carico dallo stato spagnolo qualora decida di vivere a Maiorca. E sarebbe altrettanto poco plausibile negare a questa stessa persona il diritto di scegliere il luogo nel quale eleggere il proprio domicilio a suo piacimento soltanto per tutelare lo stato spagnolo. Se intendiamo prendere sul serio il principio della libertà di circolazione delle persone, dovremmo deciderci una volta per tutte a immolare la vacca sacra dell’eleggibilità immediata ai sussidi e alle prestazioni sociali elargite dallo stato ospite.
Quanto detto, naturalmente, non vale per i migranti economici provenienti dai paesi extra-Ue, e ancor meno per i rifugiati, perché in generale il principio del paese d’origine in questi casi è inapplicabile. Ma, per le stesse motivazioni sopra evidenziate, questi migranti non possono essere integrati a centinaia di migliaia nel welfare state senza mettere a repentaglio la vivibilità dell’intero sistema.
In conclusione, sarebbe necessario sostituire al sistema dei sussidi di disoccupazione che prevale oggi, applicabile agli aventi diritto quando costoro restano senza posto di lavoro, un sistema che proponga e offra integrazioni salariali e lavoro a favore della comunità. Ciò consentirebbe di abbassare le spese nette delle prestazioni sociali e di ridurre gli incentivi a migrare. Andrea Nahles, ministro del lavoro tedesco, di recente ha suggerito proprio questo, difendendo ciò che i tedeschi chiamano il concetto del “posto di lavoro a un euro”, che in pratica converte il contributo sociale in un salario.
Si tratta di un consiglio sensato in un contesto per altro estremamente caotico. Se si manterrà la libertà di circolazione all’interno dell’Europa – e se proseguiranno gli afflussi di cittadini extra-Ue – i welfare state europei si troveranno davanti a una scelta ineludibile: adattarsi o soccombere.
(Traduzione di Anna Bissanti)

Suicidio a due velocità
In attesa di passare a Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia di Marco Bascetta il manifesto 29.1.16
Abolire Schengen per salvare Schengen. Il paradosso è servito. L’imponente afflusso di migranti dal Medio Oriente e dall’Africa non sarebbe più compatibile, sono in molti a pensarlo, con la libera circolazione all’interno dell’Ue, di fatto già interrotta dalla decisione unilaterale di diversi stati di ristabilire controlli alle frontiere.
Nessuno ignora, tuttavia, che la fine di Schengen ostacolerebbe anche la circolazione delle merci e della forza-lavoro (anche quella comunitaria) assestando un serio colpo all’integrazione economica e al mercato comune.
Una frontiera nazionale non la si può infatti circoscrivere a una singola emergenza né ricondurre a una regola generale condivisa. È, per definizione, affare della nazione che la istituisce. A questa e solo a questa sono riconducibili i criteri e i metodi di gestione del confine, la larghezza delle sue maglie, i suoi principi di selezione.
Sul confine nazionale si arresta il diritto comunitario. L’involuzione autoritaria in corso nei paesi dell’est potrebbe, per esempio, sbarrare il passo ad altri fattori «inquinanti», quali attivisti transnazionali o altre persone «non grate». L’Unione si è del resto rivelata piuttosto impotente nel contrastare sostanziali deroghe ai principi della democrazia in alcuni dei suoi paesi membri.
Il pericolo è evidente e fioriscono così le formule più varie per salvare il trattato di Schengen da se stesso. Si spazia dall’istituzione di un’area più ristretta di libera circolazione nordeuropea che trasferisce l’idea dell’ Europa «a due velocità» a quella dell’Europa «a due confini» (sancendo così definitivamente la frattura tra nord e sud e la fine dell’Unione) fino all’ipotesi di sospendere l’accordo per due anni.
Quanto basta per renderlo un evanescente ricordo.
Non sono che miserabili tentativi di dare una copertura europea alla dilagante riscossa degli egoismi nazionali e all’incapacità di tenerli sotto controllo. Dall’Olanda si propone la deportazione forzata dei profughi verso la Turchia (un buco nero dentro al quale nessuno ha interesse a gettare uno sguardo), mentre la Svezia annuncia 80.000 espulsioni via charter.
Missione impossibile, aldilà dei suoi intenti propagandistici, destinata comunque a protrarsi per decenni. Altro che «emergenza».
Alla fine la tempesta si abbatte sul reprobo per antonomasia, il governo della Grecia.
Che la chiusura delle frontiere escludono di fatto dall’area Schengen dalla quale Bruxelles minaccia di escluderla anche di diritto se non saprà difendere come si deve il limes dell’Unione. Le pressioni erano partite dalla ministra degli interni austriaca Johanna Miltk-Leitner che aveva accusato la marina greca di non fare abbastanza per contrastare gli sbarchi.
La risposta da Atene è stata netta: «Che dovremmo fare, affondare le imbarcazioni stracolme di rifugiati?» Forse a Vienna farebbe maggior comodo un governo di Alba Dorata, ben più adeguato a svolgere questo genere di funzioni. Per la seconda volta in pochi mesi, è in Grecia che lo stato in cui versa l’Unione europea, per non dire la sua natura distorta e squilibrata, viene pienamente in luce. Nonché il filo che lega la crisi dei debiti sovrani con quella dei migranti.
Intanto i segni di imbarbarimento proliferano un po’ ovunque. Lasciando anche da parte quei paesi dell’est che dichiarano apertamente la propria divergenza dai modelli democratici occidentali, nella civile Danimarca la ministra dell’immigrazione Inger Stojberg interpreta fieramente il suo mandato con il compito di rendere la vita impossibile ai rifugiati tramite drastiche restrizioni del diritto di asilo e sadiche vessazioni quali il sequestro di tutti i beni in possesso degli immigrati che eccedano il valore di 1.340 euro. Misura infame analoga a quella, ancor più esosa, adottata dall’extracomunitaria Svizzera.
La Gran Bretagna, sempre più blindata, accoglierebbe solo qualche migliaio di minori non accompagnati, passati attraverso il filtro dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu.
L’orrore procede per slittamenti progressivi sempre più rapidi e inquietanti. E mentre tutto questo apparato di discriminazioni e respingimenti viene spacciato come strumento per sedare l’allarme dell’opinione pubblica ottiene il risultato diametralmente contrario: quello di alimentarlo insieme all’ostilità verso gli stranieri agendo come una implicita legittimazione dei sentimenti xenofobi.
Non passa giorno che banali episodi di vita quotidiana non si trasformino in eclatanti allarmi terrorismo. In Germania, secondo gli organi di sorveglianza, migliaia di attivisti dell’estrema destra sarebbero pronti ad azioni violente contro i rifugiati.
A questa gestione «protezionista» della crisi se ne affianca però un’altra, tutto sommato meno ipocrita anche se complementare.
Se ne fa interprete il capo economista della Deutsche Bank David Folkerts-Landau secondo cui la discriminazione deve essere portata dentro i confini dell’Unione. Il flusso migratorio suggerisce, a suo parere, di abolire il salario minimo e il principio di uguale retribuzione per uguale prestazione.
I rifugiati, insomma, nel bisogno impellente di trovare lavoro in seguito alla negazione dei sussidi, dovrebbero ottenere un salario inferiore a quello dei lavoratori tedeschi. Questo bacino di forza lavoro a basso costo consentirebbe allora di ricondurre in patria produzioni delocalizzate e costituirebbe una formidabile attrattiva per gli investimenti.
Insomma un ulteriore fattore a favore della competitività dell’economia germanica. Una combinazione vincente di interesse nazionale e profitti. Che scatenerebbe però aspri conflitti su un mercato del lavoro giocato tutto al ribasso.
Cosicché sarà un delicato equilibrio tra filtraggio dei migranti e bisogno di mano d’opera, necessariamente regolato da un confine, a guidare la politica di Berlino, ma non a tenere insieme l’Europa. Che mai è stata debole e instabile come lo è oggi. E che con la fine di Schengen, in un modo o nell’altro, si avvia verso l’insussistenza.

La crisi migratoria rivela chi siamo veramente
di Lucio Caracciolo Repubblica 29.1.16
È nelle crisi che riveliamo chi siamo. C’è da temere per il nostro futuro, se siamo quelli che sembriamo essere oggi.
STRETTI nella morsa della crisi migratoria e della minaccia terroristica — spesso assurdamente presentate come due facce della stessa medaglia — c’è da temere non tanto per il futuro dell’Unione Europea: che fosse un guscio vuoto, senz’anima né orgoglio, era già evidente prima di questa doppia sfida. In questione è ora il carattere delle nostre democrazie. Nessuna esclusa. Più precisamente: che ne è dei valori di libertà e di tolleranza ricamati nelle nostre costituzioni e fieramente esibiti al mondo come paradigma di civiltà?
È la cronaca che ci impone questa dolorosa interrogazione. Ieri il governo di Stoccolma ha annunciato che rispedirà in patria — una patria ridotta a cumulo di macerie — ottantamila richiedenti asilo. Eppure la Svezia è una delle più solide democrazie continentali, che ha sempre generosamente accolto migranti d’ogni colore. E dove fino allo scorso anno il centrodestra affrontava in campagna elettorale la questione migratoria con lo slogan “Aprite i vostri cuori!”. Oggi non salterebbe in mente nemmeno alla sinistra.
La pulsione xenofoba, particolarmente diffusa tra Mar Baltico e Mar Nero — la fascia continentale più sfidata da imponenti flussi migratori — investe persino le due maggiori democrazie continentali: Francia e Germania.
A Parigi, un governo di sinistra, nel finora malriuscito tentativo di sottrarre consensi al Fronte Nazionale, si spinge a rivedere la Costituzione in senso securitario sull’onda emotiva delle stragi del 13 novembre. Le dimissioni del ministro della Giustizia Christiane Taubira — contro la proposta revoca della nazionalità ai cittadini con doppio passaporto, nati in Francia e colpevoli di terrorismo — sono un’eccezione che non modificherà la regola.
A Berlino, dopo i fatti di Colonia i sondaggi danno Alternativa per la Germania ben oltre il 10 per cento: nel prossimo Bundestag avremo per la prima volta dopo la fine della Seconda guerra mondiale una forte destra ipernazionalista e antieuropea. Con cui la signora Merkel, sotto tiro nel suo stesso partito per l’iniziale apertura ai migranti, dovrà fare necessariamente i conti. In tutta Europa vige ormai la prassi dello scaricamigrante, secondo una rigorosa direttrice Nord-Sud. Chi sta più a Settentrione cerca di bloccare il migrante — per quattro quinti profughi in fuga da Siria, Iraq, Afghanistan e altre zone di guerra — per rispedirlo al vicino meridionale. Un quarto di secolo dopo l’abbattimento del Muro di Berlino risorgono barriere fisiche e informali, dal filo spinato ai cordoni di polizia ed esercito. Schengen è di fatto sospesa in una mezza dozzina di Paesi. L’Unione Europea rischia di trasformarsi in arcipelago di ghetti. Incomunicanti e ostili. In alcune cancellerie europee si dibatte su come trasformare la Grecia in gigantesco campo profughi, cacciandola dal sistema Schengen visto che non siamo (ancora) riusciti ad espellerla dall’eurozona. Qualcuno propone di affondare le barche dei migranti.
Dovunque latita una strategia di medio periodo e si preferisce trattare questo dramma quasi fosse un’emergenza, non per quello che è: parte decisiva della nostra vita di qui al futuro prevedibile.
Nessun leader politico pare disposto a considerare un’alternativa razionale all’attuale deriva securitaria. Per esempio selezionare nei Paesi di frontiera con l’Unione Europea, a cominciare dalla Turchia, chi ha diritto ad essere accolto come rifugiato in casa nostra e chi invece non può aspirarvi. Ricevendo civilmente i primi e remunerando adeguatamente i paesi esterni all’Ue che dovranno continuare a ospitare diversi milioni di donne, bambini e uomini. I quali non hanno più casa loro e difficilmente ne avranno un’altra.
Nelle prossime settimane il clima è destinato a peggiorare. Sta infatti per scattare, salvo ripensamenti improbabili, la nuova spedizione militare franco-britannica-americana, con qualche partecipazione italiana, in quel che resta della Libia. Obiettivo: sradicarvi lo Stato Islamico. Il quale non aspetta di meglio per ostentarsi campione della resistenza libica contro i crociati occidentali. E per scatenare le sue cellule europee contro gli “invasori”. Gettando nuova benzina sul fuoco delle xenofobie nostrane, in un circuito perverso di azioni e reazioni irrazionali.
La storia dimostra che l’angoscia collettiva è un mostro difficilmente addomesticabile. Ma rinunciare a combatterlo, per chi si professa democratico e liberale, equivale al suicidio politico. 

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