venerdì 22 gennaio 2016

Una simpatica rassegna su "specismo", "post-antropocentrismo", "post-umano" e veganesimo...

Non abbiamo ancora liberato gli uomini e le donne - anzi, abbiamo rinunciato ad ogni emancipazione politica reale - e siamo alla "liberazione animale" [SGA]. 

Ai margini della specie 
Tempi presenti. I rapporti tra umani e non umani ha visto il dominio dei primi. Una supremazia che volge al tramonto. Un sentiero di lettura. Liberazione animale, veganesimo, attitudine queer. L’incontro tra teoria e prassi militante ha determinato un cambio di paradigma
Alessandra Pigliaru Manifesto 22.1.2016, 0:30 
Quando nel 1975 Peter Singer pubblica il suo Liberazione animale lo specismo assume i termini di una questione non più rinviabile. Seppure da un punto di vista utilitarista, il contributo del filosofo australiano ha potuto mostrare la violenza di quell’abito mentale secondo cui la specie umana si autoproclama superiore alle altre e, in nome di tale protervia, ritiene di poter disporre a piacimento della vita e della morte di altri viventi non-umani. In questo senso, l’emergere del movimento filosofico antispecista è anzitutto una posizione contraria a qualsiasi forma di sfruttamento e prevaricazione dell’umano sul non-umano. Che l’assunto antispecista comprenda anche quello animalista è dunque un dato, che invece quest’ultimo sia anche antispecista non è così scontato. L’antispecismo e l’animalismo sono termini del discorso che certo si implicano vicendevolmente ma non sono equivalenti, anzi devono essere dipanati e posti dialetticamente al confronto di quelle che sono diventate posizioni differenti, soprattutto nella discussione pubblica italiana. Che queste posizioni siano perlopiù riferibili a luoghi concettuali con ripercussioni pratiche è un’ulteriore questione di cui tenere conto.  
Sta di fatto che, da qualche anno a questa parte, l’intensificarsi di pubblicazioni, eventi e progetti con tema antispecista, insieme a intersezioni potenti con il post-antropocentrismo, quindi postumano, liberazione animale, veganismo, configurano un paesaggio tra i più vitali e radicali della scena contemporanea. Pensiamo per esempio a tre riviste italiane, tra le tante, centrali per orientarsi sui temi dell’antispecismo e della liberazione animale: Liberazioni, con una convergenza tra teoria e attivismo, aspetto quest’ultimo che resta comunque prediletto. Così Animal Studies che ha nel nome l’intento stesso e Animot, rivista di filosofia alla luce della messa in mora dell’antropocentrismo. 
Una prolifica convergenza 
Tre esperienze diverse, spesso nate dal desiderio di giovani ricercatori e attivisti, che offrono un orizzonte complesso entro cui collocare le riflessioni antispeciste oggi. La narrazione è dunque da interrogare con cura, non rappresenta infatti solo una scena multiforme di precisazioni teoriche ma anche di pratiche, con una permeabilità – sempre più auspicabile – tra teoria e attivismo. 
Per chiarirsi intorno a un panorama su cui spesso si tende a fare confusione, prima di tutto storica, tra le letture ormai divenute classiche, oltre Singer, c’è Tom Regan che nell’83 con I diritti animali (Garzanti) ha ampliato la discussione sugli animali come soggetti di vita. È tuttavia con il lavoro politico di David Nibert e il suo Animal Rights/Human Rights, volume del 2002 mai tradotto in Italia (Rowman & Littlefield), che vengono segnalate per la prima volta le connessioni tra i vari movimenti. 
Quali sono i nodi che attraversano il controverso tema dello specismo? Per Roberto Marchesini la decostruzione dell’ideologia specista passa per la demolizione del paradigma antropocentrista in cui è lo stesso concetto di umano a essere guastato, frutto di una universalizzazione che ha condotto a diversi cortocircuiti. Ci vuole invece una ontologia relazionale in cui l’animale non si presenti più come il gorgo scuro entro cui specchiarsi o proiettare se stessi ma la risorsa imprevista dell’incontro con l’altro da me; pensiamo per esempio ai suoi Contro i diritti degli animali? Proposta per un antispecismo postumanista (Sonda) e ad Epifania animale (Mimesis). 
La resistenza dei viventi 
 È tuttavia di Bruno Accarino il contributo più recente, in forma di collettanea, dal titolo Antropocentrismo e post-umano (Mimesis) in cui si fa il punto sul vacillare di una categoria, così radicata nel pensiero occidentale, al cospetto di una sempre più stringente domanda critica: «se l’antropocentrismo è quasi inevitabilmente sinonimo di sconfinamento, vale la pena mettersi in cerca delle zone di vulnerabilità, che a quell’arroganza dovrebbero assestare un duro colpo». Categoria assai frequentata, il postumano ha in sé oggi la risorsa delle «combinazioni variabili» come nel caso di waitingposthuman​.com, progetto coordinato da Leonardo Caffo, che attraversa la ricerca filosofica e urbana, l’architettura, l’arte contemporanee.
Se la domanda verte sulle sorti di un ripensamento dell’umano, incoraggiandone un superamento, altrettanto efficace sarà interrogarsi se e per quanto questa cosiddetta umanità sarà capace di non fare collassare anche l’ultimo barlume di resistenza dei viventi e della terra in cui capita di abitare. Quando nel 2002 il chimico Paul Crutzen ha chiamato la nostra era geologica «antropocene», in quell’anthropos è più che evidente si potesse già riscontrare una forza devastatrice con conseguenze letali per tutti, umani e non-umani, in cui tuttavia attraverso un lavoro critico radicale da «agenti biologici» possiamo diventare «agenti geologici» – come ha avuto modo di segnalare Rosi Braidotti nel suo Il postumano (DeriveApprodi). 
In chiave postcoloniale dalle pagine di Critical Inquiry, Dipesh Chakrabarty apriva già nel 2009 una riflessione sull’antropocene con l’ipotesi di una svolta verso la combinazione tra storia geologica e storia socio-economica in cui accostare le teorie storiche del soggetto al pensiero della specie. Per altri versi, a ragionare sull’idea di un futuro senza di noi, è anche la giornalista del «New Yorker» Elizabeth Kolbert in un volume del 2014, La sesta estinzione (Neri Pozza) e che le è valso il Pulitzer 2015 nella categoria «Nonfiction». La storia, dice Kolbert, «rivela che la vita è dotata di una resilienza estrema, ma non infinita». 
Il sesso della carne 
Del resto, la «macchina antropologica» descritta da Giorgio Agamben nel suo L’aperto. L’uomo e l’animale (Bollati Boringhieri) gira a vuoto ormai da parecchio tempo: «il conflitto politico decisivo, che governa ogni altro conflitto, è, nella nostra cultura, quello fra l’animalità e l’umanità dell’uomo». Se il conflitto, al di là delle differenze singolari, è originariamente assunto dall’antispecismo come forma di lotta all’oppressione animale, allora è chiaro come l’antispecismo sia già politico, in ogni modo lo si voglia poi declinare nelle sue intersezioni con altri movimenti; se il rapporto tra animalismo e femminismo risulta fecondo nei paesi anglosassoni – basti pensare a un saggio del 1990 di Carol J. Adams, The Sexual Politics of Meat che nella primavera verrà tradotto in italiano per Sonda – anche l’ecologismo e l’ambientalismo hanno storicamente qualcosa da spartire con la critica al dominio capitalistico, nelle sue numerose aberrazioni. Tuttavia, per creare alleanze efficaci, sono sufficienti le convergenze di liberazione politico-sociale? 
Comprendere la questione animale come radicalmente legata a dispositivi di classe e dominio implica certo la presa in carico del problema dello sfruttamento e della violenza inferta agli altri viventi non-umani. Se si può concorrere a una liberazione di cui si può avvantaggiare anche l’umano, può essere ignorata la dimenticanza esiziale in cui gravita quando fa finta di non essere egli stesso animale? Su questi aspetti ha riflettuto tra gli altri Marco Maurizi in due libri del 2012: Al di là della Natura: gli animali, il capitale e la libertà (Novalogos), Asinus Novus: lettere dal carcere dell’umanità (Ortica). E se un anno più tardi, dopo vari contributi sul tema, l’interessante libro di Felice Cimatti, Filosofia dell’animalità (Laterza), affronta con rinnovata attenzione la relazione umano/non-umano, la discussione italiana sull’antispecismo ha un ulteriore motivo di dibattito grazie al fortunato volume di Leonardo Caffo, Il maiale non fa la rivoluzione: manifesto per un antispecismo debole (Sonda) – in edizione ampliata a fine marzo a cura di Beatrice Scutari. Con «antispecismo debole», Caffo attua infatti uno spostamento critico sulle tesi classiche riconducendoci dinanzi alle questioni filosofiche, morali ed etiche, che vanno interpellate al fine di «liberare ogni singolo animale sfruttato per motivi non necessari e, spesso, irrazionali». 
L’onda queer 
Trovarsi al cospetto della sofferenza animale non pone dei quesiti solo di carattere morale ma va a scardinare numerose strategie retoriche; una fra tutte è quella della cosiddetta «carne felice», costruita per rassicurare chi è abituato a una dieta carnea e che si illude di poter consumare non animali «da reddito», nati unicamente per abitare gli allevamenti intensivi, bensì cresciuti con una certa benevolenza etica. A replicare, un libro che non è bello solo nel titolo: Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali (Mimesis), a cura di Massimo Filippi e Marco Reggio (recensito qui il 28/07/15) in cui il nesso tra antispecismo e queer è rilevante, come del resto da qualche anno a questa parte sta accadendo anche in altri contesti: Il Manifesto Queer Vegan (Ortica), scritto da Rasmus Rahbek Simonsen, analizza «la potenzialità del veganismo di perturbare la solida e radicata concezione secondo cui virilità e carnivorismo sono aspetti naturalmente collegati, anche in senso genealogico». Dunque non più il pericolo di cadere in una forma identitaria bensì l’avvicinamento straniante con il queer, «un incessante scardinamento di ciò che viene dato per scontato e la sistematica violazione di ciò che è considerato familiare». 
Differenti vulnerabilità 
Nel corso dei secoli la dieta carnea, secondo Simonsen, ha rappresentato infatti l’affermazione della propria indistruttibile e possibilmente sanguinolenta virilità. Una struttura «simbolica e ideologica» che si è imposta legittimando specularmente il consumo di carne e l’eteronormatività obbligatoria. Tenendo conto di questi aspetti, è da leggersi anche il Manifesto animalista proposto da Paul B. Preciado e pubblicato in traduzione italiana nell’ottobre 2014 per «Internazionale». 
Allora, quando parliamo di antispecismo, che cosa stiamo dando per scontato? Forse basterebbe sfogliare le migliaia di immagini scattate in giro per il mondo da Jo-Anne McArthur, attivista e fotoreporter autrice di Noi animali – We animals (Safarà), per capire che i corpi dei viventi, umani e non-umani, sono dotati di vulnerabilità differenti. E di una forza sovversiva difficile da descrivere se non come gli animali che dunque siamo, nonostante tutto, o che possiamo diventare.


Intellettuali di tutto il mondo non mangiate più gli animali Si possono difendere i diritti umani tralasciando quelli degli altri esseri ? Filosofi e scienziati si dividonoMARINO NIOLA Repubblica 25 1 2016
Intellettuali progressisti, convertitevi al veganesimo! Non potete più perseverare nella vostra etica double face. Rigorosa in materia di libertà civili e di diritti umani, ma indifferente verso gli animali e le loro sofferenze. A lanciare l’appello è stato il medico e psichiatra australiano Steve Stankevicius. Che sul magazine online “Salon”, avamposto del giornalismo d’autore, ha richiamato alle loro responsabilità i maggiori opinion leader del mondo anglosassone. In particolare gli esponenti del cosiddetto New Atheism, come il neuroscienziato Sam Harris e il biologo Richard Dawkins che, insieme al compianto Christopher Hitchens, rappresentano lo zoccolo duro, anzi durissimo, dell’intellighenzia laica americana. In realtà ad offrire il destro agli argomenti di Stankevicius è stato
proprio Sam Harris che ha compiuto un pubblico atto di resipiscenza nel corso di un episodio del podcast Waking Up. Conversando lo psicologo morale Paul Bloom su argomenti come la tortura, la caccia e altre crudeltà, si è autoaccusato di ipocrisia per il fatto di essere carnivoro.
Il che, per un sostenitore intransigente della necessità di una nuova etica pubblica improntata al rispetto e alla convivenza, è quanto meno contraddittorio. Harris lo ha ammesso senza mezzi termini aggiungendo che interrogarsi sulle conseguenze morali del proprio stile di vita è un compito cui un cittadino responsabile non può sottrarsi. Soprattutto in un mondo interconnesso come il nostro, in cui ogni scelta individuale ha delle ricadute sulla società e sull’ambiente. La confessione, si sa, è l’inizio della redenzione. E così è stato per Harris, che dopo l’outing ha annunciato di voler rinunciare ai piaceri della carne. Una svolta vegana dettata da ragioni etiche più che dietetiche. E un altro irriducibile liberal, come il biologo Richard Dawkins, si è spinto ancora più lontano. Paragonando la portata morale della lotta contro gli allevamenti intensivi a quella che due secoli or sono ebbe la battaglia contro lo schiavismo.
Forse è questo il nuovo compito del pensiero critico. Bilanciare il giusto peso dei diritti umani con quello altrettanto giusto dei diritti animali. Un passo decisivo verso l’idea di cittadinanza non-umana, che per il momento sembra una fantasia rousseauiana. Ma che in realtà lega le spinte morali e politiche che stanno dietro il vegetarianesimo contemporaneo ad alcune delle grandi correnti del pensiero e della spiritualità occidentali. Da Platone, che vedeva nel consumo eccessivo di carne la causa di guerre per l’accaparramento di terre da pascolo, una forma anticipata di land grabbing.
A Pitagora, che non ammetteva soluzione di continuità tra uomini e bestie e considerava il consumo di bistecche alla stregua del cannibalismo. Perché in entrambi i casi si mangia carne della propria carne. Fino a Plutarco, giustamente convinto che la pietà per i fratelli animali educa gli uomini alla pietà per i fratelli umani.
Ma anche il Cristianesimo delle origini faceva dell’opzione vegetariana una sorta di obiezione di coscienza alimentare. I Padri della Chiesa ipotizzavano un Eden veggie, arrivando a ristilizzare il racconto della vita e delle abitudini di Gesù per farne un modello di penitenza e di rinuncia ai piaceri della carne. È il caso degli Ebioniti – dall’ebraico ebyonim, “poveri” – che reinterpretavano il passo del Vangelo di Luca (22, 15) in cui Cristo dice «ho desiderato mangiare con voi questa Pasqua», facendolo diventare «Non ho desiderato mangiar carne con voi in questa Pasqua». E Taziano, teologo siriano del II secolo e appartenente alla setta gnostica degli Encratiti – cioè i Continenti – nel suo Diatessaron, una fusion neotestamentaria ottenuta mescolando i quattro Vangeli, faceva mangiare a Giovanni Battista solo latte e miele, censurando le proverbiali locuste. Una forzatura a fin di bene. Come quella dei Priscillianisti, un movimento molto radical fondato da Priscilliano di Avila nella Spagna del IV secolo, che attribuivano la creazione di ogni specie di carne non al Dio buono, ma agli angeli ribelli. E in fondo c’è qualcosa di priscilliano nei cosiddetti vegan- sexuals, che in nome del cruelty- free sex (sesso non violento) rifiutano partner carnivori. «Non posso pensare di baciare delle labbra che hanno toccato animali fatti a pezzi», ha detto una donna di Auckland, intervistata nel corso di una ricerca dell’Università di Canterbury e del New Zealand Centre for Human-Animal Studies, che ha analizzato un campione di vegani e vegetariani.
C’è insomma un filo millenario che va dai Pitagorici agli Gnostici, dai Catari fino ai guru neoebionisti del veganismo contemporaneo. Passando per Rousseau, Tolstoj e Gandhi. A dire il vero il liberatore dell’India non è sempre stato vegetariano. Da ragazzo era onnivoro, ma decise di darsi anima e corpo al credo erbivoro dopo aver letto The Ethics of Diet di Howard Williams, un manifesto del vegetarianesimo inteso come religione laica, ispirata al motto “Umanità, giustizia, compassione”. Una vera e propria dichiarazione dei diritti del vivente, contro l’antropocentrismo che fa dell’uomo il signore e padrone, nonché macellaio, del creato. Il libro di Williams aveva folgorato anche Tolstoj che nel 1892, a nove anni dall’uscita della prima edizione, volle tradurlo in russo. Aggiungendovi un’appassionata e visionaria introduzione. In cui sosteneva che non ci si può dire compiutamente umani se non si è capaci di un’autoanalisi etica delle proprie scelte, comprese quelle alimentari.
Una sorta di conosci te stesso finalizzato a quello che l’autore di
Guerra e pace definisce “progresso morale dell’umanità”. Decise di intitolarla Il primo passo. Ed è proprio a compiere quel passo che oggi Stankevicius invita tutti gli uomini di buona volontà. Per progettare l’umanità del futuro.

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