domenica 7 febbraio 2016

Anni '80: l'inizio della barbarie?


Cosa è restato degli anni ’80

Un saggio ricostruisce luci e ombre del decennio che assomiglia di più all’oggi: dal cafonal ai soldi facili un’epoca “spensierata e desolata”

FILIPPO CECCARELLI Repubblica 9 2 2016
Già nella prima metà degli anni ’70 Pier Paolo Pasolini pensava di vivere in «un paese orribilmente sporco»; era una definizione senza speranze, per certi versi aggravata dal fatto che quello stesso paese gli sembrava anche «privo di mobilità, stagnante ». Ora, degli anni ’80 tutto si può pensare, ma non che siano stati all’insegna dell’inerzia o dell’immobilità. È un decennio, anzi è il decennio della grande modernizzazione. Dal bianco e nero, come in tv, l’Italia passa al colore; si attenua il peso delle ideologie, ci si libera del piombo e di parecchi sensi di colpa, si affermano leggerezza e disincanto, arrivano i soldi, e la tecnologia asseconda il passaggio. Tutto bene, dunque. O no?
No, veramente. Senza troppo forzare la suggestiva anticipazione pasoliniana, più si allontana quel tempo, più se ne ricordano le pietre miliari, più si osservano con gli occhi di oggi gli eventi simbolici e le figure rappresentative, e meglio — purtroppo — si comprende il titolo che campeggia sulla copertina della meticolosa ricostruzione di Paolo Morando:
‘ 80. L’inizio della barbarie (Laterza, 231 pagine, 16 euro). E non è per partito preso, né per attitudine gufesca, malumore, snobismo o autolesionismo. Ma perché, come succede nella storia, solo oggi si capisce con nitore che quell’ormai lontana stagione è stata l’incubatrice di quasi tutte le attuali magagne.
Il razzismo, per dire, che non si nasconde più, ma s’è fatto programma politico in jeans e felpa. Ma anche l’esasperato individualismo che ha oscurato la dimensione collettiva e spento ogni partecipazione, con aumento di solitudini e disagio. Oppure l’idolatria del denaro, premessa di ingiustizie, ruberie, corruzione. Per non dire il chiassoso vuoto culturale che a sua volta ha generato conformismo, volgarità e scemenze. Di tutto questo gli anni 80 furono l’aperitivo, o addirittura l’”apericena”, come si legge su qualche insegna al neon.
E forse era inevitabile, o forse è consolatorio. Forse occorre un sovrappiù di memoria e di conoscenza di fronte ai tifosi che mettono a ferro e fuoco le città, alle macchiette che strepitano nei talk show o ai potenti che parlano come i paninari.
Comunque è arrivato il momento di rivedere quando vennero fuori le prime crepe dell’unità nazionale, le prime fratture della coesione sociale, le prime scritte “Forza Etna” sui muri e sui viadotti (1983). Di esaminare col senno di poi la tele-novità costituita da un personaggio come Funari. O collegare certe tendenze giovanili al potere che da allora hanno cominciato ad assumere le merci, i marchi, i consumi.
Così come, dinanzi all’anonima aggressività dei social, può essere utile riscoprire i messaggi che trent’anni orsono intasarono i centralini di Radio radicale; umori e furori che scaricati senza filtri nell’etere rivelarono un’Italia che non solo covava i peggiori sentimenti, ma li esprimeva nel modo più triviale.
Perché tutto cambia, ma pure si ripete; e anche solo il saperlo ricollegandone i fili aiuta più di quanto s’immagini. Anche se l’impressione resta quella — anch’essa pasoliniana — di uno “sviluppo senza progresso” o peggio di una autentica regressione.
È un lavoro denso, questo di Morando, una ricerca instancabile di particolari, uno studio tanto più serio quanto più la materia appare frivola, volatile, a prima vista irrilevante. La documentazione è tratta quasi interamente dai giornali, che assurgono così — era ora! — al rango di compiute fonti storiografiche. Di alcune vicende l’autore segnala, oltre all’impatto di allora, il valore simbolico di oggi; va a cercare i personaggi, li rifà parlare e in tal modo documenta lo scivolamento civile, il senso di una mutazione che ha reso l’Italia irriconoscibile.
Così non si possono ridurre gli anni 80 all’Irpiniagate, al rampantismo craxiano o agli stranguglioni di un Pci allo stremo; come pure pare eccessivo limitarli ai successi di quell’imprenditore milanese che sazio di di fondare città satelliti innovative, si mise in testa di fare i dané con gli spot e si inventò una nuova televisione, non solo a base di culi e tette.
Vero è che le culture politiche erano ormai sul punto di inaridirsi definitivamente, e se pure la Borsa cominciava a distribuire quattrini facili, per giunta a chi neanche se li aspettava, è tutto più complicato: nel decennio saltano distinzioni e generazioni e ogni cosa si mischia e si rivolta.
I testi degli Squallor, il telecomando, l’aumento del debito pubblico, il fumetto Lando (pudicamente l’autore omette il grazioso patronimico: Lo Scassabernarde); e poi ancora la “Milano da bere” del Ramazzotti, gli intrecci di Dallas, l’elezione di Cicciolina, il caso della prima baby pensionata, le copertine di Capital e di Class, lo «schifo» del ministro Visentini per le denunce dei redditi. E ancora, i “ vu cumprà”, Il Giudizio Universale di Cuore, le hot-line e il sesso telefonico. Fino all’uccisione di un ragazzo venuto dal Sudafrica, Jerry Masslo, che prima di incontrare la morte a Villa Literno farà in tempo a essere intervistato per ben due volte, ed è lui, proprio lui che intuisce: «C’è proprio che sta accadendo qui in Italia».
“Barbarie” è una parola antica e impegnativa, buttata lì rischia pure l’effettaccio, ma alla fine non è sprecata; e la riprova di questa apocalittica espressione sta nella circostanza che su molte delle storie di quel decennio rivisitate da Morando è calato l’oblio. Nessuno le ricordava più, la mente le aveva oscurate, cancellate; e l’impressione, il dubbio, il sospetto è che dentro lo smottamento che a quel tempo confusamente si percepiva era compresa la fine della memoria, l’impossibilità di saper cogliere la lezione del passato, la speranza stessa di cogliere nella storia anche dei bagliori di futuro.
È strano quanto poco sia rimasto, almeno in superficie, di quell’epoca insieme spensierata e desolata. E quel poco sembra prenderselo tutto la nostalgia, il vintage, un tempo insieme idealizzato e conservato sotto vetro. Canzonette, gelati, merendine, la vittoria della Nazionale ai mondiali, i primi videogiochi, la cinta del Charro, gli spogliarelli in tv, a tarda notte...
In realtà è proprio negli anni ’80 che si andavano allestendo il palcoscenico, le luci, il fondale e la platea per le prove generali di una nuova società senza più ferrigni ideali né orizzonti nazionali, pronta a essere dominata dalla rivoluzione tecnologica.
Dal saggio di Morando si capisce che in pochi lì per lì se ne rendono conto; ma salvo rarissime eccezioni — d’obbligo citare qui un brano di Enzo Forcella sull’immigrazione — quei pochi che comprendono lo spirito del tempo sono anche gli stessi destinati a ottenere successo, ad accumulare miliardi, a conquistare il potere e a tenerselo quel tanto che basta a dannarsi l’anima.
Si dirà: è sempre andata così, e in parte è anche vero. Ma questo non toglie che riandare a quel periodo, osservarlo con la consapevolezza che in quegli anni si formarono i giovani governanti che oggi guidano l’Italia, fa un curioso effetto, mette un filo di ansia o di spaesamento. E anche qui viene da pensare che sarebbe giusto che proprio loro, per la responsabilità che ora gli compete, leggessero, rileggessero o almeno dessero un’occhiata a quelle storie che sono accadute trent’anni fa, quando ogni certezza cominciava a ballare al ritmo della discomusic.
Meglio sapere, peggio ignorare. Che furono d’altra parte anche anni di estrema vitalità, di sacrifici individuali, di scoperte perfino rassicuranti. L’archeologia del passato prossimo è sempre relativa, così come i laboratori del presente serbano spesso le migliori sorprese al futuro, e il pessimismo è quasi sempre giustificato, ma da solo non basta mai e avvizzisce i sentimenti.
«Questo paese non si salverà» si legge in uno degli ultimi discorsi di Aldo Moro. Chissà cosa avrebbe pensato, povero Moro, insieme con Pasolini, di questo periodo così vicino e così lontano. Intanto il tempo scorre e comincia a diventare difficile trovare qualcuno o qualcosa che ricordi cosa accadeva veramente prima di questi benedetti e maledetti, infelici e lietissimi anni ’80.

Sottoculture anomale e onnivore 
SCAFFALE . «’80. L’inizio della barbarie», un saggio di Paolo Morando per Laterza. Un decennio che cancellò la stagione dell’impegno politico in nome dell’edonimso. E che aprì la porta al berlusconismo 
Riccardo Mazzeo Manifesto 25.2.2016, 0:10 
Il nuovo libro di Paolo Morando – ’80. L’inizio della barbarie, Laterza, pp. 242, euro 16 — è una preziosa ricostruzione archeologica del decennio che, dopo la parentesi della politicizzazione della vita sociale, ha impresso una sterzata decisa al modus vivendi degli italiani accentuando il distacco dalle «grandi riflessioni», dall’idea di un’azione condivisa e da qualunque impresa collettiva. Si è entrati mani e piedi in una specie di Schlaraffenland, il Paese della Cuccagna di Brügel, in cui tutti i desideri minuti sarebbero stati soddisfatti, mettendo alla porta i pensieri, le preoccupazioni, lo spirito critico così faticoso, così ostico. 
Descrivendo le varie incarnazioni di questo nuovo corso, dall’Italia «nordista» a quella «paninara», da quella «becera» a quella «rampante» e a quella «razzista», attingendo da uno sterminato repertorio giornalistico con cui si è confrontato certosinamente per sei anni, Morando ci fa toccare con mano in un tripudio di dettagli ora divertenti ora raccapriccianti l’abbruttimento di un Paese che sembra aver gettato alle ortiche qualunque senso etico e che, ciascuno per sé, si è concentrato esclusivamente sui piaceri individuali. 
Il volume permette due «re-visioni» del recente passato: la prima riguarda la situazione specifica dell’Italia e degli italiani, l’altra coinvolge l’Europa e l’intero Occidente. Dopo Craxi, la «Milano da bere» e il ventennio berlusconiano, l’elezione di Pisapia a sindaco di Milano indusse due giornalisti italiani di vaglia, Michele Serra e Massimo Gramellini, l’uno indipendentemente dall’altro in assoluta contemporanea, ad affermare che un periodo inglorioso si era concluso. Come se l’anomalia fosse consistita nella deriva narcisistica e cinica della fase avviata con gli anni Ottanta. Ma è andata sul serio così? 
L’egemonia sottoculturale così brillantemente descritta da Massimiliano Panarari nel suo libro dal titolo omonimo del 2010 che recava come sottotitolo L’Italia da Gramsci al gossip, ovvero gli ultimi trent’anni di storia italiana, è un’anomalia, una svisatura oppure la eccezione risiede negli anni che quegli Ottanta hanno preceduto?
Roberta Monticelli nelle prime cento pagine de La questione morale descrive alcune caratteristiche degli italiani che si sono mantenute nel tempo da Guicciardini a oggi: dal culto del «particulare» e della assidua ricerca di un qualche potente, di un qualche protettore che garantisse con la sua benevolenza ottenuta in cambio della propria servitù quel posticino tranquillo, quella serie anche circoscritta di agi e piaceri a cui nessuno intendeva rinunciare, alle sconsolate parole di Giacono Leopardi nello Zibaldone che faticava a sopportare la miseria morale e la sistematica prostituzione dei suoi connazionali, fino all’identificazione con Mussolini, il padre forte e rassicurante che indusse la quasi totalità degli italiani a proclamarsi fascista (salvo defascistizzarsi in tutta fretta all’indomani della disfatta militare e del cambio di regime con il medesimo intento: un angolino riparato in cui poter badare ai casi propri e, se non è chiedere troppo, trafficare un po’ per migliorare la propria posizione). Questo, per quanto riguarda nello specifico il nostro Paese. 
Allargando lo sguardo, la «barbarie» di cui parla con divertita e avvertita ironia Paolo Morando dipende dalla mutazione genetica che ha subito il costrutto di «cultura». Zygmunt Bauman lo ha ricordato in più occasioni, fotografando il passaggio dall’essere «univori», ovvero selettivi, all’attuale propensione a essere «onnivori», la categoria così caratteristica del nostro nuovo «decisore» Matteo Renzi. Qualche decennio fa Pierre Bourdieu descriveva i «tesori» della cultura come appannaggio degli «eletti», di coloro che potevano occuparsi della bellezza ed erano gli unici detentori dei suoi significati visto che erano loro a decretare dove si trovasse la bellezza, che cosa fosse, giacché erano loro stessi che l’avevano inventata, identificata, motivata, santificata. 
Ma già molto tempo prima di Bourdieu, che ne tratteggiava gli strascichi, con la nietzschiana «morte di Dio» le decisioni, anche riguardo a ciò che merita di essere celebrato, erano diventate appannaggio di ciascun essere umano liberato dalla trascendenza o condannato a sorreggere sulle spalle la croce della propria libertà di essere gettato nel mondo. E Bourdieu ha potuto commentare il travaso del lessico della cultura dalle regole alle tentazioni, dalle norme alle seduzioni, in un vertiginoso cibreo di permanente rinnovamento dove, come l’Angelo della Storia del disegno di Paul Klee descritto da Benjamin, tutti guardano con ribrezzo al passato, terrorizzati però nel dover rivolgere lo sguardo a un futuro dall’orizzonte piombato. Dalle monosfere delle religioni monoteistiche e dai totalitarismi che di nuovo si affacciano con Daesh alle «schiume» descritte dal filosofo tedesco Peter Sloterdijk su cui dobbiamo imparare nostro malgrado a saettare, forse gli occidentali dovrebbero fischiettare un po’ meno e ricominciare a pensare un po’ di più.

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