domenica 7 febbraio 2016
Il ceto politico della Rivoluzione francese: approccio antropologico e psicopatologico p storico-sociale?
Risvolto
Dal 14 luglio 1789 fino alla caduta di Robespierre, la Francia vive
cinque anni di sconvolgimenti che rifondano lo Stato e la società,
fissano nuovi valori di riferimento, suscitano una straordinaria
adesione. Se molto è stato scritto su questo evento fondatore, meno si è
indagato sugli uomini che ne sono stati gli artefici: i rivoluzionari.
Chi erano questi uomini comuni che si impegnarono in un percorso spesso
senza ritorno? Quando si manifestò in loro la prima presa di coscienza
di rivoluzionari? Quando ruppero i ponti psicologici con il passato e si
proiettarono verso un futuro tutto da immaginare? Quali furono le
modalità di adesione, i meccanismi di attrazione o di repulsione
attivati dalla rivoluzione? E una volta entrati in questa dinamica, fu
possibile uscirne? Analizzando gli elementi che contribuiscono a formare
la complessa personalità del rivoluzionario, Haim Burstin offre una
sequenza delle emozioni e delle aspettative suscitate da una rivoluzione
in cammino e mostra come tali tensioni entrino in un particolare
sistema di creazione del consenso e di affermazione di un’egemonia
politica. Un approccio di tipo antropologico che consente di far nuova
luce su una tempesta che ha trasformato il mondo.
Antropologia dell’assalto al cielo
Storia. Per forgiare l’«uomo nuovo», il 1789 impose diversi rapporti tra individui e collettività: «Rivoluzionari», di Haim Burstin per Laterza, una analisi che, tuttavia, non spiega il Terrore
Francesco Benigno Alias 7.2.2016, 6:00
La rivoluzione non è un pranzo di gala: non a caso questa famosa frase di Mao Tse-tung è ricordata nelle prime pagine del nuovo libro di Haim Burstin, Rivoluzionari Antropologia politica della rivoluzione francese (Laterza, pp. XVII-317, euro 25,00), che consiste, infatti, di una riflessione impegnata sulla natura drammatica dell’evento rivoluzionario, e di una meditazione accorata su chi siano davvero gli attori di quell’avvenimento, i protagonisti del dramma. Passata l’epoca dei furori ideologici e raffreddato il tema, oggi molti storici provano a indagare la vicenda rivoluzionaria concentrandosi sulla sua dimensione esperienziale.
Burstin – che sulla rivoluzione aveva già scritto un poderoso volume concentrato su un quartiere parigino in quegli anni (il Faubourg Saint-Marcel), oltre a pregevoli ricerche sui famosi Sans-culottes – si sforza di sfuggire alla ricorrente tendenza a vedere nei rivoluzionari degli idealisti sognatori di un mondo migliore o, al contrario, dei machiavellici guastatori della douceur de vivre d’antico regime. Per lo storico italiano, giustamente, i rivoluzionari non sono angeli e nemmeno demoni ma semplicemente uomini che il vivere in rivoluzione ha cambiato e plasmato. Sfuggire tanto al «catechismo» dogmatico (che vede la rivoluzione come tappa ineludibile di un percorso prefissato, orientato in direzione del «sol dell’avvenire») quanto alla scomunica revisionista (che guarda alla rivoluzione come a un crogiuolo malefico, brodo primordiale del totalitarismo) è possibile se, ci dice Burstin, si imitano gli antropologi e ci si immerge, per quanto ci consentono le fonti, nel «vissuto» rivoluzionario.
La chiave di questa attitudine all’ascolto, di questa sorta di esplorazione dei costumi, dei gesti degli umori e delle passioni dei rivoluzionari, è infatti la tecnica antropologica dell’osservazione partecipante, un avvicinare da presso l’agire rivoluzionario, che richiede, se non proprio una relazione di tipo empatico (la Rivoluzione Francese, usava dire Alphonse Aulard, pour la comprendre il faut l’aimer), almeno un rapporto non repulsivo.
Oggi, scrive Burstin, che confessa di non avere alcuna nostalgia «dei tempi avvelenati dello scontro ideologico, dell’invettiva, dell’ostracismo, delle battaglie mediatiche, delle delegittimazioni reciproche» e di ritrovarsi a suo agio nella più libera dimensione post-ideologica del dibattito storiografico apertasi con la caduta del muro di Berlino, questo è più possibile di ieri. C’è da crederlo, visto che lui, allievo di Albert Soboul, alfiere della storiografia marxista tra gli anni ’50 e ‘70, quegli scontri ideologici e quelle battaglie ideali li ha vissuti personalmente.
Il risultato principale di questa maggiore libertà o di quel disincanto che con qualche velato imbarazzo gli rimprovera Claude Mazauric, ultimo esponente della intepretazione ortodossa della scuola di Soboul, è uno sguardo che attraversa senza scomporsi l’insieme delle contraddizioni generate dalla tensione utopica di cui è permeata la rivoluzione: e che perciò scruta con pari attenzione tanto l’urgenza del cambiamento quanto le sorde resistenze che esso genera, l’entusiasmo rivoluzionario così come la sua retorica, l’allargamento della democrazia proprio come la proliferazione anarchica degli organismi, la febbre partecipativa e insieme anche l’assenteismo, lo slancio rivoluzionario ma anche la chiusura oligarchica, l’apprendistato alla democrazia e le tecniche di prevaricazione delle minoranze militanti, le richieste di trasparenza fianco a fianco all’ossessione del complotto, l’ebbrezza di una libertà inaudita mescolata allo scatenamento della violenza più crudele.
Malgrado la grande varietà dei temi toccati, il libro è una meditazione unitaria e insistita su quella che Burstin non esita a chiamare la civilizzazione rivoluzionaria: in sostanza, un modo particolare di concepire il rapporto tra l’individuo e la collettività nel disperato tentativo di forgiare un uomo nuovo. Da qui la centralità del tema della rigenerazione nel configurare la particolare psicologia del rivoluzionario, da cui dipende quella straordinaria energia propulsiva, che arriva fino a configurare «l’assalto al cielo».
Identificato l’oggetto dell’investigazione, Burstin dà avvio al suo periplo della vita rivoluzionaria. Con onestà intellettuale e tentando di sfuggire al rischio dell’oleografia, conduce il lettore non soltanto nell’assemblea legislativa e nei club ma anche e soprattutto nelle sezioni, nelle piazze, nelle manifestazioni, a volte segnate da terribili violenze, non escluse le teste tagliate dei «nemici del popolo» innalzate sulle picche.
In questa ricerca dell’esperienza vissuta in presa diretta, Burstin si guarda bene dallo smarrire la rotta: si rifiuta cioè di perdersi nella varietà umana, a suo tempo indagata dallo sguardo spietato di Richard Cobb, allievo maudit di Georges Lefebvre e gran narratore di imbroglioni e vigliacchi, esaltati e avidi, affaristi e violenti. Quel che Burstin ci offre, scorrendo le figure dei popolani, è in fondo la raffigurazione di un unico tipo umano ideale, reincarnato in una moltitudine di esemplari, perché per lui la rivoluzione non è un paesaggio mosso, in cui si possano individuare soggetti molteplici, di diverso costume e orientamento, ma un unico, compatto blocco culturale, un’essenza che si reincarna nei singoli e che ne configura la personalità: nel bene e nel male, nelle passioni così come nelle idiosincrasie.
Questa prospettiva, centrata sulla dimensione idealtipica del rivoluzionario (e che perciò andrebbe qualificata forse come sociologica, più che come antropologica) consente a Burstin di introdurre il lettore, attraverso pagine affascinanti, nell’universo della radicalità rivoluzionaria, una radicalità che consiste, spiega, non tanto nella costruzione del futuro agognato quanto nella rottura profonda con un passato rinnegato: che è, in via generale, quell’aborrito antico regime che non deve poter più riemergere, ma che è anche la vita che ognuno conduceva prima e a cui il rivoluzionario, uomo nuovo, non può più tornare.
Il limite fondamentale di questo orientamento sta, essenzialmente, nella difficoltà a spiegare in altro modo che non sia l’ineluttabile deriva prodotta dall’ideologia (come vuole lo schema interpretativo avanzato da Furet e riproposto, sia pure in termini diversi, da Baczko) lo scivolamento progressivo nella violenza, sino al Terrore. Considerare la Rivoluzione quasi come un’entità, porta Burstin a espellerne il Terrore, quasi fosse un soggetto «altro». Se la violenza diffusa viene interpretata come una sorta di allargamento della legittimità prodotto da un diverso disporsi dell’individuo rispetto alla sensibilità collettiva, Burstin pare più in difficoltà a spiegare per questa via i massacri del settembre 1792; e ancora di più gli è difficile offrire spiegazioni convincenti del Terrore, per il quale viene tirato in ballo il vecchio rinvio a una costellazione di concause (la guerra, la perdita dell’autorità, i tradimenti, la carestia e l’ossessione del complotto).
Soprattutto, l’insistenza con cui Burstin gira attorno a un’unica figura di rivoluzionario finisce per mettere in ombra la divisione in diverse fazioni, gli scontri personali, le tensioni dei gruppi contrapposti e in una parola il conflitto politico infra-rivoluzionario. Burstin spiega bene come la Rivoluzione sia stata anche (forse soprattutto) un nuovo e sconvolgente allargamento della politica, ma non si cura di descriverla, questa politica, di delinearne la struttura e la configurazione, ovvero i modi con cui si inaugura una nuova, straordinaria partita politica tra diversi centri di potere: l’Assemblea, la Comune di Parigi, la stampa, la guardia nazionale, l’esercito, i club e, finché c’è stata, la Corte. Un passaggio ineludibile, questo, se si vuole spiegare davvero la violenza rivoluzionaria e, in prospettiva, anche il Terrore.
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