E se lo dice lui, che di croste se ne intende... [SGA].
MAURIZIO CECCHETTI Avvenire 19 febbraio 2016
La tavola è triste, povera e mal conservata: impossibile attribuirla al grande maestro È anche stata scelta da "Repubblica" come simbolo. Un peccato, in una bella rassegna
Vittorio Sgarbi Giornale - Sab, 13/02/2016
A Forlì una rassegna sul genio delQuattrocento e sugli artisti che ne hanno subito l’influsso presenta appena 4 suoi dipinti su 200. E l’elenco dei debitori è incompleto
25 feb 2016 Libero VERAAGOSTI CHIARE ANALOGIE
Pierodella Francesca. Indagine su unmito è il titolo dellamostra ospitata presso imusei diSanDomenicoa Forlì sinoal26 giugno. Larassegna si concentra sull’aura di eccezionalità dell’opera del maestro, studiando l’influenza che ha avuto su numerosi artisti, attraverso un confronto tra passato e presente che copre ben cinque secoli, daipittori coevi a quelli del Novecento. Si tratta del primo tentativomai realizzato in tal senso. Piero della Francesca (1416 circa-1492), infatti, un punto di riferimento per la storia dell’artemondiale. L'esposizione accoglie purtroppo solo quattro sue opere su 200 pezzi e 50 documenti. Difficile reperireiquattro preziosi lavori: Sant’Apollonia (1460 ca.), la protettrice dei denti, che proviene dalla National Gallery of Art di Washington; la celebre Madonna della Misericordia (1445-55), dal Museo Civico di San Sepolcro, che, stagliata sul fondoorodella tavola, protegge con il suo grandemantoglioranti inginocchiatiaterra, divisi tra uomini e donne; eancorailSanGirolamo e un donatore (1458-60), dalleGalleriedell’Accademia diVenezia, elaMadonna con ilBambino (1435-39), dall’Alana CollectiondiNewark, la cuiattribuzioneè contestatadaVittorio Sgarbi.
Le opere di Piero sono situate a circametà del percorso, inquantocuoredell’esposizione, mentre la rassegna si apre con due pezzi lontani nel tempo: ilBusto di Battista Sforza realizzato da Francesco Laurana nel 1474 ca. e L’Amante dell’ingegnere del 1921 di Carlo Carrà, per inquadrare subito lo scopo, cioèil rispecchiamentonei secoli. L’ispirazione muove dal Ritratto dellaDuchessa diUrbino di Piero della Francesca e dalla Pala di Brera. Il dipintodiCarrà, unafigurinaastrale con squadra, regolo e compasso, sottolinea l’interesse di Piero per lamatematica, la geometria e la prospettiva; unasezionedellamostraèdedicataaquestoaspetto fondamentale, con la riproduzione anastatica delDe prospectiva pingendi, da lui stesso redatto, che presentalostudioprospettico di una testa umana in 17 cartemanoscritte.
Purtroppo, la mostra racconta assai poco di Piero della Francesca, concentrandosi maggiormentesulsuoascendente artistico. La sua biografianonè ricca, perscarsitàdelle fonti, ma, a beneficio del pubblico meno esperto, che potrebbe trovare la mostra ostica e difficilmente comprensibile, sarebbe stato opportuno descrivere i suoi capolavori e narrare qualche dettaglio in più della sua vita. Ilmaestro simuove da FirenzeaRoma edaFerraraaUrbino, passando per Sansepolcro e Ancona. Le sue opere si caratterizzano per la luminosità inconfondibile della luce meridiana che cala dall’alto. Le figure e i corpi sono plastici, diuna fissità sacrale, inspazi studiati con una geometria rigorosa e con grande attenzione per la resa architettonica.
Luca Pacioli sostiene che sia «ilmonarca della pittura», ma già nel Cinquecento comincia a essere dimenticato e l’oblio si protrae fino a buonapartedelSettecento, quando viene riscoperto da parte di alcuni artisti che copiano i suoi lavori. In mostra, a questo proposito, dagli affreschi diArezzo, glioliidell’Ottocento diCharles Loyeux e idisegni a ricalco di Austen Henry Layard. La consacrazione di Piero della Francesca arriva nel Novecento, grazie agli studi di Bernard Berenson, AdolfoVenturieRobertoLonghi, che definisce il suo linguaggio come «sintesi prospettica di forma-colore» e scrive che comprendere Pieroè comprendereTiziano, almeno fino all’Assunta, e lo identifica quale precursore di George-Pierre Seurat e Paul Cézanne.
In gran numero gli artisti in mostra, da Beato Angelico a Luca Signorelli e Giovanni Bellini. Quindi l’influenza di Piero della Francesca, dai Macchiaioli al Novecento, con il Ritorno all'Ordine, la Scuola romana e il Realismo Magico. L’uovo della Pala di Brera di Piero diventa un’ossessione per Felice Casorati, un simbolo di rigore. La sua Silvana Cenni (1922) è sovrappostainunvideoallaMadonna dellaMisercordia, per notare le evidenti analogie. E ancoraBalthuseHopper. All’appellodegliautorichehanno risentito dell'influsso di Pieronemancanodiversi, anche nel contemporaneo; basticitareFernandoBotero, come dichiara lui stesso. All’interno del comitato scientifico, glistudiosinonsonointutto concordi. Chi cita per esempio De Chirico e chi no. In effetti non compaiono dipintidelpictor optimus inrassegna, ma l’influenza di Piero sullaMetafisica è ben rappresentata da Carrà, Morandi, RAMe altri.
Piero della Francesca, un genio dall’armonia sublime e pitagorica
Al Musei di San Domenico una grande rassegna rilancia l’artista del ’400 che ha influenzato non solo il Rinascimento ma anche la pittura del secolo scorso
Marco Vallora Busiarda 26 3 2016
Un dettaglio soltanto, ma che sarà illuminante, per meglio capire questa ricca e polifonica mostra, dedicata al mito di Piero della Francesca, che oggi parrebbe imperituro ed incontrastato. Quando la grande e cosiddetta «Pala di Brera», o di Montefeltro, che è forse la sua icona più riconoscibile, con quell’uovo pendente, entro la conchiglia che già annunzia Bramante, (poi trasmigrerà nella pittura di Casorati, di Donghi e di Fabrizio Clerici) giunge in pompa magna alla pinacoteca milanese, agli inizi dell’Ottocento (1811), non entra paradossalmente con il nome-etichetta di Piero della Francesca (completamente oscurato, in quel torno d’anni). Ma con quello più «misterioso» di Fra Carnevale: un artista, che è presente anche qui a Forlì, con un’opera modesta, perché le sue enigmatiche «tavole Barberini» sono emigrate all’estero. E di cui si conosceva, allora, soltanto il nome, ma non le opere, appunto confondendo le attribuzioni. E che poi ha dato molto filo da torcere ai filologi (l’emblematico testo «poliziesco» di Federico Zeri: «Due dipinti, la filologia e un nome») e che oggi, ben individuato, ci fa capire come un promettente fraticello marchigiano, mandato a bottega a Firenze, dal lungimirante Federico di Montefeltro, probabilmente presso Filippo Lippi, per carpire i segreti della maniera «moderna», abbia poi fecondato di germi prospettico-rinascimentali-pierfrancescani l’ancor gotica città di Urbino. Urbino, che con Rimini e Ferrara, forse Modena, certamente Roma (ma ci pensa papa Giulio II a far scialbare in Vaticano i suoi influenti affreschi, per far luogo a Raffaello) le Marche ed indubbiamente anche Venezia (con Marco Zoppo, Antonello e i Bellini) sono i punti cardinali d’una ramificata «mappa», investita dal luminoso e contagioso magistero di Piero. Che si diffonde anche tramite le tarsie lignee, virtuosisticamente prospettiche, dei fratelli Lendinara, di cui Lorenzo gli «era caro come un fratello».
Un prospettico «dipingere» attraverso il colore cangiante dei tasselli di differenti legni intarsiati, che ritroviamo anche nella sua «pittura senza emozione», staccata: «senza eloquenza». Immediata, come volle il Berenson: «Con le sue figure che si contentano di esistere, e non si danno nessuna pena di spiegare, di giustificare la loro presenza». Stanno lì, come colonne anatomizzate, come brani di natura dolcissima. «In quel loro realismo preciso, avvolto in un’atmosfera di lucido stupore», come intuì il cantore del Realismo Magico, Bontempelli, spiegando la presa di Piero sugli artisti di Valori Plastici, e della Metafisica. Che lo mitizzarono sino al sommo vertice di feticcio imprescindibile. Grazie anche alla lettura geniale di Longhi, di cui questa mostra, che vede gli sforzi connessi di esperti quali Paolucci e Mazzocca, Benati e Refice, è una sorta di devoto omaggio (sin al punto d’accettare il suo generoso suggerimento d’annettere quella rudimentale Madonna ex-Contini Bonacossi, che altro non fa che deprimere il suo livello sublime). Longhi, che vi ritorna sopra a più riprese, ma non muta prospettive, e che con quattro magiche parole: «sintesi prospettica di forma-colore», riesce magistralmente a riassumere l’incanto formale di questo segreto pittore di chiarità stregante. Impastata di colore-luce, che si fa architettura solenne, lirica armonia sublime e pitagorica, se non addirittura alchimia recondita: esoterica e matematica insieme (così che al «decadentista» D’Annunzio, in visita degli affreschi di Arezzo, pareva d’entrare «in un giardino di fiorita primavera»).
Del resto, se nei secoli la sua autorevolezza di pittore, incredibilmente, si cancella ed oscura (come quella d’altri pittori «senza tempo»: Vermeer, de La Tour o Velázquez) non cessa però la sua autorità di teorico astratto, «mentale», della «divina proporzione». Della prospettiva naturalizzata. Di «monarcha della architectura», come testimonia il suo allievo-geometra Luca Pacioli e di «miglior geometra che fusse ne’ tempo suo», parola di Vasari.
Così, guardato attraverso il filtro «sintetista»di Degas, Cézanne e Seurat, di Casorati, Carrà e Morandi (forse invece di tanti Borra e Guidi non sarebbero dispiaciuti un Bacci, un Colacicchi, un Mafai o un di Cocco, che poi si fa astratto) risuona la lezione di Longhi, a proposito di questa dolcezza d’un eloquio, che permea l’Italia d’un nuovo idioma, sereno e pacificato: «Un teorema che viene poi dolcemente a rivestirsi e come intiepidirsi di uno spettacolo». Ipnotico.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
Nessun commento:
Posta un commento