martedì 1 marzo 2016

"E' andato tutto bene": revisionismo storico, opposti estremismi e Teoria del totalitarismo nella storia repubblicana secondo il Nostro Toynbee

I nemici della Repubblica
Dove si conferma che il cospirazionismo è carogna perché con le sue idiozie dà fiato alle più inverosimili apologie del presente e mette in difficoltà anche la storiografia critica [SGA].

Vladimiro Satta: I nemici della Repubblica. Storia degli anni di piombo, Rizzoli

Risvolto
Dai primi episodi violenti nel '68 alle bombe e alla lotta armata, la storia di come l'Italia democratica è riuscita a sconfiggere il terrorismo rosso e nero.
Tra la fine degli anni Sessanta e gli Ottanta, l'Italia fu scossa da una serie di attacchi di diversa matrice ideologica: attentati, trame golpiste, lotta armata condotta da gruppi clandestini. Come fu vissuta la ferocia degli "anni di piombo"? In che modo è stata fatta giustizia? Vladimiro Satta, storico che da anni si concentra su questi temi e ha maturato una profonda conoscenza della documentazione in materia, ricostruisce in questo libro un periodo oscuro del nostro Paese. Carte alla mano, Satta smentisce molti luoghi comuni di destra e sinistra, puntando l'attenzione non soltanto sui nemici della Repubblica, ma anche sui poteri pubblici e su come sono riusciti a difendere Stato e cittadini.

DIETROLOGIA DA SFATARE 
NON HA RISCONTRI L’IPOTESI CHE LO STATO ABBIA PILOTATO I TERRORISTI ROSSI E NERI Un saggio di Vladimiro Satta (Rizzoli) smonta sospetti e illazioni riguardanti una presunta regia occulta negli Anni di piombo. Tra gli episodi presi in esame la strage di pi <
1 mar 2016 Corriere della Sera di Paolo Mieli 
Gli uomini armati, che tra gli anni Sessanta e gli Ottanta hanno provato ad aggredire la democrazia italiana, sono stati sconfitti. Le istituzioni repubblicane «hanno vinto e hanno vinto abbastanza bene, nel complesso», constata Vladimiro Satta in un importante e documentatissimo libro, I nemici della Repubblica. Storia degli anni di piombo, pubblicato da Rizzoli. C’è un solo terreno sul quale le cose sono rimaste com’erano allora: quello della ricostruzione storica. Nel senso che le idee dietrologiche, anche le più bizzarre, diffusesi in quei momenti terribili sono sopravvissute come se i successivi dibattimenti giudiziari non ci fossero stati, le confessioni assai circostanziate su ciò che è realmente accaduto, l’assoluta assenza di riscontri alle ipotesi più fantasiose non fossero mai esistite. E pensare, scrive Satta, che «la scomparsa dalla scena di fenomeni del genere è una controprova che essi non erano frutto di complotti orditi in misteriose alte sfere del potere italiano o mondiale che tutto comandano, bensì di spinte che nascevano dall’interno della nostra società e della nostra (in)cultura politica in un dato momento. (…) Spinte che, fortunatamente, si sono esaurite». Di più: «I terrorismi, senza volerlo, hanno contribuito al consolidamento e alla depolarizzazione della democrazia italiana, che dalla dura prova è uscita migliore di prima». 
Non si può dire lo stesso della storia che (sia pure con qualche lodevole eccezione) ha codificato quegli anni come un’epoca in cui apparati deviati dello Stato hanno dapprima cospirato con terroristi di destra e di sinistra, per poi far naufragare i processi in modo da impedire che le loro responsabilità venissero accertate. E pensare che, a quasi cinquant’anni dai fatti, non esiste prova che anche un solo «uomo dello Stato» abbia avuto responsabilità diretta o indiretta nei misfatti di quell’epopea sanguinosa. Il massimo che si è ottenuto, in merito alla bomba di piazza Fontana, sono state le condanne di Gianadelio Maletti e Antonio Labruna per aiuti che il Sid aveva dato a Marco Pozzan e Guido Giannettini, «due personaggi niente affatto esemplari, entrambi assolti dall’accusa di strage». 
Satta smonta un centinaio di piccoli e grandi sospetti (legittimi) e di ipotesi (alcune davvero cervellotiche) che nella pubblicistica e in molti libri di storia si sono depositate come verità accertate. Ad esempio che le bombe fatte esplodere il 12 dicembre del 1969 alla Banca dell’Agricoltura di Milano fossero due anziché una: la prima di bassa potenza messa lì nell’istituto di credito da Pietro Valpreda, la seconda, devastante, collocata nello stesso luogo da un sosia dell’anarchico. Ipotesi formulata dal libro di Paolo Cucchiarelli Il segreto di Piazza Fontana (Ponte alle Grazie), smontata pezzo per pezzo da Giorgio Boatti e da Adriano Sofri (il presunto sosia di Valpreda sarebbe stato in realtà una fotomodella scandinava bionda e ventitreenne, ovviamente del tutto innocente), ma ripresa poi dal regista Marco Tullio Giordana per il film Romanzo di una strage. 
Parimenti bislacca la ricostruzione di Fulvio e Gianfranco Bellini che, dietro lo pseudonimo Walter Rubini, hanno scritto — in Il segreto della Repubblica (Flan) — che Giuseppe Saragat e Aldo Moro il 23 dicembre del 1969, undici giorni dopo la carneficina, avrebbero stretto un patto per avvolgere nel silenzio l’intera vicenda, così da coprire le responsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura (il cui ruolo in questa storia sarebbe emerso, però, solo a metà del gennaio successivo). Saragat era stato presentato già all’epoca da «The Observer» come artefice della strategia della tensione e Satta dimostra punto per punto quanto quelle accuse fossero campate in aria. Al giudice istruttore Guido Salvini viene mosso il rilievo di aver usato «i concetti di “stato di emergenza” e di “golpe” come fossero interscambiabili»: «Nel 1969», scrive l’autore, «le istituzioni repubblicane valutarono — correttamente — che non ci fosse necessità di proclamare lo stato di emergenza, ma resta il fatto che eventualmente si sarebbe trattato di una misura antifascista e non antidemocratica». Allo stesso modo Satta fa a pezzi l’idea, messa in campo a ridosso di quegli anni, che lo scioglimento anticipato delle Camere (peraltro praticato sistematicamente dal 1972 in poi) sarebbe stato una misura golpista. Assai brillante è il modo in cui lo studioso dimostra come Moro non fosse affatto depositario di chissà quali segreti a proposito dei rapporti tra lo Stato e gli stragisti. E allo stesso modo come alcuni atti o ripensamenti attribuiti all’allora presidente del Consiglio Mariano Rumor fossero o inventati o assai più lineari del modo in cui vennero presentati. 
Per quel che riguarda la morte di Giuseppe Pinelli, Satta dà atto all’allora giudice Gerardo D’Ambrosio di non aver mai definito quello dell’anarchico un «malore attivo» e sostiene che questa fu «un’invenzione giornalistica che gli venne appioppata allo scopo di gettare discredito sulla sentenza» che scagionava il commissario Luigi Calabresi. Il giudizio sui processi di Catanzaro e poi Bari è positivo: «Coloro i quali immaginavano che il trasferimento del processo sulla strage di piazza Fontana nella remota sede meridionale preludesse all’insabbiamento si sbagliavano, e di grosso… A Catanzaro si fece sul serio; il processo, anzi, si allargò a esponenti di primo piano dei servizi segreti e dell’autorità politica, la quale fu chiamata ad assumersi le proprie responsabilità in ordine agli addebiti contestati agli apparati dello Stato». Quanto al «giudicato definitivo», che addossa la strage di piazza Fontana ai neofascisti padovani di Ordine Nuovo, Satta mette in rilievo che esso «non precisa il movente dei criminali»; ciò che «è normale nell’ambito di una valutazione incidentale in sede giudiziaria, ma lascia un vuoto che la storiografia deve tentare di colmare». Cosa che, evidentemente, finora nessuno storico ha credibilmente provato a fare.  
L’attentato di piazza Fontana fu indicato da allora in poi come «la madre di tutte le stragi». Ma Satta invita a riflettere che «se così fosse, le gestazioni sarebbero state alquanto lunghe»: tra il 12 dicembre del 1969 e il primo tra gli attentati mortali di natura eversiva, quello avvenuto a Peteano il 31 maggio 1972, passano quasi due anni e mezzo. Per quel che riguarda l’epoca successiva, l’autore mette in discussione lo schema di Guido Crainz — in Il paese mancato (Donzelli) — che tenderebbe a rintracciare un filo che collega il piano Solo del generale Giovanni De Lorenzo dell’estate 1964 agli attentati degli anni Settanta, e a unificare in qualche modo golpismo e stragismo. Poi, sulla base de Il piano Solo (Mondadori) di Mimmo Franzinelli, ricorda con qualche malizia che se De Lorenzo avesse chiuso la propria carriera per limiti di età a fine 1966, gli storici lo presenterebbero oggi come il «militare di sinistra», protagonista della Resistenza, schedato nel dopoguerra per filocomunismo, paladino dell’apoliticità dell’esercito e modernizzatore dell’Arma dei carabinieri. L’autore nota in seguito come nell’inchiesta di Giovanni Tamburino su Amos Spiazzi e la Rosa dei venti sia presa per buona una testimonianza di Roberto Cavallaro circa l’esistenza nel 1964 di una struttura parallela assimilabile a Stay Behind (solo che Cavallaro, nato nel 1949, nel 1964 aveva quindici anni ed è perciò improbabile che parlasse di quei fatti per «conoscenza diretta»). Ci stiamo riferendo ad un processo che coinvolse l’ex capo del Sid Vito Miceli mandandolo assolto, anche se, ammette Satta, quel genere di sentenze «non furono le migliori possibili» e «qualche testa calda avrebbe meritato un trattamento più severo». Si osserva inoltre che «nell’ottica del nesso con Gladio, la strage di Peteano e i depistaggi che la riguardarono sarebbero fenomeni niente affatto uniti da un comune disegno eversivo, bensì eterogenei»: l’attentato «apparterrebbe alla storia del neofascismo, che è italiana», mentre le deviazioni tese a coprire Stay Behind «apparterrebbero alla storia della Guerra fredda». 
Per quel che riguarda la strage dell’Italicus (4 agosto 1974) il libro esprime dubbi sulla testimonianza di Maria Fida Moro, figlia di Aldo, secondo la quale suo padre stava per prendere quel treno ed era contro di lui che sarebbe stato ordito l’attentato. Più in generale l’autore fa notare come la tempistica del golpismo e dello stragismo di fatto non coincida per nulla con la cronologia dei successi del Partito comunista e neppure sia «correlabile ad essa in termini di reazione, perché la precede invece di seguirla». 
La verità è che sugli autori delle stragi degli anni Settanta si sa molto poco, ma è certo che la democrazia italiana ne uscì rafforzata (e il Pci conobbe una stagione di successi). Cosicché si può definire poco convincente una celebre frase rivolta agli stragisti dal giudice Libero Mancuso («Ci avete sconfitti, ma sappiamo chi siete»). Andrebbe piuttosto ribaltata: «Non sappiamo chi siete (ad eccezione di Freda, Ventura e pochi altri), però noi abbiamo vinto e voi perso». E tra quei «pochi altri», di cui si è appena detto, ci sono casi che provocano imbarazzo come quello di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, condannati per la strage di Bologna con una sentenza che lascia adito a più di un dubbio. Quanto al celeberrimo «Io so ma non ho le prove» di Pier Paolo Pasolini, coloro che si sono richiamati o (come Antonio Ingroia) hanno riproposto quelle parole sono, secondo Satta, «non dei coraggiosi eretici ma i continuatori di un intreccio tra il sospetto eretto a metodo, la presunzione e il dogmatismo». 
Passando alle Brigate rosse, il libro dimostra come non siano provate le tesi di Alberto Franceschini, secondo il quale Mario Moretti era manovrato dall’esterno, e quelle, caratterizzate da «assenza di riscontri, dimenticanze e valutazioni incongrue», di Rocco Turi (in Gladio rossa, edito da Marsilio, e Storia segreta del Pci. Dai partigiani al caso Moro, pubblicato da Rubettino), per cui i brigatisti erano in mano a «forze di oltre cortina». Assai ridimensionato esce da questa trattazione il ruolo dell’istituto linguistico parigino Hyperion, il cui leader, Corrado Alcuni volantini delle Brigate rosse mandati all’asta a Milano nel marzo 2012 (foto Ansa / Daniele Mascolo). Le Br nacquero nel 1970 dalla confluenza di alcuni gruppi dell’estrema sinistra decisi a intraprendere la lotta armata. La loro azione più clamorosa fu il sequestro di Aldo Moro, rapito e assassinato nel 1978. Simioni, fu addirittura identificato come il «grande vecchio» delle Brigate rosse. Così come non ha trovato riscontri l’«identità di vertice» tra l’Autonomia di Toni Negri e le Br ipotizzata dal giudice Pietro Calogero nell’inchiesta del 7 aprile 1979. 
Quanto al rapimento e all’uccisione di Moro — qui anche sulla scia di precedenti libri dello stesso Satta — vengono smontate tutte le ricostruzioni che attesterebbero un ruolo dei servizi segreti italiani o internazionali nell’affaire. È «insostenibile» che ci fosse un «auto dei servizi» in via Fani dove lo statista fu sequestrato. Stesso discorso vale per la misteriosa moto Honda che ha ispirato il film Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli. È «altamente inverosimile» persino che all’attacco di via Fani abbiano partecipato soggetti esterni alle Br. Neanche «compagni» stranieri. «Così come nessun brigatista rosso andò a Colonia per sequestrare Schleyer, nessun terrorista tedesco venne a Roma per rapire Moro». Assai circostanziate, con punte di perfidia, sono poi le contestazioni di Satta ad alcune estrose «ricostruzioni» di Ferdinando Imposimato, Miguel Gotor, Sergio Flamigni, Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca. 
Fortemente ridimensionato anche il ruolo della P2 (sulla quale viene in ogni caso pronunciato un giudizio assai severo) nell’affare Moro. Vengono spesso spacciati «per piduisti personaggi che non lo erano o che lo sarebbero diventati soltanto mesi e anni dopo» e, a torto, la loggia massonica viene considerata «responsabile di nomine volute da altri, talvolta dai comunisti (Giulio Grassini al Sisde), talaltra da comunisti e socialisti (Raffaele Giudice a capo della Guardia di finanza, nel lontano 1974) e talvolta addirittura dallo stesso Moro (Francesco Malfatti invece che Francesco Pompei al vertice dell’amministrazione della Farnesina). Un’organica mappatura degli assetti istituzionali alla viglia del sequestro Moro mostra», secondo Satta, «che, a parte Santovito e Grassini — i quali erano stati nominati ai vertici di Sismi e Sisde, ma non in quanto piduisti — i sodali di Gelli erano assenti dalla grande maggioranza dei posti chiave». La P2, è la conclusione dell’autore, «fu indubbiamente nociva al Paese, ma sarebbe iniquo incolparla di ogni sventura nazionale, caso Moro e brigatismo rosso compresi». 
Altrettanto improbabile il ruolo che nella vicenda avrebbe avuto l’«americano» Steve Pieczenik che addirittura si autoaccusò — assieme a Francesco Cossiga — di aver contribuito all’uccisione Moro. Salvo poi smentire tale affermazione. Basti dire che in tempi recenti Pieczenik in un suo blog ha sostenuto che Saddam Hussein è ancora vivo e «risiede sotto falso nome nella città russa di Barvikha», che le foto del cadavere di Gheddafi sono un inganno, che l’ex dittatore libico e la sua famiglia «se la stanno passando bene nel deserto subsahariano sotto la protezione dei tuareg» (e «non sono andati pure loro in Russia soltanto perché da quelle parti fa troppo freddo»). Forse è giunto il momento che la storia d’Italia, anche quella recente, venga raccontata in modo meno suggestivo di quanto lo sia nelle parole di Pieczenik.

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