mercoledì 2 marzo 2016

Limes: "Caoslandia", "Ordolandia" ma soprattutto Scemolandia




Gli americani stanno seminando terrore dappertutto e questo ci prende per il culo con grande successo [SGA].



L’Italia alla frontiera di Caoslandia

di Lucio Caracciolo Repubblica 2.3.16
CI STIAMO rassegnando a una nuova grande guerra? Forse inconsciamente l’agogniamo, quasi fosse la “sola igiene del mondo”? Meglio una fine orribile di un orrore senza fine? La ripetuta provocazione di papa Francesco sulla “terza guerra mondiale a pezzi” nella quale saremmo immersi senza avere il coraggio di ammetterlo va letta sullo sfondo del clima apocalittico diffuso nelle opinioni pubbliche non solo occidentali. E come premessa di quella strategia della misericordia, recentemente illustrata dal gesuita Antonio Spadaro sulla Civiltà Cattolica, che il Pontefice sta disegnando nella traiettoria dei suoi viaggi apostolici e delle sue strategie diplomatiche. Per combattere la rassegnazione alla guerra, il determinismo bellico, la rinuncia alla politica che minacciano di precipitarci nel terzo conflitto globale.
Intorno a questo tema, scandagliato nel volume domani in uscita, Limes ha convocato al Palazzo Ducale di Genova, in collaborazione con l’omonima Fondazione per la Cultura, tre giorni (4-6 marzo) di pubblico dibattito con esperti e protagonisti della scena geopolitica internazionale. Il titolo del Festival di Limes — “La terza guerra mondiale?” — vira l’intuizione papale in interrogativo. Assumendola quale invito al discernimento. E come avvertimento: se non spegneremo almeno i principali fra gli incendi bellici — i “pezzi” di guerra mondiale — che infiammano il pianeta, questo rischia davvero di finire in pezzi.
Studiando la carta geopolitica del pianeta, osserviamo che oggi questo è spartito in due macroregioni. Una relativamente pacifica, ordinata, benestante, imperniata su un Occidente sempre meno coeso. Chiamiamola Ordolandia. L’altra, in via di espansione, si dipana dall’America centrale all’Africa, dal Medio Oriente ai Mari Cinesi: è la macroarea dove si concentrano disintegrazione degli Stati, miseria, guerre, terrorismo, migrazioni forzate, rivendicazioni territoriali apparentemente incomponibili. Fenomeni accentuati dalle devastazioni ambientali indotte dai mutamenti climatici nelle sensibili aree tropicali. Questo è lo spazio dei “pezzi di guerra mondiale” evocati da Francesco. Chiamiamolo Caoslandia.
L’alternativa fra guerra e pace si gioca nell’espansione o nella contrazione di Caoslandia. Difendere e allargare Ordolandia è la priorità di chi non cede al millenarismo apocalittico. E sa che la pace non è dato di natura, ma conquista di ogni giorno.
Come si potrebbe configurare la terza mondiale che il Papa giudica già in atto? A differenza delle due precedenti, che vertevano sulla redistribuzione della potenza fra i principali soggetti mondiali, questa deriverebbe dalla loro impotenza. È la decomposizione degli Stati — insieme all’incapacità delle grandi potenze di arginare il caos, quando non lo incentivano — la cifra della deriva bellica in corso nel cuore di Caoslandia. In alcune aree del mondo, specie in Nordafrica (Libia) e fra Levante e Mesopotamia (ciò che resta di Siria e Iraq), il crollo dei poteri formali è degradato in guerra civile. Nelle quali intervengono potenze esterne, regionali (Iran, Turchia, Arabia Saudita) o extraregionali (Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna, forse domani anche Italia). Direttamente o per procura. Senza peraltro definire un nuovo ordine, semmai accentuando il caos. La guerra mondiale, o qualcosa di simile, sarebbe quindi il prodotto ultimo del processo di disintegrazione di alcuni Stati. Al momento, forse il conflitto più minaccioso, in questa prospettiva, è la guerra in Ucraina, dove Nato e Russia si fronteggiano lungo la labile linea di faglia che li divide.
L’Italia si trova alla frontiera di Caoslandia. Sia sul fronte meridionale che su quello orientale. E ben dentro la crisi esistenziale che sta scuotendo l’Europa.
Siamo dunque i primi interessati a impedire che il mondo del caos valichi i nostri confini e dilaghi nel Vecchio Continente. Deriva perfettamente evitabile. A patto anzitutto di rovesciare il clima apocalittico, alimentato secondo Francesco non solo dai jihadisti ma anche dai neocrociati occidentali, per cui il nostro destino sarebbe la guerra definitiva.
I credenti vorranno ricorrere al balsamo evangelico della misericordia. Dunque ameranno il nemico. Per i laici, si tratta di recuperare il senso inclusivo della politica. Non per evitare di combattere, quando necessario. Ma per impedire che le armi diventino fini a se stesse. E tornino invece al servizio di obiettivi politici. Di nuovi, per quanto provvisori, ordinamenti di pace. Se ciò non accadrà, l’intuizione di Francesco rischierà di svelarsi profezia.
Sul precipizio
di Tommaso Di Francesco il manifesto 2.3.16
La guerra altro non è che seminagione d’odio. Nessuno dei conflitti proclamati dall’Occidente dal 1991 ad oggi — Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan, Libia, Siria — ha benché minimamente risolto i problemi sul campo, anzi li ha tragicamente aggravati.
Senza l’intervento in Iraq del 2003, ha confessato «scusandosi» lo stesso ex premier britannico Tony Blair, tanto caro al rottamatore Matteo Renzi, lo Stato islamico nemmeno esisterebbe. Gli «Amici della Siria», vale a dire tutto lo schieramento occidental-europeo più Arabia saudita e Turchia, hanno fatto l’impossibile per fare in tre anni in Siria quel che era riuscito in Libia, alimentando e finanziando milizie e riducendo il Paese ad un cumulo di macerie alla mercé di gruppi più o meno jihadisti e con così tanti errori commessi da permettere alla fine il coinvolgimento in armi e al tavolo negoziale perfino della Russia di Putin.
I rovesci in Libia tornano addirittura nelle elezioni statunitensi, con il New York Times che, con focus su Hillary Clinton, ricorda la posizione favorevole alla guerra di fronte ad un recalcitrante Obama. Senza dimenticare la tragedia americana dell’11 settembre 2012 a Bengasi.
Quando Chris Stevens, l’ex agente di collegamento con i jihadisti che abbatterono Gheddafi grazie ai raid della Nato, cadde in una trappola degli integralisti islamici già alleati e venne ucciso con tre uomini della Cia. Hillary Clinton, allora Segretario di Stato uscì di scena e venne dimissionato l’allora capo della Cia David Petraeus. Perché la guerra ci ritorna in casa. Avvitandosi nella spirale del terrorismo islamista.
Dalle «nostre» guerre fuggono milioni di esseri umani. Quando partirono i primi raid della Nato sulla Libia a fine marzo 2011, cominciò un esodo in massa di più di un milione e mezzo di persone, tante quelle di provenienza dall’Africa centrale che lavoravano in territorio libico, ne fu coinvolta la fragilissima e da poco conquistata democrazia in Tunisia. Quell’esodo, con quello da Iraq e Siria, prova disperatamente ogni giorno ad attraversare la barbarie dei muri della fortezza Europa.
Tutto questo è sotto la luce del sole. Come il fatto che l’alleato, il Sultano atlantico Erdogan, da noi ben pagato, preferisca massacrare i kurdi che combattono contro l’Isis piuttosto che tagliare gli affari e le retrovie con il Califfato.
Eppure siamo di nuovo in procinto di innescare un’altra guerra in Libia. Dopo che il capo del Pentagono Ashton Carter ha schierato l’Italia sostenendone la guida della coalizione contro l’Isis e per la sicurezza dei giacimenti petroliferi. Il ministro Gentiloni si dichiara «pronto». In altri tempi si sarebbe detto che un Paese dalle responsabilità coloniali non dovrebbe esser coinvolto. Adesso è motivo d’onore: siamo al neo-neocolonialismo.
Motiveremo questa avventura nel più ipocrita dei modi: sarà una «guerra agli scafisti». Sei mesi fa quando venne annunciata, Mister Pesc Mogherini mise le mani avanti ricordando, com’è facile immaginare, che ahimé ci sarebbero stati «effetti collaterali». Nasconderemo naturalmente il business e gli interessi strategici ed economici. Ormai siamo alla rincorsa della pacca sulle spalle Usa e delle forze speciali francesi, britanniche e americane già sul terreno.
L’Italia ha convocato nei giorni scorsi il suo Consiglio supremo di difesa e prepara l’impresa libica. Con un occhio all’Egitto sotto il tallone di Al Sisi, ora in ombra per l’assasinio di Giulio Regeni. C’è da temere che la giustizia sulla morte di Giulio Regeni venga ulteriormente ritardata e oltraggiata, e di nuovo silenziata la verità sul regime del Cairo, criminale quanto l’Isis. Perché l’Egitto — anche con i suoi silenzi? — resta fondamentale per la guerra in Libia: è la forza militare diretta o di supporto al generale Haftar, leader militare del governo e del parlamento di Tobruk che ancora ieri ha rimandato il suo assenso (che alla fine arriverà) ad un esecutivo libico «unitario». È una decisione formale utile solamente a richiedere l’intervento militare occidentale.
Perché la Libia resta spaccata almeno in tre parti, con Tripoli guidata da forze islamiste che temono che un intervento occidentale diventi un sostegno alle forze dello Stato islamico posizionate a Sabratha, Derna, Sirte, già impegnate nella propaganda anti-italiana prendendo senza vergogna in mano la bandiera e le gesta di Omar Al Muktar, l’eroe della resistenza al colonialismo fascista italiano.
Mancano pochi giorni al precipizio. Chi ha a cuore l’articolo 11 della Costituzione, chi è contro la guerra, una delle ragioni per ricostruire e legittimare lo spazio della sinistra, alzi adesso la voce. 

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