Non c’è da stupirsi: le italiane, in cinque turni dal 10 marzo al 7 aprile 1946, si trovarono di fronte al battesimo del voto, ovvero andarono a deporre per la prima volta la scheda nell’urna. Si trattava di elezioni amministrative. Preoccupazioni analoghe si ripresenteranno il 2 giugno dello stesso anno per la designazione dei membri dell’Assemblea Costituente e la fondamentale scelta tra Monarchia e Repubblica.Nonostante i diffusissimi timori femminili, però, a inciampare sulla scena politica non furono le neo votanti, ma proprio i rappresentanti dei partiti di massa che si contendevano le loro preferenze, Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. I due leader del Pci e della Dc, nel decreto n. 23 del febbraio 1945, estesero il suffragio alle italiane che avessero almeno 21 anni. Esclusero le prostitute schedate, quelle che lavoravano al di fuori delle case chiuse dove era concesso di esercitare la professione. Però, mentre riconoscevano quell’ambito diritto alle donne, dimenticarono la loro eleggibilità. Proprio così. Le donne potevano essere solo elettrici ma non elette. E questa svista verrà corretta solo nella primavera del 1946.
Marzo1946, tutte in coda ai seggi UMBERTO GENTILONI Repubblica 3 3 2016
IL CINEMA propone gli albori delle mobilitazioni per il suffragio femminile attraverso il protagonismo militante di donne che hanno cambiato la storia. Il diritto di voto è un lungo cammino attraverso il Novecento, una tensione verso traguardi e obiettivi lontani. Per le donne è una sfida continua che si rinnova negli angoli più diversi del pianeta dove quel diritto non viene riconosciuto.
Nell’Italia piegata dal fascismo e dal conflitto mondiale il primo voto femminile cade nel marzo di 70 anni fa, nelle elezioni amministrative che inaugurano la partecipazione politica del dopoguerra. A più di dieci mesi di distanza dalla liberazione del 25 aprile 1945 la cifra della democrazia passa per l’inclusione di tanti con il conseguente allargamento delle basi di legittimazione della Repubblica. Il diritto di voto diventa un grimaldello che segna l’inizio di una nuova stagione, l’avvio di una fase costituente sotto tanti punti di vista (materiali, spirituali, istituzionali). Nel riconoscimento di un diritto individuale si saldano strategie e processi di lungo periodo: la ricerca di forme di partecipazione, l’avvio di possibili esperienze collettive, le opzioni sulle scelte fondanti di chi voleva cambiare rotta. La Repubblica diventa lo spazio per le nuove strategie di cittadinanza: per la prima volta si può pensare o tentare di diventare cittadine.
Una successione di 5 domeniche (10, 17, 24, 31 marzo e 7 aprile 1946) compone la prima tornata amministrativa dell’Italia liberata. La seconda qualche mese dopo, tra ottobre e novembre. In mezzo tra i due appuntamenti il referendum del 2 giugno, la scelta tra monarchia e repubblica e la contestuale elezione dell’assemblea costituente. Il voto per i comuni è quindi un passo verso il suffragio. La prima tornata nelle domeniche di 70 anni fa prevede il voto in 5722 centri (quasi l’80 per cento dei comuni del Nord, più dell’84 del Centro e quasi il 74 per cento di quelli del Sud); sono chiamati alle urne quasi 20 milioni di elettori, in maggioranza donne (quasi un milione più degli uomini). L’affluenza supera di poco l’82 per cento. È un successo diffuso, un fiume di partecipazione che unisce il paese in un clima di festa. Le cronache locali raccontano il nuovo inizio: «La presenza di queste donne, madri, vecchie, suore, operaie e contadine dinanzi ai seggi ove vengono per la prima volta a fare uso del più alto diritto civile e ad affermare la vera appartenenza al corpo sociale, ha consigliato gli spiriti a un rispetto quasi religioso del luogo e delle persone. Le donne sono state la grande novità di queste elezioni: popolane e signore, vecchie e giovani, sole o in compagnia. Parecchie mogli hanno potuto dividere con il marito l’attesa e poi l’emozione del voto; si sono viste giungere intere famiglie, magari divise nei pareri ma a braccetto. Anzi l’elemento femminile è accorso per primo davanti alle sezioni. Molte donne uscite dalle chiese dopo la prima Messa si sono recate subito a votare per poter tornare a casa ad accudire alle faccende domestiche. Non sono mancate le donne con il bambino in braccio. Il piccolo intruso è stato causa di un certo imbarazzo quando la mamma ha dovuto entrare nella cabina». Tra gli eletti una giovane sindaco nel comune di Massa Fermana. Molti anni dopo ha scritto senza retorica della sua esperienza di amministratrice e di un’Italia in divenire: «Trattandosi di un piccolo comune povero, bisognoso di tutto, da tutti dimenticato, da Dio e dagli uomini, ho dovuto farmi carico di grossi problemi quali le strade, le fogne, le scuole, le case, l’acqua, la luce. Dico senza presunzione farmi carico perché tutte le fatiche dell’amministrazione ricadevano, quasi esclusivamente sulle mie spalle. Rimboccandomi le maniche sono riuscita a risolvere molti problemi urgenti. Questo è il mio curriculum». Un lascito prezioso quel «farsi carico», frutto delle scelte dei partiti di massa vogliosi di radicarsi e rafforzarsi nella nascente democrazia (Togliatti e De Gasperi su tutti), delle aperture interessate della Chiesa e soprattutto della spinta di organizzazioni femminili da mesi impegnate nella campagna per ottenere il diritto di voto.
La premessa di un lungo dopoguerra è ben racchiusa nelle riflessioni autobiografiche che Norberto Bobbio ha dedicato alle origini della democrazia italiana venti anni fa, in occasione del cinquantenario del 1946: «Quando votai per la prima volta alle elezioni amministrative dell’aprile ’46 avevo quasi trentasette anni. L’atto di gettare liberamente una scheda nell’urna senza sguardi indiscreti, un atto che ora è diventato un’abitudine, apparve quella prima volta una grande conquista civile che ci rendeva finalmente cittadini adulti. Rappresentava non solo per noi ma anche per il nostro Paese l’inizio di una nuova storia».
LA VERA RIVOLUZIONE DEL VOTO ALLE DONNE NADIA URBINATI Restampa 5 3 2016
LA CONQUISTA del diritto di voto è stata per le donne di gran lunga più difficile che per ogni altra fetta di popolazione, non solo in Italia. Come Natalia Aspesi ha scritto su Repubblica introducendo il film Suffragette, la lotta per il suffragio è stata lunga e dura, in tutti i paesi, anche quelli di storia liberale come l’Inghilterra, o quelli che nacquero sul consenso elettorale e l’eguaglianza, come gli Stati Uniti. È quindi giusto dire che il decreto legislativo più rivoluzionario che ha avuto l’Italia fu quello a firma De Gasperi- Togliatti che in data 31 gennaio 1945 riconobbe il diritto delle donne al voto, anche se non all’eleggibilità, una discriminazione che sarebbe caduta di lì a poco: ventuno furono le donne elette il 2 giugno 1946 all’Assemblea costituente.
Quello suffragista fu il primo movimento globale, la prima forma di mobilitazione rappresentativa che conquistò legittimità mediante l’opinione e grazie a celebrità intellettuali che associarono il loro nome alla causa. Harriet Taylor e il marito, John Stuart Mill, furono tra i primi europei a collaborare al movimento, raccogliendo finanziamenti e scrivendo proclami. Chi come Mill o il nostro Salvatore Morelli provarono ad avanzare proposte di legge in tal senso trovò in parlamento un muro: la proposta di Mill ottenne una settantina di voti, quella di Morelli non venne neppure discussa. Certo, vi erano state, anche in Italia, proposte per concedere alle donne il diritto di voto amministrativo: ci provò Minghetti appena dopo l’unità, e poi il sindaco di Firenze, Peruzzi, la cui moglie aveva anche organizzato un salotto di discussione per preparare l’opinione suffragista. Tra gli invitati vi era il giovane Vilfredo Pareto, allora un sostenitore radicale del suffragio femminile (e della rappresentanza proporzionale!) e ammiratore del
Subjection of Women ( La servitù delle donne) di Mill che Annamaria Mozzoni tradusse in italiano nel 1870. Ma seppure moderata (e reiterata altre volte fino all’avvento del fascismo), la proposta del voto amministrativo non decollò.
Quale la ragione di tanta ostilità? L’argomento più usato, un pregiudizio radicato da secoli, era quello dell’impossibilità della donna di sviluppare ragionamenti di giustizia perché incapace di giudizi di imparzialità. Destinata dalla natura a procreare e prendersi cura della specie, l’intelletto femminile era portato a comprendere l’utile vicino e l’interesse parziale della sua famiglia, non quello lontano e generale. La donna era votata all’economia domestica quindi; quella politica era privilegio dei figli, dei mariti e dei padri.
Quando questa idea così radicata nella cultura occidentale entrò in crisi? Questa domanda consente di mettere a fuoco la portata rivoluzionaria del suffragismo. Fu la trasformazione del voto da funzione (in difesa di interessi) a diritto della persona la chiave di volta. Infatti, se la rappresentanza deve essere espressione degli interessi che gli eletti svolgono con libero mandato e competenza, perché il suffragio universale? James Mill, il teorico del governo rappresentativo, scrisse negli anni Trenta dell’Ottocento che siccome ogni interesse riflette quello degli altri, sembra ragionevole che il voto del capofamiglia porterà in Parlamento anche le esigenze dei componenti della famiglia, per cui non serve che i giovani maschi e le donne votino. Fino a quando il voto fu inteso come funzione e non come diritto di sovranità, l’esclusione delle donne fu ritenuta funzionale alla loro vocazione di cura e giustificata con l’argomento della rappresentanza surrogata.
Il Settecento radicale — l’illuminismo francese — fu lo spartiacque. Quando il voto, a partire da Rousseau, divenne la “volontà” del sovrano come libertà di darsi leggi, allora il non voto parve subito segno di assoggettamento. Mary Wollstonecraft volse questo argomento contro Rousseau stesso, il quale aveva escluso le donne dalla città mostrando quanto il pregiudizio potesse contro la logica. Ma con la Rivoluzione francese, il mutamento del paradigma della legittimità politica fu radicale. Di qui si fece strada l’idea che il governo fondato sul consenso elettorale non era semplicemente rappresentativo degli interessi, ma costituzione di libertà. E nel 1792 Olympe de Gouges presentò al governo rivoluzionario una
Déclaration des droits de la femme nella quale venivano richiesti per le donne tutti i diritti civili e politici.
Siccome il voto è potere, non potersi difendere da esso godendo di un potere eguale si traduce nel sottostare a un potere arbitrario. In questa nuova concezione del voto è radicata l’idea della designazione elettorale diretta da parte dei singoli, in quanto non parte di gruppi, ceti o classi; non perché portatori di specifici interessi da difendere: ecco l’argomento rivoluzionario dell’idea del suffragio come diritto individuale nel quale si inserisce il suffragismo. Un movimento che cominciò proprio insieme all’idea del cittadino come parte uguale della nazione, sede del popolo sovrano. Ecco perché la decisione che la Consulta prese nel 1945 approvando l’estensione del diritto di voto ai cittadini e alle cittadine, “senza distinzione”, fu rivoluzionaria e coerentemente democratica.
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