venerdì 11 marzo 2016

Ricordi di Umberto Eco

Risultati immagini per umberto ecoIl riso dissacrante di Umberto Eco che rovescia gli inganni del potere 
Con gli strumenti della semiotica, ma anche con il suo sottile umorismo lo scrittore insegnava a riconoscere le menzogne di regimi e ideologie Visione Nella sua apologia della bugia c’è una passione per la verità forse insospettata 

11 mar 2016  Corriere della Sera di Giulio Giorello
Avete sentito parlare dell’enciclica Alienatio Delenda? È stata pubblicata nel 1970 da Paolo VI e da molti è considerata il fondamento del colpo di Stato comunista di quell’anno, effettuato grazie al contrabbando in Italia di armi e munizioni organizzato dai padri cappuccini, in combutta con l’intellighenzia di sinistra, notoriamente segnata da «complessi masochistici nei confronti del più forte». 
Ovviamente, del celebre documento vaticano non saprete nulla — a meno che non abbiate letto il brevissimo scherzo di Umberto Eco intitolato Il 
moderato estremista, originariamente del 1965 (poi incluso nel suo Il costume di casa. Evidenze e misteri dell’ideologia italiana, 1973). E anche del putsch non sembra esser rimasta traccia alcuna. Questo abbozzo di racconto fantapolitico non è un puro divertissement, ma ci introduce al meglio nei labirinti della semiotica: chi vi si addentra deve accettare che sia segno «ogni cosa che possa essere assunta come sostituto significante di qualcos’altro» — anche se tale qualcos’altro magari non esiste. E dunque lo stesso Eco non esitava a presentare la disciplina che lui stesso aveva contribuito a ridefinire e a introdurre in Italia come quella che «studia tutto ciò che può essere usato per mentire», come si legge nel suo Trattato di semiotica generale (1975). Il lettore di quel poderoso volume avrebbe potuto sentirsi preso in giro; e qualcuno estenderebbe questa sensazione addirittura a tutta l’opera di Umberto, sia saggistica sia narrativa. 
Ma c’è in questa apologia della menzogna una passione per la verità forse insospettata per chi si limiti a farsi incantare dalla finzione romanzesca. Nell’Eco dei saggi impegnativi come in quello delle Bustine di Minerva, nelle grandi narrazioni come negli scherzi pubblicati nelle riviste popolari, ritroviamo sempre — spesso ironicamente occultati dietro una ragionata logica di «bugie» — lo sguardo civile, la critica politica, la dissacrazione delle ideologie. 
Quando nel 1974 Umberto si è confrontato con la mostra d’arte sul nazismo tenuta al Kunstverein di Francoforte, ha osservato come quella rassegna sull ’«imbecillità di destra», peraltro contestata da «una sparuta minoranza di imbecilli di sinistra», fosse un documento didattico eccezionale nell’invitare a decifrare «i contrasti visivi tra mito e realtà». Il problema stava nella pigrizia e nella sprovvedutezza del fruitore poco attento e poco critico: «E forse», concludeva, «la difficoltà a riconoscere quanto le immagini possano mentire è la stessa che si prova a riconoscere le menzogne del potere» ( L’illusione realistica, ora in Sugli specchi e altri saggi, 1985). 
L’ideologia che giustifica qualsiasi tipo di potere è sempre «parziale e sconnessa». Essa cancella le multiple reazioni dell’universo semantico e così facendo «cela anche le ragioni pratiche perché certi segni sono stati prodotti insieme con i loro interpretanti». Al contrario, l’approccio semiotico svela «i modi in cui il lavoro di produzione segnica può rispettare o tradire la complessità di questo reticolo semantico», concedendoci così di stabilire una relazione — di conformità o magari di scissione — con il «lavoro umano di trasformazione degli stati del mondo». 
In altri termini, per Eco si trattava di rovesciare i giochi dell’inganno funzionali all’oppressione delle menti e dei corpi. Lo ha fatto in tutti i suoi romanzi, da Il nome della rosa (1980) a Numero Zero (2015). Lo aveva ben intuito a suo tempo un filosofo come Richard Rorty, notando come Il pendolo di Foucault (1988) fosse (anche) una matura rinuncia a mettere su carta «l’universale struttura delle strutture» (lo scopo neanche tanto recondito del Trattato di semiotica generale sopra citato) per la concretezza e la flessibilità narrativa dei modi di pensare e di esprimersi: un po’ «come Wittgenstein era riuscito a liberarsi delle sue fantasie giovanili di oggetti ineffabili e connessioni rigide». 
Poiché sono un amante del fumetto, vorrei concludere ricordando come Umberto Eco avesse delineato sin da Opera aperta (1962) modi liberi, ma al tempo stesso rigorosi, per guardare e leggere le strisce disegnate. Proprio trattando uno degli eroi che ho più amato — Corto Maltese di Hugo Pratt —, Umberto mostrava come l’edificio costruito da «menzogne» potesse svelare gli aspetti inediti del mondo, a patto che ci si sapesse servire creativamente dello strumento dell’ironia. 
È questa che rende «errabondo» qualsiasi testo, impedendo che l’abbiano vinta tutti coloro «che cercano l’Unico Vero Significato delle Cose», come dichiara ancora Rorty. O, per dirla invece con le parole di Umberto, «è in questa bruma che affetta spazio e tempo che nascono i miti, e i personaggi sciamano per altri testi... giovani come Matusalemme, e millenari come Peter Pan».

Quella notte con Umberto  Eco sulla 127 diesel 

Così mi raccontò la storia dei Ragazzi di via Po. E compresi che i veri grandi non sono chiusi e presuntuosi ma generosi e autoironici. Com’era lui

Aldo Cazzullo Corriere 9 marzo 2016
«Al liceo avevo avuto solo amori platonici, inconfessati. All’università ci fu la prima vera esperienza con una ragazza: stesse idee, sentimenti, romanzi, emozioni. Era bello. Passavo con lei molto tempo, tutti i giorni. Far l’amore, neanche a pensarci. Un bacio al cinema. E poi le passeggiate, tante, interminabili. Lei stava vicino a corso Giulio Cesare. Uscivamo insieme da palazzo Campana, attraversavamo i giardini Reali, poi il Lungo Dora. La salutavo all’altezza del Cottolengo. Poi tornavo verso il collegio, a Porta Nuova mi infilavo in una cabina, la chiamavo e stavamo due ore e mezzo al telefono, con i suoi che la imploravano di riattaccare». Era una notte d’inizio primavera di vent’anni fa, Umberto Eco stava raccontando il suo primo amore mentre lo portavo su una 127 diesel da Torino a Milano e a me, che avevo letto e riletto il Nome della Rosa e imparato a memoria il dialogo finale tra Guglielmo da Baskerville e Jorge da Burgos, pareva di sognare. 
Non ho mai scritto né scriverò in vita mia un articolo in morte di qualcuno usando l’ «io» o il «me». Una rubrica però è diversa, consente e in qualche modo esige uno sguardo personale, un coinvolgimento, una certa generosità di sé. In quella circostanza Eco fu con me molto generoso. Non mi conosceva affatto quando lo cercai, chiedendogli una testimonianza per il libro che volevo scrivere sulla vicenda di formazione dei «ragazzi di via Po» (lui, Furio Colombo, Gianni Vattimo, Claudio Magris, Edoardo Sanguineti). Disse subito di sì, e mi diede appuntamento a Torino a casa di Paolo Paloschi, allora amministratore delegato della Stampa, dov’era a cena dopo aver partecipato a un’iniziativa della campagna elettorale proprio di Furio Colombo, candidato alla Camera per l’Ulivo. L’accordo era che avrei riportato Eco in macchina a Milano, e nel viaggio avremmo registrato il suo racconto. Arrivai a mezzanotte, dopo la chiusura del giornale. Il cameriere annunciò al padrone di casa: «C’è l’autista del professor Eco». Paloschi mi guardò sbalordito, pensando facessi un doppio lavoro. Sarà stata l’ora notturna, o la calma allegra dopo una bella serata, fatto sta che Umberto Eco confidò della sua giovinezza episodi e dettagli che non aveva mai detto in pubblico. 
Arrivati a Santhià rallentai per guadagnare tempo. All’autogrill di Novara ci fermammo per cambiare la cassetta del registratore. La conversazione proseguì sotto casa sua, in piazza Castello a Milano, sino alle quattro del mattino. Siccome non avevamo finito, mi diede appuntamento da lì a qualche giorno, e registrammo per altre cinque ore una ricostruzione in cui c’era tutto: i fumetti dell’infanzia, l’agguato del pedofilo alla stazione, l’incontro con Getto, Bobbio e gli altri grandi dell’università di Torino, il primo amore con l’anonima ragazza di corso Giulio Cesare, il fidanzamento e la dolorosa rottura con Enza Sampò, l’incontro con la donna della sua vita, Renate, ma la rottura di cui Eco parlava con maggiore sofferenza, quasi con le lacrime agli occhi, era quella con il suo maestro, Luigi Pareyson: «Quando, ancora ragazzo, scegli un professore con cui fare la tesi, diventa il personaggio in cui ti identifichi e che ami. E lui contraccambia, perché sei un suo allievo. Ma, all’inizio degli anni Sessanta, il nostro legame si spezza. Forse non sopportava il mio allontanamento dal mondo cattolico. Forse non mi ha perdonato di aver scritto che la sua estetica funzionava benissimo anche senza un’ipotesi metafisica di fondo, che lui riteneva essenziale. Fatto sta che Pareyson mi ripudia». Quelle due lunghe testimonianze furono solo l’inizio. Eco rilesse molte parti del libro, correggendo una serie d’errori, tra cui uno che lo indignò in modo particolare (avevo scritto Simone de Beauvoir con la e finale). Venne poi a presentare I ragazzi di via Po alla biblioteca Einaudi di Dogliani, così come volle poi presentare un libro che gli era piaciuto, Outlet Italia. 
Che cosa ho tratto dall’incontro con lui? Molte cose, ma vorrei citarne almeno tre. La prima: la generazione dei “Ragazzi di via Po” era unita da una solidarietà fortissima, mentre la mia generazione è dilaniata da rivalità e gelosie al limite dell’odio che la stanno portando alla rovina. La seconda: Umberto Eco era profondamente piemontese, e questo aspetto nell’ora della sua morte non è stato colto, anzi si sono letti reportage da Bologna, come se fosse casa sua. Eco era di Alessandria come la famiglia di Bobbio , si è laureato a Torino, Il Nome della Rosa è ambientato sulle Alpi marittime tra Piemonte, Liguria e Francia, i personaggi del Pendolo di Foucault dicono frasi in dialetto piemontese, i protagonisti di quasi tutti i suoi libri Baudolino, il Roberto de la Grive dell’ Isola del giorno prima, lo Yambo della Misteriosa fiamma della regina Loana, il Simone Simonini del Cimitero di Praga sono piemontesi. Purtroppo Torino oggi è una città dall’identità troppo sfilacciata per rivendicare un figlio così illustre. La terza: i veri grandi non sono quasi mai cupi, ombrosi, chiusi, presuntuosi, ma solari, semplici, generosi, autoironici. Com’era Umberto Eco.


Cerri, designer eclettico “Come ridevo con Eco” 
Chiara Beria Di Argentine Busiarda 133 2016
«Solo con Umberto Eco, forse neanche con Roland Barthes, si poteva ridere di certe cose», dice Pierluigi Cerri, il celebre architetto e designer che ha ideato il progetto grafico di «La Nave di Teseo», la nuova casa editrice fondata da Eco con un gruppo di autori e imprenditori e pilotata da Elisabetta Sgarbi, Mario Andreose e Eugenio Lio, usciti da Bompiani dopo la vendita di Rcs-libri alla Mondadori. Spiega Cerri: «Quando proponiamo la copertina di un libro il nostro interlocutore non è la casa editrice ma l’autore. Non è facile, magari ha in mente un’altra idea. Il rischio è trovarsi con uno di quelli che non percepisce l’immagine emotivamente ma solo ragionandoci. E nel momento in cui ragioni su un’immagine la fai fuori».
Milano, studio di Cerri&Associati con vista su un silenzioso cortile. Non poteva che essere l’architetto supereclettico («Fin da ragazzo mentre studiavo greco mi veniva voglia di finire il compito di matematica») di fortunata e vastissima carriera (ha curato l’immagine grafica di decine di mostre ed eventi; vinto concorsi e premi; progettato da impianti industriali alla Fondazione Pomodoro; curato la grafica di case editrici come Skira e di riviste come «Casabella» e «Rassegna», disegnato scenografie per la Rai e conquistato il grande pubblico con la striscia rossa di Prada) a ricevere una committenza rara in anni di crisi dell’editoria. «Era quasi scontato che Eco ed Elisabetta Sgarbi si rivolgessero a me», sorride. «Nel 1968 ero uno degli assistenti di Umberto che al Politecnico di Milano insegnava “Semiotica dell’architettura”. Sessantotto, semiotica dell’architettura: tutti la percepivano come una malattia del granoturco più che una disciplina! Ci siamo molto divertiti e da allora siamo rimasti amici».
Ora è tempo di «La Nave di Teseo». «Mi chiamano e mi chiedono di fare in 3 minuti un progetto che identifichi le varie collane e tenga insieme l’immagine di tutte queste collane, cioè della casa editrice. La mia idea di base è che in libreria una casa editrice deve essere immediatamente identificabile e questo si ottiene per sottrazione piuttosto che aggiungendo elementi attrattivi. I miei primi lavori? Sono stati in Bompiani grazie a Enrico Filippini. Ricordo che Valentino Bompiani teneva moltissimo al design delle copertine. Mi mostrava una stoffa e voleva proprio quell’esatto colore, inutile spiegargli che era impossibile. Ci sono molte teorie sulle copertine dei libri. In nome del marketing gli americani le concepiscono come fossero scatole di cioccolatini: il libro deve essere un oggetto che spicca, tanto che a volte si cambia anche il formato. All’opposto c’è una casa editrice come Einaudi che è stata concepita con una grande unità formale da Giulio Einaudi, che coinvolse designer come Bruno Munari e Max Huber. Peccato, ormai l’Einaudi sembra allontanarsi da quella immagine. Per l’Adelphi è stato proprio Roberto Calasso a scegliere i caratteri tipografici Baskerville».
Raffinato equilibrio di bianchi e delle scritte per copertine solo all’apparenza elementari; i testi nei classici caratteri «Garamond Simoncini» di ottima leggibilità e come illustrazioni le opere di grandi artisti come Richard Hamilton, Saul Steinberg, Mimmo Paladino, Ben Shahn. «Quando Umberto vide il progetto disse che ben rappresentava l’idea della nuova casa editrice: nessuna ridondanza ma autorevolezza e sobrietà. Dopo averli frequentati in questi mesi vi assicuro che è questo lo spirito di Elisabetta e compagni. Sono un equipaggio, non vanno mai a dormire, si danno totalmente». In libreria con Umberto Eco. «Per il “Trattato di semiotica generale” proposi d’illustrarlo con ironia. Una scelta che gli piacque molto. Così uscirà con in copertina l’omino di Saul Steinberg che diventa parola, cosa, espressione. Per “Pape Satàn Aleppe” che, in pochi giorni, ha già venduto più di 75 mila copie, ho puntato sul titolo e ho usato 2 rossi che s’intersecano. Il suo ritratto? Abbiamo messo una sua bella foto in quarta di copertina. Sono usciti milioni di giornali con la sua faccia. Troppo abusato. Umberto non voleva certo diventare come la Gioconda!».

La rivoluzione nel nome della rosa che sconvolse il mercato editoriale Storia del thriller monastico di Umberto Eco, pubblicato nel 1980: dall’idea di una tiratura limitata di un migliaio di copie al successo mondiale 16 mar 2016  Corriere della Sera di Paolo Di Stefano
In una lettera dell’11 marzo 1980 un Valentino Bompiani, che si definisce «editorialmente felice», annuncia a Umberto Eco che ha finito di leggere il manoscritto del Nome della rosa: «Che il Suo libro fosse geniale era facilmente prevedibile; tuttavia lo è in un modo imprevisto». Non sono solo elogi sperticati. L’editore muove anche due appunti «marginali» che riguardano la parte iniziale e quella finale del libro. «Il sogno di Adso sembra un po’ lungo e insistito» e «un po’ lunga è anche la descrizione dell’incendio, non tutta utile». E aggiunge: «Minimissimo disagio di compiacimento erudito, i molti titoli di libri del catalogo». Segnala poi una «smagliatura»: la ripetizione di una parola dantesca a pagina 519. Eco seguirà il consiglio di scorciare qua e là l’inizio, ma non toccherà le pagine conclusive.
Alcuni funzionari editoriali, ha ricordato Mario Andreose (allora direttore letterario), avrebbero voluto tagliare tra le cinquanta e le cento pagine e soprattutto eliminare le citazioni in latino. Domenico Porzio, giornalista critico e funzionario di Mondadori, era stato tra i primi (con altri) a leggere il dattiloscritto, in amicizia e in segreto: Eco voleva un parere franco dall’amico, temendo che l’uscita di quel romanzo potesse rovinargli la carriera scientifica. Porzio lesse il libro e lo giudicò divertente: «Piacerà soprattutto nel mondo anglosassone». Anche lui consigliò di sfoltire le troppe discussioni in latino.
Il 23 settembre, in una nuova lettera, zio Val, come Eco chiamava il suo vecchio editore, è ancora più entusiasta e dopo aver riletto il romanzo esprime la sua ammirazione per «il controllo e il dominio critico spinti fino ai gusti sofisticati». «Non sbaglierà mai?», chiede ironicamente. Il romanzo sarebbe uscito di lì a poco, a metà ottobre, ma sulla sua fortuna nessuno avrebbe scommesso a occhi chiusi. Tanto meno l’autore, che prima di decidere di consegnarlo a zio Val aveva pensato a una tiratura di un migliaio di copie con un editore raffinato come Franco Maria Ricci, da distribuire per Natale agli amici e ai conoscenti. In realtà, l’antefatto è che quando si seppe in giro che Eco aveva scritto un romanzo, si fecero avanti Giulio Einaudi e Alcide Paolini della Mondadori e fu a quel punto che il semiologo- scrittore scelse di non tradire il suo editore storico. Accadde che le prenotazioni dei librai andarono oltre le previsioni, anche se qualcuno temette che Il nome della rosa sarebbe diventato un flop, diventando piuttosto Il nome della resa.
Nessuna resa, ovviamente. Eco non aveva sbagliato neanche il titolo, scelto in un ampio ventaglio di possibilità che andavano da Delitti all’abbazia a Blitiri, un termine tecnico della logica medievale. Alle 80 mila copie iniziali se ne aggiunsero subito altre 20 mila. È sempre Andreose a ricordare: «Nessuno aveva previsto quel che sarebbe accaduto. Il libro ebbe per Bompiani effetti collaterali enormi sia sul piano economico sia sul piano della visibilità e del prestigio internazionale, in un momento in cui l’astro di Moravia all’estero era in calo. Quando si cominciò a profilare il successo, il problema fu quello di comperare la carta, gestire le ristampe e tenere i contatti con gli editori stranieri». Non tutti dei quali capirono subito: «Parte degli editori del semiologo ebbero qualche riluttanza di fronte al narratore. François Wahl di Seuil, che aveva pubblicato i suoi saggi, disse: “no, Umberto, sbagli”, e lo respinse». In Francia, il romanzo sarebbe stato acquistato da JeanClaude Fasquelle di Grasset, ma la decisione fu travagliata anche negli Stati Uniti, dove l’editore Harcourt se lo aggiudicò per la miseria di seimila dollari. Il bilancio sarà di 47 traduzioni per un totale di circa cinquanta milioni di copie vendute ovunque.
All’uscita del libro, il battage fu pressoché immediato e piuttosto inusuale per i tempi: lunga intervista a Laura Lilli sulla «Repubblica» il 15 ottobre, giorno dell’uscita, e un intero dossier, intitolato Giallo antico, sull’«Espresso» pochi giorni dopo, il 19, con interventi multipli, tra cui quello di Maria Corti sull’«opera chiusa» e sulla «semantica a molti gradini » . Fu ovunque un’esplosione di recensioni positive (molte), caute e negative (tra le poche quella di Geno Pampaloni, che consigliava a Eco di continuare a fare il filosofo): gli articoli, gli interventi critici, le discussioni crebbero con il crescere del successo.
Il «Corriere», nell’inserto Libri, arrivò soltanto il 30 novembre, quasi snobisticamente dedicando le cinque colonne d’apertura a un’antologia poetica di Giorgio Caproni, L’ultimo borgo, con una recensione di Giuliano Gramigna, e soltanto le due colonne di spalla al Nome della rosa, con l’intervento di Antonio Porta. Tra un’importante raccolta di poesie e quello già salutato come «il romanzo dell’anno», ampiamente recensito dalla concorrenza un mese e mezzo prima — e nel frattempo divenuto oggetto di discussione nei maggiori quotidiani e settimanali —, il «Corriere» sembra non avere dubbi: prima viene la grande poesia contemporanea. Il premio Strega sarebbe arrivato dopo qualche mese e nel 1986 il film di Annaud avrebbe rilanciato la fortuna del bestseller. Vittorio Spinazzola sull’«Unità» aveva scritto, subito dopo l’uscita, che il romanzo di Eco andava valutato «innanzitutto sul piano dell’efficacia», cioè dalla sua capacità di avere consenso, perché per questo era nato.
Vigeva comunque, in quel 1980, un’altra idea di giornalismo culturale, che noi oggi potremmo giudicare quasi archeologica e che in meno di un decennio avrebbe vissuto, grazie anche al caso Eco, una vera e propria rivoluzione, con la corsa al primato, all’esclusiva, all’anticipazione, all’anticipazione dell’anticipazione, alla complicità con la tv (che Eco volutamente evitava, considerandola controproducente per la promozione dei libri). A quei tempi solo «La Stampa» proponeva, nel suo supplemento culturale «Tuttolibri», le classifiche dei titoli più venduti, mentre il «Corriere» si limitava a fornire occasionali informazioni sul mercato editoriale affidandole a notizie d’agenzia o a brevi servizi privi di rilevanza scientifica. Il nome della rosa fu l’uragano che avrebbe aperto una nuova epoca del giornalismo culturale e della cultura editoriale.


Eco  “Esigente ma senza trabocchetti Così correggeva le nostre tesi”
A un mese dalla scomparsa gli ex allievi ricordano il loro professore Che chiedeva solo una cosa: “Buone idee” Davanti alle bozze diceva: “Apro e trovo un refuso” E lo trovava

ILARIA VENTURI Restampa 19 3 2016
La teoria dell’abduzione in Peirce, i modi di produzione segnica nell’opera del pittore olandese Hieronymus Bosch sino alla semiotica del testo delle guide turistiche, al “grammelot” e al caso delle librerie Feltrinelli. E chissà quanto può averlo divertito una tesi sull’ergonomia del trattore discussa da uno studente di Attilio Marcolli, teorico del design industriale, al Dams quando era presidente di commissione, nel marzo del 1984. L’archivio della facoltà di Lettere di Bologna conserva vent’anni di tesi con Um–
berto Eco, ne conta oltre ottanta firmate da relatore, dal ‘79 al 2001. La narrazione, tra faldoni impolverati e file elettronici, del suo essere professore. Fenomenologia di come si fa una dissertazione di laurea attraverso chi l’ha scritta col filosofo dei segni.
La tesi è un’alchimia, scriveva Eco già nel 1977 quando decise, due anni dopo essere stato chiamato in cattedra al neonato Dams di Bologna, di dare alle stampe con Bompiani il saggio
Come si fa una tesi di laurea che è ancora un bestseller tra gli studenti. Mise nero su bianco quelle regole che i suoi laureandi imparavano in aula. Solo alla bibliografia dedicava un’intera lezione. «Era sacra, non potevi sbagliarla. All’epoca le condizioni per chiedergli la tesi erano rendere biennale il suo esame di semiotica e conoscere l’inglese. E poi dovevi leggere in lingua originale gli autori», ricorda Giampaolo Proni, uno dei primi laureati. È il 12 novembre 1979. «Venivo da Filosofia, dove si dava del lei ai professori. Al Dams no: Umberto, Umberto, lo chiamavano nei corridoi. Lui sempre in giacca e cravatta, ma l’ambiente era informale. Il giorno della discussione, davanti a una commissione di undici docenti, Umberto mi aveva più o meno detto cosa mi avrebbe chiesto. Ma esordì con una domanda inattesa. Era fatto così, rincorreva i pensieri del momento. E noi facevamo gli intellettuali puri, non è che pensavi al voto o alla lode. Perché laurearmi con lui? Andai alla sua prima lezione incuriosito, lui entrò in aula, appallottolò dei fogli e cominciò a lanciarli verso di noi: vedete, questo è un segno. Fu una folgorazione ». Proni e molti suoi laureati sino agli anni Novanta sono ora ricercatori e professori. «Ti lasciava lavorare in estrema libertà, pur aiutandoti nell’accesso alle biblioteche o per andare all’estero. Non dava importanza alla lunghezza, apprezzava una cosa breve se arrivava al dunque, cassava le inutili lungaggini». Chi ha fatto la tesi con lui, chi ha letto come farla. «Non ci ha mai incoraggiato al bello stile», rammenta Proni. E infatti, Eco mette in chiaro nel saggio: «Non siete Proust».
La tesi secondo Eco era quel passo avanti, o in un’altra direzione, che lo studente era tenuto a fare per arrivare a dirsi dottore. Lucio Spaziante ricorda bene quando Eco redarguiva: «Questa roba è solo una fila di citazioni. Quando arriva la tesi?». Si è laureato nel ‘93 sulla musica pop. «Accettò, anche se aveva altre passioni musicali. Era già una star in quegli anni, ma continuava a correggere tutto sino al dettaglio. Un giorno al bar mi presentò Freak Antoni: ti può aiutare nella tesi. Insomma, ti aveva sempre presente. E non ti regalava nulla».
Negli anni del Dams i suoi laureati sono soprattutto di Filosofia. «Lui si sentiva filosofo», spiega Costantino Marmo, suo tesista di dottorato. «Correggeva tutto a mano, tirava righe e orecchie, gli errori di sintassi lo facevano sobbalzare».
L’occhio di editor non perdonava. «Lanciava la scommessa davanti alle tue bozze: apro e trovo un refuso. E lo trovava», sorride la semiologa Giovanna Cosenza. «Era esigente, ma non faceva trabocchetti».
Non imponeva mai un titolo, ma nei suoi titoli si legge la sua parabola intellettuale: dalle più seriose e filosofiche tesi al Dams a quelle più eclettiche di Scienze della Comunicazione. Come dire: dal Trattato di semiotica a
Diario minimo. «Le tesi più vecchie affrontano l’analisi di modelli scientifico-epistemologici – è la lettura dell’allieva Patrizia Violi – Poi c’è l’apertura a temi più ampi, così come aveva concepito il corso in Comunicazione. La sua idea era approfondire con strumenti rigorosi gli oggetti più vari». Dunque, gli ipertesti, la letteratura per ragazzi, le poetiche futuriste, “il conflitto nel fumetto”, il viaggio di piacere, il “caso Grazia Neri”, Cenerentola e Borges, la “rappresentazione ideologica di Internet nella stampa italiana”, il comico.
Rigore, sino all’ultima nota a piè di pagina, e divertissement.
Il giorno della laurea si trasformava in un dibattito. «Ricordo la discussione che si accese tra lui e il filosofo del linguaggio Giorgio Sandri», dice Daniele Barbieri, l’allievo enfant prodige sin dal primo esame. Ma in quelle sessioni entrava anche il gioco: Eco che scherza con la laureanda Margherita Cristiani al nono mese di gravidanza, «mettiamoci di profilo e vediamo chi ha più pancia», Eco che presenta Lara Crinò, ora giornalista, così: «La conoscete per averla vista al bar dei Commercianti», il caffè sotto i portici di Bologna dove Eco prolungava le sue lezioni, tra battute e Martini. «Riuscì a sciogliere la tensione del momento. Presentavo una tesi su web e processi narrativi. Le prime 50 pagine me le restituì con le note a margine in cui rimandava la frammentarietà del digitale al gusto per il frammento nel Medioevo». La generazione ora quarantenne dei suoi laureati è la più giovane. L’ultimo titolo è del 2001. È la nidiata dei primi allievi di Scienze della comunicazione. Voci concordi. Ti aspettava con il blocchettino per te: ricerche bibliografiche, integrazioni. Ti faceva sentire alla pari e ti sfidava: dimostra cosa la tua tesi porta in più al già detto e scritto. Chiara Vigo, laureata nel 2000 sulle collane dell’Unità disegnate da Giovanni Lussu, dovette tornare più volte nel suo studio: «Accettò la mia tesi sulle copertine dei libri dopo una lunga lista di proposte bocciate. Bisognava presentarsi con una buona idea: il banale lo annoiava». Chiara ora lavora nell’azienda vinicola di famiglia sulle pendici dell’Etna. Ma quella tesi con Eco, una delle ultime, mica la scorda. «Lì ho imparato un metodo. E uno sguardo sul mondo».


L’avventura di studiare senza temere il pop 

STEFANO BARTEZZAGHI Restampa 19 3 2016
Ascorrere alcuni dei temi su cui Umberto Eco ha assegnato tesi ai suoi studenti, fra la metà degli anni Settanta e il Duemila, ci si può meravigliare della loro varietà. Il comico di Achille Campanile vicino ai problemi semiotici in Martin Heidegger, l’enunciazione pittorica in Leonardo da Vinci vicino alla moda e alla sua narrazione postmoderna, i generi televisivi o Alice nel Paese delle Meraviglie vicino alla metafora nel decostruzionismo di Jacques Derrida e al grammelot. Perché no? E, anzi, perché sì?
Recensendo nel 1964 Apocalittici e integrati, il libro di Eco sulla cultura di massa, Pietro Citati prevedeva, con preoccupazione non scevra da sarcasmo, un futuro in cui le cattedre universitarie si sarebbero occupate di fumetti, canzoni e altre produzioni parimenti bagatellari. Lo spettro del pop tardò di un decennio abbondante sull’allarmata profezia: accolto dall’accademia italiana – o almeno dal Dams di Bologna – nel 1975, Eco incominciò appunto ad assegnare anche (non esclusivamente) tesi di laurea su argomenti che i più severi lettori di Apocalittici e integrati potevano ritenere immeritevoli di attenzioni accademiche. Ma già in quel 1964 i presupposti erano messi in chiaro: la dignità di un discorso non è funzione del suo oggetto, ma del suo metodo. Un’analisi semiotica deve essere valida sia se tratta di massimi sistemi sia se si rivolge ai minimi: è una caratteristica che ha in comune con la meditazione zen o con la cardiochirurgia, che usa i medesimi sistemi per potenti e umili (o almeno dovrebbe farlo). In fondo, si tratta di scegliere fra democrazia e aristocrazia.
Così non si ebbero molti timori reverenziali nel proporre una tesi sull’enigmistica. Che i giochi siano alla base della cultura si sapeva almeno dall’Homo ludens di Johan Huizinga, scritto alla fine degli anni Trenta e studiato da Eco all’inizio dei Settanta. Nei giochi enigmistici si propone un uso sistematico dell’ambiguità, la quale per l’etica è un vizio ma per la semiotica è una caratteristica costitutiva dei linguaggi umani. Dal più umile o infantile giochetto si possono insomma trarre conclusioni di qualche importanza sul modo in cui comunichiamo.
Sul piano del gusto si può preferire Debussy a Bobby Solo, Piero della Francesca a Hugo Pratt, Anna Karenina a James Bond. Il piano del funzionamento testuale è diverso. I problemi incominciavano proprio lì: una tesi sulla critica dantesca può essere pigramente assemblata in biblioteca, mentre costruire corpus e metodi di analisi su canzonette, giochi di parole o storie a fumetti richiede una certa vocazione all’avventura. A quel punto Eco tornava sabaudo e prescrittivo: dov’è la bibliografia? Perché manca il titolo originale?
I capitoli consegnati tornavano con orecchie ai margini delle pagine e sgorbi in pennarello sui margini. Essere frivoli è un duro lavoro: solo quando alla fine del cordiale ma serio esame di laurea Eco ti annunciava il voto collegiale e ti stringeva la mano potevi davvero sperare di averlo compiuto decentemente. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Così fu svelata la trama del «Pendolo» Ma Eco sapeva accettare le beffe Luglio 1988: sul «Corriere del Ticino» lo scoop che scatenò un putiferio Quanti sospetti di complotto sul romanzo dedicato al Grande Complotto 20 mar 2016  Corriere della Sera di Paolo Di Stefano © RIPRODUZIONE RISERVATA
Il 30 luglio 1988 ho fatto uno scherzo a Umberto Eco. Da settimane, anzi da qualche mese, non c’era giornale al mondo, dopo il successo planetario del Nome della rosa, che non insinuasse laconiche ipotesi sul nuovo romanzo. I bollettini americani, tra cui il prestigioso settimanale degli editori, «Publisher’s Weekly», sussurravano parche anticipazioni che rimbalzavano in Italia: tra queste, il titolo, Il pendolo di Foucault. In brevi notizie sparse qua e là c’era chi avanzava il sospetto che i protagonisti fossero tre redattori editoriali, anzi due, anzi quattro, che si occupavano di scienze occulte, società segrete e complotti cosmici. Altri davano ragguagli su Foucault, che non era Michel. Qualcuno parlò dei Templari. Ma ogni certezza veniva rimandata alla Fiera di Francoforte che quell’anno avrebbe avuto l’Italia come ospite d’onore: lì, all’inizio di ottobre, sarebbe stato svelato al mondo il mistero del nuovo romanzo del grande semiologo. Intanto, l’ansia cresceva, con i sussurri dei si dice e non si dice, dei si sa e non si sa… Più che comprensibile tanto fermento, se si pensa che Eco nel 1980 era entrato nell’empireo delle celebrità letterarie. E l’attesa, dopo l’esordio narrativo, era stata insolitamente lunga: otto anni.
Lavoravo allora al «Corriere del Ticino», a Lugano, dove curavo le pagine culturali del sabato. Un pomeriggio incontrai Maria Corti, che si trovava in Ticino per una conferenza dantesca: portava con sé una imponente borsa. «Sai cosa c’è qui dentro? C’è il manoscritto del nuovo romanzo di Eco». Ricordo che aggiunse con autentica ammirazione che si trattava di un romanzo «importante, molto più difficile, ma migliore del Nome della rosa ». E ricordo che proseguì dicendosi infastidita dal montare del silenzio (e delle voci e non voci) attorno al libro, da quel fremito dell’attesa mondiale che, secondo lei, era il frutto di una irritante strategia di marketing: «Che bisogno c’è…», si chiedeva.
Eco aveva dato da leggere il dattiloscritto in anteprima a otto amici, tra cui c’erano anche Furio Colombo, Oreste del Buono, Ugo Volli, Domenico Porzio, Alberto Asor Rosa e altri. Non feci neanche in tempo a chiedere a Maria Corti di parlarmene o di raccontarmelo che mi propose, divertita al solo pensiero di creare scompiglio nel mondo editoriale: «Te lo lascio fino a domani, fanne ciò che vuoi…». Quel «fanne ciò che vuoi» significava che mi autorizzava a scriverne sul mio giornale di provincia. Ovviamente si assumeva lei la responsabilità del «tradimento» e le sue eventuali conseguenze: non sarebbe stato difficile risalire a lei, visto che collaborava per l’inserto del «Corriere del Ticino». Sapeva che era come darmi in mano una bomba.
Passai la serata e la notte a leggere quell’ordigno in forma di romanzo e riconsegnai il malloppo alla legittima proprietari ala mattina dopo. E così il 30 luglio uscì un fogliettone sulla prima pagina del« Corriere del Ticino» intitolato Mistero e occultismo nel «Pendolo» di Eco: vi si rivelava il grosso della trama, niente di più. Ne venne fuori un putiferio internazionale. Quotidiani e settimanali non solo italiani si scatenarono: si urlò al patto violato da chissà quale traditore. Varie intese erano state strette: tra Eco e i suoi lettoriamici di certo, ma probabilmente anche tra la casa editrice e gli organi di stampa, che dovevano stare al gioco, centellinare le notizie, soffiare piano sul fuoco senza creare un incendio ma solo tenendo caldo il caso fino al botto di ottobre. Ma insomma, a quel punto, con lo scoop ticinese, scatenato dalla periferia dell’impero, chi sapeva e aveva promesso di tacere ritenne rotto l’accordo e cominciò a parlare.


Oreste del Buono sul «Corriere della Sera», nel denunciare la violazione del silenzio, pubblicò una pre-recensione già il 3 agosto, ben due mesi prima che il romanzo fosse in libreria. Ugo Volli uscì sull’«Europeo» il 19. I tempi del battage precipitarono e «la Repubblica», il giornale di Eco, dovette anticipare di un mese e mezzo l’intervista all’autore. Assistere alla cascata prematura di servizi, inchieste, rivelazioni, insinuazioni proprie e improprie fu un gran divertimento, per me ma anche per Maria Corti, che sorrideva dietro le quinte: in realtà un detective come Eco avrebbe dovuto sospettare subito di lei, ma il suo nome sarebbe saltato fuori molto dopo, quando l’incendio era ormai spento da qualche anno. Qualcuno azzardò che era tutta una messinscena: e che in realtà lo scoop era stato ordito (a mia insaputa o me complice) dalla casa editrice perché ne venisse fuori un caso internazionale, poco importa se prematuro. Il Grande Complotto, del resto, era anche il tema del romanzo.
Per un bel po’ stetti alla larga da Eco, e solo nel 2000 considerai passata la bufera, quando mi arrivò Baudolino con sobria dedica «dal Suo Umberto Eco». A venticinque anni da quello «scherzo», nel gennaio 2012, a casa sua per un’intervista sulla seconda (discussa) edizione del Nome della rosa, riuscii a rievocare con Eco quella beffa.
Il ricordo non gli fece perdere il buonumore. Mi assolse: «Io non ce l’avevo con te, non era colpa tua. Ma non ce l’avevo neanche con quella salama della Maria, ero molto arrabbiato con quei due, del Buono e Volli, che avevano avuto il libro da leggere e ne hanno approfittato per scriverne subito. A loro ho inviato il libro successivo molto tempo dopo la pubblicazione con la dedica: “Scusate il ritardo…” Alla Corti no, l’ho mandato come sempre: era tanto cara, la Maria, e l’ha fatto con ingenuità. Nessuno voleva che nascesse quel casino, è successo tutto da solo: è stata interpretata come un’operazione attentissima di promozione, ma giuro su Dio che non è stato fatto niente per creare il caso. Anzi, dopo lo scoop del “Ticino” ho telefonato a Scalfari: ti imploro di non far uscire articoli. Tutto era stato predisposto per non creare un casino inutile».
Solo dal 3 ottobre, dopo centinaia di interventi in assenza del libro, cominciarono ad apparire le prime vere recensioni, inaugurate da quella di Asor Rosa sulla « Repubblica » , il giornale di cui lo stesso Eco era collaboratore. Il 28 agosto, era stato «L’Espresso» ad aggiudicarsi l’anteprima mondiale.
Fatto sta che si trattò del primo, macroscopico battage promozionale di un romanzo italiano, in Italia e all’estero, con interviste, inchieste, servizi di colore, reportage, anteprime, discussioni, polemiche, persino autointerviste, infine recensioni elogiative e anche impietose stroncature eccellenti, come quella (sulla «Repubblica» del 21 ottobre) in cui Citati parlava di un «diligente bignami dell’occulto» e di Eco come di un «gran buffone». L’onda durerà, senza sosta, fino all’anno dopo, con il bilancio della fortuna commerciale del romanzo negli Stati Uniti e in Francia. Il 9 luglio 1989 sul «Corriere», Valerio Riva, amico di Eco e suo ex sodale alla Bompiani, avrebbe fatto il resoconto ragionato di quella «brillante operazione di marketing e di financing» che solo in Italia permise di vendere 580 mila copie del Pendolo in non più di otto mesi.      

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