giovedì 28 aprile 2016

Cassese e la questione meridionale

Trasformare la società per recuperare il Meridione 
Il nuovo libro del giurista Sabino Cassese sulla Storia del rapporto Nord-Sud offre una prospettiva realistica su un’integrazione che non si è ancora realizzata 

Emanuele Felice Busiarda 28 4 2016
Senza il Sud, non si capisce l’Italia. E non solo. Così centrale è stato il Mezzogiorno per la storia e la cultura del nostro Paese - per l’agone politico e il confronto economico, per la costruzione dello Stato e il nostro immaginario collettivo, dalla letteratura al cinema - che sulla questione meridionale ritroviamo alcune delle pagine migliori scritte dai grandi intellettuali del Novecento: Croce e Nitti, Salvemini e Gramsci, ma anche Piero Gobetti, tutti si sono misurati con il problema storico dell’arretratezza del Sud, con le sue cause e le possibili soluzioni.
Le due diagnosi
Ce lo ricorda un bel libro edito da Sabino Cassese (Lezioni sul meridionalismo. Nord e Sud nella storia d’Italia, pp 384, €25), che esce oggi per il Mulino e chiama a raccolta alcuni fra i maggiori studiosi italiani per rileggere, con diversi spunti originali, la storia del Mezzogiorno a partire dall’Unità. Il libro è importante anzitutto perché prova a riportare il Mezzogiorno al centro del grande dibattito nazionale: sulle istituzioni, le politiche, le strategie da mettere in campo per rilanciare il Sud e, quindi, l’Italia (illusorio è pensare di uscire dal declino tirandosi dietro un Sud inerte). Ma poi lo è anche nel merito, per la chiarezza con cui emergono le due prospettive diverse su cui si sono confrontati intellettuali e classi dirigenti - e perché ben si può comprendere, leggendo queste pagine, che l’errore è stato (è) nel considerarle alternative.
La prima prospettiva è quella del meridionalismo classico, che punta anzitutto sulla crescita civile delle regioni meridionali; sulle precondizioni dello sviluppo, diremmo oggi, sul capitale umano e sociale. A inizio Novecento, questa prospettiva si trova saldamente incardinata nel filone liberalsocialista, da Gaetano Salvemini a Tommaso Fiore, fino a Piero Gobetti - lo straordinario giovane torinese che negli ultimi mesi della sua vita aveva individuato proprio nel Mezzogiorno uno dei cardini della «Rivoluzione liberale». Chiede il federalismo, vuole responsabilizzare le classi dirigenti del Sud e così facendo modificare la politica e le istituzioni italiane dalle fondamenta. 
Il dopoguerra
La seconda è quella dell’industrializzazione, affidata all’intervento dello Stato: è una prospettiva concretamente avviata già in tarda età liberale, a Bagnoli, grazie all’opera di Francesco Saverio Nitti. Dopo la Seconda guerra mondiale, sarà soprattutto questa strategia di trasformazione dall’alto - l’«industrializzazione esterna», come la chiama Giannola - a dare i suoi frutti in termini di convergenza. E invece l’autonomia amministrativa, quando attuata concretamente a partire dal 1970, si rivelerà fallimentare: sarà il malfunzionamento delle regioni meridionali una delle cause sia dell’impantanarsi dell’intervento pubblico, sia della fine della convergenza.
Forma e fatti
Avevano quindi ragione gli interventisti alla Nitti, torto i federalisti come Salvemini e Gobetti? Non proprio. Sabino Cassese, nel suo saggio di apertura, ci fa capire che la questione è più complessa e che le due prospettive non devono essere contrapposte. Osserva che la causa principale del divario Nord-Sud è stata la differenza di performance delle istituzioni (risultato di contesti socio-economici diversi) e quindi delle classi dirigenti che ivi operano. Questo aspetto è stato a lungo trascurato, perché la nostra cultura a formazione giuridica si concentra sugli aspetti formali (e formalmente con l’Unità le istituzioni diventano uguali in tutta Italia), mentre ciò che davvero conta è come le istituzioni funzionano nella pratica, de facto e non solo de jure.
I meridionalisti classici avevano ragione, quindi, nell’insistere sul divario nelle condizioni civili che è all’origine della diversa performance istituzionale. E il problema non è la creazione delle regioni, in sé, ma come è stata realizzata: cioè consegnando potere e clientele alle classi dirigenti locali, senza responsabilizzarle né verso i cittadini, né verso lo Stato. Ed è per la stessa ragione, a ben vedere, che dopo i primi successi a un certo punto si è bloccato anche l’intervento straordinario: perché impantanato nella struttura di potere locale e nelle sue logiche, che nessuno si era preoccupato di modificare. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

L’eterna questione. MeridionaleIl Sud nell’analisi di storici ed economisti. Tra consapevolezza, critica e rammaricoCorriere della Sera 21 May 2016 Di Michele Salvati
Ha fatto bene Sabino Cassese a curare la pubblicazione delle Lezioni sul meridionalismo (il Mulino) tenute al Centro Guido Dorso di Avellino tra la fine dell’anno scorso e l’inizio di questo: dieci profili storici di grandi studiosi dell’eterna «quistione», come la chiamava Gramsci, rinserrati tra due interpretazioni d’insieme dell’intero dibattito (Piero Bevilacqua e Giuseppe Galasso) e introdotti da cinque lucide pagine del curatore. Ho lasciato fuori dal conto la ripubblicazione di due saggi dell’immediato dopoguerra, di Antonio Giolitti e Giorgio Napolitano, segnati dalla passione politica e dallo spirito del tempo. E ho lasciato fuori anche i saggi di tre economisti e storici contemporanei, Adriano Giannola, Amedeo Lepore e Guido Melis, i quali, anche se si occupano soprattutto di Mezzogiorno, appartengono a un mondo diverso da quello dei grandi meridionalisti di un passato ormai lontano: Pasquale Villari e Giustino Fortunato, Luigi Sturzo e Francesco Saverio Nitti, Antonio Gramsci e Gaetano Salvemini, Guido Dorso e Piero Gobetti.
Sono storici gli autori di gran parte dei profili e sono soprattutto politici i grandi meridionalisti passati in rassegna. Una rassegna che si chiude col fascismo e la Seconda guerra mondiale e lascia inesplorata l’evoluzione successiva della grande questione. Ma dal dopoguerra a oggi sono passati 70 anni, assai più del tempo trascorso dalle Lettere meridionali di Pasquale Villari — alle quali giustamente Bevilacqua fa risalire la questione meridionale come uno dei grandi temi del Nation Building del nostro Paese — alla Seconda guerra mondiale o allo stesso fascismo. E in questi 70 anni le analisi sulle cause del più debole sviluppo economico (ma anche sociale e culturale) del Mezzogiorno e l’impegno dei governi per combatterle hanno assunto dimensioni imparagonabili per ampiezza e vigore rispetto ai tempi dei meridionalisti prebellici. Alla questione meridionale come si è presentata nel secondo dopoguerra e come si presenta oggi, sono però dedicate solo le poche riflessioni di sintesi di cui dicevo prima, se si eccettuano i saggi di Giannola e Lepore, due studiosi che fanno soprattutto riferimento alle analisi della Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) alle attività della Cassa per il Mezzogiorno, e quello di Melis sulla Sardegna.

Non è un’omissione, è una scelta. Con il dopoguerra, con la Repubblica, cambia tutto e la «questione» non può più essere raccontata attraverso profili individuali di grandi intellettuali e politici isolati. Essa diventa uno dei problemi centrali dei partiti che innervano la democrazia repubblicana — la repubblica dei partiti come la definirà Pietro Scoppola — e dunque uno degli assi dei loro programmi. I leader di partito legheranno il loro nome alle grandi scelte politiche che i tempi imponevano: il disegno effettivo delle strategie di governo sarà delegato a tecnici di loro fiducia. E proprio come, per le grandi scelte della ricostruzione, la scelta ricade sul personale che l’Iri aveva formato durante il fascismo, lo stesso avviene per le scelte sul Mezzogiorno: la Svimez nasce nel ’46 per impulso di Saraceno (democristiano) e Morandi (socialista): ma dietro loro aleggiano le grandi ombre di Francesco Saverio Nitti e di Alberto Beneduce e saranno uomini del primo Iri (Menichella, Giordani, Cenzato, Paratore) a disegnare missione e struttura dell’intervento straordinario.
Si tenga poi presente la situazione economica e lo spirito del tempo. A partire dal 1948 e sempre di più nel corso degli anni Cinquanta ci si avvede che l’impetuoso sviluppo economico consente di riservare risorse sempre maggiori all’intervento pubblico nel Mezzogiorno, e che a destra e a sinistra, e anche tra gli economisti e i consulenti americani, prevale un orientamento favorevole all’intervento dello Stato nell’economia. Al di là dello scontro ideologico è dunque diffuso un effettivo consenso sulle grandi scelte operate dalla Cassa per il Mezzogiorno, le cui vicende Amedeo Lepore racconta in modo conciso, ma assai bene.
I saggi di Lepore e Giannola raccontano dunque una storia che può essere letta come la continuazione di un indirizzo che era già emerso prima del fascismo e che Barbagallo tratteggia brevemente nel suo profilo dedicato a Nitti. Ma a questo punto la continuità si rompe. La crisi e poi la fine dell’intervento straordinario, le tristi vicende che ci racconta Giannola nel suo saggio e alle quali la Svimez ha dedicato il suo ultimo, documentato e allarmante rapporto, non sono più parte della stessa storia. Verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso, e soprattutto inoltrandoci nei decenni successivi, qualcosa si rompe.
Si rompe a livello internazionale perché viene sconfitto dal neoliberalismo ora dominante quel regime di politica economica che aveva assicurato i «trent’anni gloriosi» seguiti alla fine della guerra. E si rompe — lo si vedrà meglio all’inizio degli anni Novanta — quella repubblica di partiti che aveva riconosciuto al Mezzogiorno il ruolo di problema centrale del Nation Building del nostro Paese. Di questo c’è consapevolezza nelle due interpretazioni d’insieme di Bevilacqua e di Galasso che aprono e chiudono il volume. E c’è consapevolezza nella seconda parte dell’importante saggio di Giannola, l’attuale presidente della Svimez. Consapevolezza, rammarico e critica per come le cose sono andate. Ma potevano andare diversamente? Perché sono andate così e perché la grande esperienza dell’intervento straordinario è fallita?
Non sono tre brevi saggi, sintetici e inevitabilmente ideologici, a poter rispondere a questo domande. Di qui l’augurio che proprio ad esse sia dedicato il prossimo ciclo di conferenze del Centro Guido Dorso, cui auguro lo stesso successo intellettuale del ciclo che ha dato vita a quest’ottimo libro.

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