L’eterna questione. MeridionaleIl Sud nell’analisi di storici ed economisti. Tra consapevolezza, critica e rammaricoCorriere della Sera 21 May 2016 Di Michele Salvati
Ha fatto bene Sabino Cassese a curare la pubblicazione delle Lezioni sul meridionalismo (il Mulino) tenute al Centro Guido Dorso di Avellino tra la fine dell’anno scorso e l’inizio di questo: dieci profili storici di grandi studiosi dell’eterna «quistione», come la chiamava Gramsci, rinserrati tra due interpretazioni d’insieme dell’intero dibattito (Piero Bevilacqua e Giuseppe Galasso) e introdotti da cinque lucide pagine del curatore. Ho lasciato fuori dal conto la ripubblicazione di due saggi dell’immediato dopoguerra, di Antonio Giolitti e Giorgio Napolitano, segnati dalla passione politica e dallo spirito del tempo. E ho lasciato fuori anche i saggi di tre economisti e storici contemporanei, Adriano Giannola, Amedeo Lepore e Guido Melis, i quali, anche se si occupano soprattutto di Mezzogiorno, appartengono a un mondo diverso da quello dei grandi meridionalisti di un passato ormai lontano: Pasquale Villari e Giustino Fortunato, Luigi Sturzo e Francesco Saverio Nitti, Antonio Gramsci e Gaetano Salvemini, Guido Dorso e Piero Gobetti.
Sono storici gli autori di gran parte dei profili e sono soprattutto politici i grandi meridionalisti passati in rassegna. Una rassegna che si chiude col fascismo e la Seconda guerra mondiale e lascia inesplorata l’evoluzione successiva della grande questione. Ma dal dopoguerra a oggi sono passati 70 anni, assai più del tempo trascorso dalle Lettere meridionali di Pasquale Villari — alle quali giustamente Bevilacqua fa risalire la questione meridionale come uno dei grandi temi del Nation Building del nostro Paese — alla Seconda guerra mondiale o allo stesso fascismo. E in questi 70 anni le analisi sulle cause del più debole sviluppo economico (ma anche sociale e culturale) del Mezzogiorno e l’impegno dei governi per combatterle hanno assunto dimensioni imparagonabili per ampiezza e vigore rispetto ai tempi dei meridionalisti prebellici. Alla questione meridionale come si è presentata nel secondo dopoguerra e come si presenta oggi, sono però dedicate solo le poche riflessioni di sintesi di cui dicevo prima, se si eccettuano i saggi di Giannola e Lepore, due studiosi che fanno soprattutto riferimento alle analisi della Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) alle attività della Cassa per il Mezzogiorno, e quello di Melis sulla Sardegna.
Non è un’omissione, è una scelta. Con il dopoguerra, con la Repubblica, cambia tutto e la «questione» non può più essere raccontata attraverso profili individuali di grandi intellettuali e politici isolati. Essa diventa uno dei problemi centrali dei partiti che innervano la democrazia repubblicana — la repubblica dei partiti come la definirà Pietro Scoppola — e dunque uno degli assi dei loro programmi. I leader di partito legheranno il loro nome alle grandi scelte politiche che i tempi imponevano: il disegno effettivo delle strategie di governo sarà delegato a tecnici di loro fiducia. E proprio come, per le grandi scelte della ricostruzione, la scelta ricade sul personale che l’Iri aveva formato durante il fascismo, lo stesso avviene per le scelte sul Mezzogiorno: la Svimez nasce nel ’46 per impulso di Saraceno (democristiano) e Morandi (socialista): ma dietro loro aleggiano le grandi ombre di Francesco Saverio Nitti e di Alberto Beneduce e saranno uomini del primo Iri (Menichella, Giordani, Cenzato, Paratore) a disegnare missione e struttura dell’intervento straordinario.
Si tenga poi presente la situazione economica e lo spirito del tempo. A partire dal 1948 e sempre di più nel corso degli anni Cinquanta ci si avvede che l’impetuoso sviluppo economico consente di riservare risorse sempre maggiori all’intervento pubblico nel Mezzogiorno, e che a destra e a sinistra, e anche tra gli economisti e i consulenti americani, prevale un orientamento favorevole all’intervento dello Stato nell’economia. Al di là dello scontro ideologico è dunque diffuso un effettivo consenso sulle grandi scelte operate dalla Cassa per il Mezzogiorno, le cui vicende Amedeo Lepore racconta in modo conciso, ma assai bene.
I saggi di Lepore e Giannola raccontano dunque una storia che può essere letta come la continuazione di un indirizzo che era già emerso prima del fascismo e che Barbagallo tratteggia brevemente nel suo profilo dedicato a Nitti. Ma a questo punto la continuità si rompe. La crisi e poi la fine dell’intervento straordinario, le tristi vicende che ci racconta Giannola nel suo saggio e alle quali la Svimez ha dedicato il suo ultimo, documentato e allarmante rapporto, non sono più parte della stessa storia. Verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso, e soprattutto inoltrandoci nei decenni successivi, qualcosa si rompe.
Si rompe a livello internazionale perché viene sconfitto dal neoliberalismo ora dominante quel regime di politica economica che aveva assicurato i «trent’anni gloriosi» seguiti alla fine della guerra. E si rompe — lo si vedrà meglio all’inizio degli anni Novanta — quella repubblica di partiti che aveva riconosciuto al Mezzogiorno il ruolo di problema centrale del Nation Building del nostro Paese. Di questo c’è consapevolezza nelle due interpretazioni d’insieme di Bevilacqua e di Galasso che aprono e chiudono il volume. E c’è consapevolezza nella seconda parte dell’importante saggio di Giannola, l’attuale presidente della Svimez. Consapevolezza, rammarico e critica per come le cose sono andate. Ma potevano andare diversamente? Perché sono andate così e perché la grande esperienza dell’intervento straordinario è fallita?
Non sono tre brevi saggi, sintetici e inevitabilmente ideologici, a poter rispondere a questo domande. Di qui l’augurio che proprio ad esse sia dedicato il prossimo ciclo di conferenze del Centro Guido Dorso, cui auguro lo stesso successo intellettuale del ciclo che ha dato vita a quest’ottimo libro.
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