domenica 17 aprile 2016

il DeLillo in arrivo

Sarà l’immortalità la prossima discriminante sociale 
Incontro con lo scrittore americano che nel nuovo romanzoZero Kracconta la storia di un miliardario deciso a congelare la moglie 
Paolo Mastrolilli Busiarda 4 5 2016
La corsa verso l’immortalità sarà la vera prossima discriminante tra i ricchi e i poveri. Col rischio che alla fine ad avere la meglio su tutti sia la stessa tecnologia creata dagli esseri umani, diventando «indipendente da chi la manipola».
Don DeLillo a tratti usa l’ironia, discutendo con la scrittrice Dana Spiotta e col pubblico dell’organizzazione culturale di Manhattan 92Y il suo nuovo romanzo, Zero K (ed. Scribner), uscito ieri in America. Però il futuro che intravede, per certi versi già parte del nostro presente, è raggelante.
Zero K racconta la storia di un ricco signore, Ross, che decide di costruire in Asia centrale una struttura all’avanguardia di cryogenic chiamata «Convergence». In sostanza un luogo dove vengono congelati i corpi degli esseri umani malati, per risuscitarli quando la medicina avrà sviluppato le terapie per curarli. Una macchina dell’immortalità, dunque. Ross la crea per salvare la moglie morente, ma poi pensa di unirsi a lei nel viaggio criogenico, per la sorpresa del figlio Jeffrey.
Il tema in sé non è molto originale. Ad esempio lo aveva già trattato James Halperin nel 1998, quando aveva pubblicato The First Immortal, storia di un uomo colpito da un attacco di cuore nel 1988, che viene congelato e torna a vivere 83 anni dopo. Il mondo che ritrova è ovviamente cambiato in maniera radicale, e attraverso il perfezionamento di tecniche come la clonazione offre l’eterna giovinezza. La differenza è che adesso queste pratiche stanno diventando realtà, come dimostrano gli investimenti fatti da miliardari della Silicon Valley come Ralph Ellison, Peter Thiel o Sergey Brin per gli studi contro l’invecchiamento, tipo il «Project Calico» del cofondatore di Google che si propone apertamente di «curare la morte».
«Io - racconta DeLillo - ho sempre pensato che da grande avrei fatto lo scrittore, non so bene perché. Però quando andavo a scuola mi appassionava molto la biologia, e a un certo punto mi ero fissato con lo studio della matematica pura». La sua strada era segnata, a cominciare da quando era ragazzino nel Bronx: «Per guadagnare un po’ di soldi facevo il guardiano di un parcheggio di automobili, ma non indossavo la divisa. Così nessuno sapeva chi fossi, e potevo restare tranquillamente seduto su una panchina a leggere. Quella zona del quartiere non era abitata da giovani pericolosi, e quindi non c’era da fare molta attenzione alle auto. Al proprietario del parcheggio non importava molto che io leggessi, e così potei scoprire l’intera bibliografia di Joyce».
La tecnologia non è mai stata il pezzo forte di Don, ma lui oggi contesta l’etichetta di scettico: «No, non mi definirei così. Io personalmente non sono molto bravo con gli strumenti tecnologici, ma capisco il loro senso generale. Anzi, li ammiro. Ammiro il progresso compiuto, e le cose straordinarie che questi oggetti sono in grado di fare. La domanda che mi pongo è un’altra: cosa succederà alla fine? A cosa servirà davvero tutto ciò? Quale effetto ultimo avrà sulle nostre vite questa eccezionale corsa allo sviluppo?». 
DeLillo non si ferma a questa riflessione, probabilmente comune a molti altri esseri umani che per ragioni demografiche si trovano a cavallo della transizione digitale. Va oltre e si chiede: «La tecnologia può avere un desiderio di morte?». E quindi, all’inverso e in maniera quasi minacciosa, arriva a porsi un altro problema: «Mi domando se questa tecnologia diventerà mai, o magari già lo è, indipendente da chi la gestisce». L’intelligenza artificiale, in sostanza, che si ribella a chi l’ha creata. Lo faceva già il computer Hal in 2001 Odissea nello spazio, ma adesso siamo nel 2016, e queste macchine capaci di imporre la propria volontà agli uomini fanno paura anche a persone di scienza come Stephen Hawking, o pionieri digitali come Bill Gates.
Nel frattempo, la tecnologia viene messa al servizio dell’immortalità, per cercare di «curare la morte». Congelare gli esseri umani, nell’attesa che la medicina diventi in grado di curarli e scoprire la fonte dell’eterna giovinezza. Un problema che secondo DeLillo non è solo tecnologico e morale, ma anche economico, perché queste opportunità almeno all’inizio non saranno offerte a tutti. La ricerca dell’immortalità, dunque, rischia di diventare anche la vera discriminante sociale del prossimo futuro? Il bene massimo, offerto solo ai privilegiati che appartengono all’1% più ricco della popolazione, diventato il simbolo della disuguaglianza economica e quindi dell’ingiustizia globale? «Sì, è possibile. Sarebbe anzi uno sviluppo abbastanza naturale». Nel romanzo Zero K, infatti, Ross è miliardario, e i soldi sono tra i protagonisti più importanti della storia: «Ne ho scritto spesso, ad esempio in Cosmopolis, dove avevano quasi un tessuto filosofico, più che materiale. Il modo in cui li pensiamo e ne parliamo, prima ancora di come li usiamo».
Davanti a queste prospettive e a queste domande piuttosto raccapriccianti, DeLillo si è posto un obiettivo ancora più ambizioso: «Ho cercato di ricostruire il pensiero di una persona durante la sospensione del congelamento. In sostanza a cavallo tra la vita e la morte. Un essere ancora vivo, ma privo di ogni stimolo o di qualsiasi attività umana. L’autore di un monologo interiore, dove la prima e la terza persona si confondono nella percezione del cervello. Non so bene perché, ma è stata la parte più facile del libro. Doveva essere la sezione centrale, quella più complessa, e invece l’ho finita in quattro giorni. Evidentemente i pensieri sospesi sono più agili di quelli reali».
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Don DeLillo  “Cerco di inventare, ma alla fine scrivo di me”Il grande autore americano racconta il nuovo romanzo “Zero K” e le inquietudini del suo Paese “I presidenti deludono sin dal giorno del loro insediamento. Ma guai a non sperare ancora”ANTONIO MONDA Restampa 7 5 2016
NEW YORK
Dei quattro grandi scrittori americani che nel canone di Harold Bloom compongono il pantheon della narrativa contemporanea, Philip Roth, Thomas Pynchon, Cormac McCarthy e Don DeLillo, quest’ultimo è colui che appare maggiormente interessato a questioni sociali e politiche.
Ogni suo libro nasce da una necessità etica che diventa spesso una riflessione spirituale – DeLillo è stato allevato dai gesuiti – e che in questo suo ultimo, magnifico romanzo, uscito negli Stati Uniti con il titolo “Zero K” si traduce in una speculazione sul senso ultimo dell’esistenza
(Einaudi lo pubblica in autunno). Ancora una volta DeLillo rivela un’imprescindibile tensione morale e uno sguardo eclettico, oltre ad un sentimento dolorosamente anarchico: «Gli scrittori hanno l’obbligo morale di opporsi al sistema» ha dichiarato pochi anni fa. «È importante scrivere contro il potere, le corporazioni, lo Stato e l’intero meccanismo di piaceri debilitanti e decadenti. Ritengo che gli autori per loro natura debbano opporsi a qualunque potere cerchi di imporsi su di noi». Alla soglia degli ottant’anni, ora DeLillo racconta di un miliardario che ha investito in una misteriosa tecnologia che consente di preservare i corpi affinché possano essere riportati in vita quando la scienza lo consentirà. «Chi parla con me in questi giorni» mi racconta nella sua nuova casa dell’Upper East Side «mi dice più o meno garbatamente che questo è il romanzo di una persona anziana, che sente l’avvicinarsi della fine: è innegabile che il libro parli dell’idea di mortalità, come è innegabile la mia età. Ma si tratta di temi ricorrenti sin dall’inizio del mio percorso, e sono temi che dovrebbe avere a cuore ognuno: viviamo al cospetto della nostra fragilità e della nostra finitezza».
Il libro parla anche di “thinness”, sottigliezza, dell’esistenza.
«Ne parla uno dei personaggi, Ben Ezra, che riflette esattamente quello che penso, aggiungendo che in questa sottigliezza, fragilità e mortalità dell’esistenza riesco a scorgere anche meraviglia e incanto».
Lei rifiuta sempre le identificazioni autobiografiche.
«Cerco di inventare sapendo che forse è un’illusione. Posso però confidare che il finale di questo romanzo racconta una scena alla quale ho assistito qualche anno fa in un autobus a New York. E che in Underworld tutti i momenti relativi al quartiere italo- americano del Bronx sono legati a esperienze personali: non ho inventato nulla».
Perché ha deciso di parlare di preservazione crionica?
«È difficile negare che si tratti di un modo per riflettere di vita e morte. L’elemento scatenante è nato quando un grande giocatore di baseball, Ted Williams, ha dichiarato di voler essere preservato in un centro specializzato in Arizona. Ho scoperto l’esistenza di questa realtà inquietante e ho cominciato a riflettere sull’anelito umano all’immortalità, declinato ai tempi nostri: solo i più ricchi possono partecipare a questo progetto. All’interno di questa realtà ho parlato di coloro che desiderano essere conservati pur non essendo vicini alla morte: questo è ancora più inquietante».
Lei scrive: «Nasciamo senza averlo scelto. Dobbiamo anche morire nella stessa maniera? Non fa parte della gloria umana rifiutare di accettare un certo destino?».
«Non ho alcuna simpatia per questi esperimenti: non lo farei neanche se sapessi di avere due settimane di vita. Tuttavia questa affermazione fa parte di una riflessione che porto avanti da molti anni e in molti libri».
Sembra che lei abbia paura della morte quanto ne abbia della vita.
«La pensano così i miei personaggi, non aggiungo altro».
Pensa che la scienza sia in grado di spiegare tutto?
«No, affatto. Ci sono aspetti della nostra mente, della nostra interiorità, che rimangono inspiegati, e a mio avviso sarà sempre così. Per questo si usa spesso la parola “anima”».
Ritiene che tutto quello che è possibile sia anche lecito?
«No, è sempre fondamentale porre dei limiti morali. Quello che la scienza riesce ad ottenere diviene quello che si deve ottenere, con conseguenze spesso inquietanti ».
Lei ha dichiarato il dovere di uno scrittore di opporsi al sistema: il suo Paese sta vivendo un’ondata anti-sistema, a destra con Trump...
«Sembra che il Paese mostri crepe in passato impensabili, che mettono in crisi bisogni e speranze. Si vive la sensazione che gli Usa non abbiano la centralità di un tempo. Questi movimenti “anti-sistema”, peraltro non diversi da altri in diverse parti del mondo, diventano più sorprendenti in un Paese che ha nei suoi geni l’idea di promessa, e nascono per rispondere all’idea di ripristinare – con ricette opposte – quella centralità».
La politica delude sempre?
«Sì: in America qualcosa muore già nel giorno del discorso inaugurale del nuovo presidente, basta vedere la distanza dalle promesse elettorali. Ma guai a non sperare e ad abdicare».
Paul Auster ha in cantiere un libro di mille pagine. Tanti romanzi americani usciti negli ultimi tempi sono lunghissimi. Cosa ne pensa?
«Ogni scrittore ha storia, necessità e ambizioni personali, ma i romanzi sono intrappolati dai rispettivi temi e personaggi: devono seguirli, e non credo sia qualcosa di impostato dall’inizio, sarebbe sbagliato. Esistono capolavori brevi e libri inutilmente lunghi. Io sapevo che il mio non sarebbe stato lungo, anche se ci ho messo quattro anni: avevo bisogno di tutto quel tempo per utilizzare parole da scartare prima di trovare quelle giuste».
C’è qualcosa che la accomuna agli scrittori indicati da Harold Bloom?
«L’ambizione di riflettere su temi imprescindibili, e di realizzare qualcosa di dimensioni grandi, a volte attraverso volumi piccoli ».

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