giovedì 28 aprile 2016

Una storia delle Crociate secondo le fonti musulmane e il suo uso strumentale


In ogni guerra si intrecciano conflitti e istanze diverse. I giornalisti italiani lo scoprono quando gli conviene [SGA].


Paul M. Cobb: La conquista del paradiso. Una storia islamica delle crociateEinaudi. pagg. 368, euro 32).

Risvolto
Nel 1099, quando i primi Crociati arrivarono trionfanti alle mura di Gerusalemme, iniziò la secolare presenza cristiana in Medio Oriente, sostenuta da ondate successive di sanguinose Crociate e pellegrinaggi. Ma in che modo il mondo musulmano visse questi eventi epocali? Si trattò solo di un cruento conflitto religioso? E quali furono i protagonisti e le vere poste in gioco della «storia islamica delle Crociate»? Le risposte potrebbero sorprendervi.
La storia delle Crociate e nota, eppure è una storia spesso raccontata a metà, perche si basa quasi esclusivamente su fonti occidentali. Questo saggio intende considerare secondo una nuova, più equilibrata, prospettiva gli scontri fra musulmani e cristiani durante il Medioevo su tutte le sponde del Mediterraneo musulmano. Trattate come parte attiva della relazione dinamica tra gli stati islamici medievali e le società che vanno dalla Spagna all'Iran, le Crociate vengono dunque lette non soltanto come un episodio esotico, ma come parte integrante della storia della civilta islamica stessa. Intrecciando la prospettiva tradizionale e il punto di vista dei musulmani medievali, le Crociate emergono come qualcosa di completamente diverso dalla pretenziosa retorica delle cronache europee: diventano un gioco degli scacchi diplomatico da padroneggiare, un'opportunità commerciale da cogliere, un incontro culturale che ha plasmato le esperienze musulmane ed europee fino alla fine del Medioevo e, come spesso e accaduto, una contesa politica sfruttata da ambiziosi governanti che fecero un uso astuto del linguaggio del jihad.        
Le vere "crociate"? Soprattutto una guerra tra signori islamici
Un saggio di Cobb racconta la lotta per Gerusalemme a partire dalle fonti musulmane. Ne esce un quadro completamente nuovo
Matteo Sacchi Giornale - Gio, 28/04/2016

In un saggio pubblicato da Einaudi, lo studioso Paul M. Cobb ricostruisce gli scontri tra musulmani e cristiani sulle sponde del Mediterraneo secondo una nuova prospettiva
L’Islam e le Crociate Un altro punto di vista
L’invasione degli eserciti occidentali, la conquista di Gerusalemme, i primi accenni alla parola jihad Poi il mutare della storia con l’avvento del Saladino
Corriere della Sera  1 giu 2016 di Pietro Citati
Nel IX e nel X secolo, la conoscenza islamica dell’Europa mescolava realtà e immaginazione. Un geografo andaluso, al Bakri, che scriveva attorno al 1070, diceva che «nell’interno della città di Roma, si trovava la chiesa di San Pietro, che conteneva l’immagine di Carlomagno (Qarulah), con oro sulla barba e sui paramenti». Per lui, in quasi tutti i campi, il cristianesimo era inferiore all’Islam: i musulmani coltivavano la purezza rituale, che importava poco ai cristiani: il digiuno cristiano era nullo rispetto al Ramadan: e quasi sempre percepiamo nella sua prosa, appena parla dell’Europa, chiamata Unrufa, un’ombra di compatimento e di disprezzo.
Tra i popoli europei, i musulmani conoscevano i Galiziani, i Baschi, gli Slavi, i Magiari e i Bulgari, i Russi, i Vichinghi, descritti in pagine spaventose come «adoratori del fuoco», i Longobardi, e specialmente i Franchi, «il più antico nemico di alAndalus», la Spagna. Il nome Franchi venne adottato per tutti gli abitanti dell’Europa e delle isole britanniche. Il sole splendeva sugli abitanti d’Oriente, che ne derivavano i tratti maschili, la lunga vita, la memoria, l’arte del governo e, stranamente, la vanità. Il mondo islamico rappresentava il modello della civiltà: ricco, ordinato, illuminato, colto, protetto da Dio misericordioso.
L’Occidente veniva governato da un pianeta inferiore, la luna: era una zona di oscurità e di freddo quasi perpetuo: la forza lontana del sole si indeboliva e si infiacchiva in Europa; e, per questo, i Franchi erano rozzi, stupidi e corpulenti, prossimi agli animali. Facevano il bagno solo una volta l’anno: non lavavano mai i vestiti; e questa sporcizia feriva i musulmani, che avevano ereditato dai Romani l’amore per la pulizia. «Malgrado il freddo, la regione dei Franchi era ricca di cereali, frutta e altre culture, corsi d’acqua, piante, greggi, alberi, miele e selvaggina». Erano così coraggiosi, che «non avrebbero mai preferito la fuga alla morte». Avevano due capitali: Parigi e Roma, «covo del loro grande tiranno, noto come Papa». Da Unrufa provenivano schiavi greci, franchi, longobardi, e pellicce, profumi, coralli.
In un bel libro pubblicato da Einaudi ( La conquista del Paradiso. Una storia islamica delle Crociate, traduzione di Chiara Veltri, Einaudi), Paul M. Cobb racconta le Crociate, come le conobbero i musulmani dall’XI al XIV secolo. Il cuore del libro è la realtà e il simbolo di Gerusalemme. Per i cristiani, tutto, a Gerusalemme, era sacro. Ogni angolo grondava di reliquie. In primo luogo, la Vera Croce: poi la pietra del Santo Sepolcro, le ciocche di capelli della Vergine, il sangue di Cristo, i peli della sua barba, la corona di spine, la lancia che lo ferì al costato, i ciottoli raccolti nell’orto del Getsemani, le foglie d’ulivo del Monte, l’olio delle lampade del Santo Sepolcro. Queste reliquie sacralizzavano i luoghi, rendendo Gerusalemme il doppio del cielo. Per i musulmani, era la più santa delle città dopo la Mecca. Nel giorno del giudizio, la Mecca, la Ka’ba e la Pietra Nera, col suo piccolo punto brillante, avrebbero abbandonato l’Arabia, discendendo lentamente vicino a Gerusalemme, al-Quds. Anche il Paradiso si sarebbe spostato, così che per ebrei, cristiani e musulmani la terra avrebbe avuto un unico centro.
Le Crociate cristiane obbedirono a un vastissimo disegno. Nel 1061 i Normanni invasero la Sicilia: nel 1072 conquistarono Palermo e nel 1098 tutta la Sicilia, sebbene le forze musulmane fossero più numerose e meglio armate. Era il primo Stato «franco» ricavato nel corpo vivo dell’Islam. In alAndalus, dopo il 1063 i cristiani conquistarono Barbastro: poi Toledo, Saragozza, Tudela, Lisbona, Lérida. «In quella regione — lamentò un cronista arabo — nessuno dei possedimenti musulmani scampò alla cattura da parte dei Franchi, a causa delle divergenze tra loro». L’ultimo re di alAndalus fuggì in Marocco, e si stabilì a Fez, «lamentandosi per il destino infausto e piangendo il regno perduto».
Nel 1096 i Franchi giunsero in Anatolia, chiamati da Alessio Comneno, l’imperatore bizantino. Erano 75 mila, uomini e donne, ricchi e poveri, infiammati dalla predicazione del Papa. «La popolazione — scrisse un cronista di Damasco — fu colta da ansia, turbamento, terrore». Nel marzo 1098, Baldovino di Boulogne conquistò Edessa, creando il primo Stato cristiano nel Vicino Oriente. Il panico si diffuse: i confini un tempo inattaccabili della «casa dell’Islam» crollarono improvvisamente. Poi i crociati assalirono una città importantissima, Antiochia. Un musulmano, Firuz, propose a Boemondo di Taranto di consegnargli la città: organizzò un incontro con i capi franchi; calò nottetempo corde dalle mura, permettendo ai crociati di entrare in Antiochia. «Il numero di uomini, donne e bambini, uccisi, fatti prigionieri e schiavi, è incalcolabile», scrisse un cronista arabo.
Il 7 giugno i Franchi giunsero vicino a Gerusalemme, da poco conquistata dai Fatimidi d’Egitto. La città aveva vivaci bazar, molti santuari, un buon ospedale, mura robuste, una sorgente d’acqua. Il 15 luglio i crociati giunsero sotto le mura. Era — dissero — lo stesso momento nel quale «Gesù Cristo Nostro Signore accettò di subire per noi il tormento della Croce». Per qualche ora essi attesero, piangendo di commozione e di gioia: da lontano il Tempio mandava luce; finché lo spettro di un soldato sconosciuto, raccontò una cronaca provenzale, apparve sul Monte degli Ulivi, incoraggiando i crociati.
Un gruppo di Franchi, guidati da Tancredi d’Altavilla, prese il Monte del tempio: la Moschea alAqsa (che i Franchi identificavano col Tempio di Salomone), e il magnifico santuario della Cupola della Roccia, centro spirituale della Gerusalemme islamica. I crociati portarono via i candelabri d’oro e d’argento, come le legioni romane avevano profanato il tempio. «Ciò che è giusto — lamentava un poeta arabo — ora è vuoto e senza valore, e ciò che è proibito è reso lecito. La croce è stata collocata nel mihrab. Adesso sarebbe giusto ricoprirla di sangue di maiale». Sebbene facesse inorridire gli Arabi, la caduta di Gerusalemme fu soprattutto una sventura locale, che richiedeva reazioni locali.
I musulmani cominciarono a parlare di jihad: mentre le Crociate cercavano di recuperare una terra sacra, il jihad mirava a salvare le anime; era «uno sforzo sulla strada di Dio». Malgrado i discorsi e le invocazioni, un predicatore, paragonando lo spirito attuale del jihad con quello precedente, lo giudicava povero. Ciò aveva spinto Dio a dividere i musulmani e a indurre i cristiani «a strappare loro la terra»: le conquiste franche erano una punizione di Dio per i suoi fedeli. Gli arabi obbedirono al jihad in maniera molto saltuaria: la guerra santa nuoceva al commercio e agli affari. I comandanti musulmani collaborarono con i Franchi, spesso aiutandoli a combattere contro altri signori arabi. Nel settembre 1108, le truppe del signore franco di Antiochia marciarono accanto a quelle musulmane del signore di Aleppo, schierate in battaglia contro il signore egualmente musulmano di Mossul. Le truppe arabe erano ombreggiate dagli stendardi cristiani: ciò suscitò l’indignazione di molti fedeli.
Malgrado le battaglie intermittenti, i Franchi si abituarono presto a vivere in Siria e in Palestina. Amavano gli strani uccelli d’Oriente, e i corpi leggeri e dorati degli arabi e delle arabe, che li attrassero, forse, più delle robuste donne del Nord. Sposarono siriane, armene, palestinesi. Secondo un viaggiatore islamico, Ibn Jubayr, trattavano i contadini molto meglio di quanto non li avessero trattati i padroni musulmani. Costruivano case ricche: con tappeti e tappezzerie damascate: tavole e scrigni elegantemente intagliati e intarsiati, lini bianchi immacolati, servizi d’oro e d’argento, porcellane cinesi. Portavano abiti orientali: il burnus di seta, il kefieh sull’elmo; le donne indossavano il velo e la giacca corta, ricamata da fili d’oro e con pietre preziose. Impararono a fare il bagno, consolando le narici una volta disgustate degli Arabi. Ornavano di mosaici le loro case. La Palestina franca assomigliò stranamente alla Grecia e alla Roma ellenistica.
I Franchi non dimenticarono di vivere nei luoghi della Bibbia: nei colori e nei profumi, nelle montagne e nel verde dei paesaggi sacri. Tutto era Bibbia: Bibbia ebraica, cristiana, musulmana, fuse in un paesaggio solo. C’era il luogo dove Pietro aveva tradito tre volte Gesù: la pietra dove era caduta una goccia del latte di Maria che allattava Gesù; e il calice verde dell’ultima cena.
Nel 1174 due bambini salirono sul trono. Tra gli Arabi, l’undicenne al-Salih Ismail: Baldovino IV diventò re di Gerusalemme all’età di tredici anni, sotto la reggenza di Raimondo di Tolosa. Baldovino era bellissimo e intelligente: aveva una solida memoria, leggeva con passione, amava le conversazioni eleganti, cavalcava con grazia. Ma, un giorno, il suo istitutore, lo storico Guglielmo di Tiro, si accorse che il giovane re era lebbroso. Giorno dopo giorno la malattia peggiorò, colpendo soprattutto il volto, le braccia e le gambe. Baldovino perse la vista, braccia e gambe caddero in putrefazione, le mani non afferravano nemmeno un foglio di carta, i piedi non lo reggevano: ma egli rifiutò di abbandonare la dignità regale, continuando a svolgere i propri compiti, e dissimulando la sua debolezza.
Quando il Saladino invase il fragile regno franco, Baldovino chiamò alle armi tutte le proprie truppe e i Templari; e ingaggiò battaglia. Mentre i combattenti saraceni erano 26 mila, i latini erano soltanto 365. Baldovino era portato a braccia in prima fila: davanti a lui il vescovo di Betlemme innalzava il «Legno miracoloso della vivifica Croce», incastonato in una teca d’oro. Per una volta, il Saladino, così cauto e prudente, peccò di presunzione: lasciò che le sue truppe saccheggiassero le campagne: mentre i cavalieri franchi massacrarono i suoi uomini; ed egli fu salvato dalle guardie del corpo. Baldovino pensò di aver vinto grazie alla Vera Croce: quel legno che aveva attraversato indenne più di dieci secoli.
La storia del Medio Oriente mutò corso con l’avvento del Saladino. Era stato un semplice soldato curdo; e diventò il capo più autorevole della Siria e della Palestina. Secondo la realtà e sopratutto la tradizione, era il re giusto: generoso con i nemici, protettore della fede; la protesse troppo, se fece uccidere, come è probabile, Shihaboddin Yahya Sohrawardi, uno dei massimi filosofi e narratori di ogni tempo. Possedeva la qualità del dono: la generosità senza fine e senza misura, che imitava la sovrana magnificenza di Dio.
Il 3 ottobre 1187 riconquistò Gerusalemme. Secondo la tradizione islamica, era lo stesso giorno in cui Maometto era salito al cielo sulla sua cavalcatura alata, muovendo dalla città. Sulla Cupola della Roccia islamica, i cristiani avevano innalzato una grande croce dorata: i soldati musulmani si arrampicarono in cima alla cupola; legarono la croce con delle funi, e la gettarono al suolo. In quel momento tutti i soldati musulmani gridarono «Dio è grande», mentre i cristiani piansero di dolore e di costernazione. Saladino purificò Gerusalemme. Lavorava tutti i giorni insieme ai suoi soldati: lavava con acqua di rose i cortili e i pavimenti delle moschee, che i cristiani avevano trasformato in chiese. Fu generoso. Lasciò che il patriarca di Gerusalemme fuggisse insieme al tesoro del Santo Sepolcro. Il primo venerdì fu l’apice della celebrazione. Muby ad-Din elogiò il Saladino: «Dio sia lodato, perché con il tuo aiuto l’Islam è stato esaltato, e con il tuo potere il politeismo è stato umiliato». Egli invocò il soccorso di Dio su di lui: «Sulla tua spada tagliente, sulla tua torcia luminosa».
Nel 1265 gli arabi conquistarono Cesarea, Haifa, la fortezza templare di Safad, Giaffa. Tre anni dopo, cadde Antiochia. Il comandante islamico scrisse a Boemondo di Tripoli. «Se tu avessi visto i tuoi cavalieri prostrati sotto le zampe dei cavalli, le tue case prese d’assalto dai saccheggiatori e dai predoni, le tue ricchezze pesate a quintali, le tue dame vendute a quattro per volta e comprate al prezzo di un dinàr! Se tu avessi visto le tue chiese con le croci spezzate, i fogli dei falsi Vangeli sparpagliati! Se tu avessi visto il tuo nemico Musulmano calpestare il luogo della messa, e sgozzati sull’altare monaci e preti e diaconi, allora avresti detto: “Oh, foss’io polvere!”».
Il 18 maggio 1289 il sultano al-Ashraf ordinò a trecento tamburini di dare il segnale per l’offensiva finale contro Acri, l’ultima città franca. Mentre il suono dei tamburi accompagnava la caduta della città nella luce del mattino, una pioggia di frecce liberò le mura dai difensori franchi. Tre giorni dopo i Templari si arresero. Il giorno stesso piccioni viaggiatori portarono la notizia della caduta di Acri a Damasco. La città esplose di tripudio. AlAshraf visitò Damasco coperto di gloria. La città era decorata e illuminata: il sultano camminò su tappeti di raso fino al palazzo. Fece sfilare davanti a sé 280 prigionieri franchi in catene: uno di essi trasportava una bandiera cristiana capovolta; un altro un vessillo ornato di scalpi. Studiosi, mistici, contadini, mercanti, cristiani assistettero allo spettacolo. Un cronista arabo scrisse: «Grazie al Signore e Sultano al-Ashraf siamo liberi dalla Trinità, e l’Unicità si rallegra di questa vittoria!». La facciata gotica di una chiesa di Acri venne risparmiata: il suo ingresso finemente istoriato e con sottili colonne fu trasportato al Cairo, dove ancor oggi costituisce la porta della madrasa del sultano al-Nasir Muhammad.
Dopo il 1291, Cipro diventò l’avamposto franco più avanzato. Vi si erano installati gli ultimi re di Gerusalemme, i Lusignano, che di lì controllavano le città costiere del Levante. Più di una volta accarezzarono il progetto di riconquistare la Terra Santa. Nel 1370 il re ratificò un trattato di pace con l’Egitto. I genovesi invasero l’isola nel 1374, costringendo i Lusignano a pagare un tributo. Nel 1489, l’ultimo re abdicò a favore di un ammiraglio veneziano.

Giochi di alleanze tra Islam e Cristiani Storia. Paul M. Cobb, nel suo "La conquista del Paradiso" traccia una panoramica delle Crociate e del mondo arabo tra l’XI e il XV secolo, rivelando come già allora il jihad fosse più una carta a disposizione della politica che un impegno morale 
Vermondo Brugnatelli  Manifesto ALias 19.6.2016, 6:00 
All’epoca del feroce Saladino, quando Riccardo Cuor di Leone ottenne il permesso per i cristiani di circolare liberamente a Gerusalemme, i due eserciti – stabilita la tregua – «fraternizzarono, forse durante un banchetto». Lo si apprende, insieme a molti altri fatti d’arme, scenari geopolitici e aneddoti interessanti, dalla vivida descrizione di Paul M. Cobb nel suo volume La conquista del Paradiso Una storia islamica delle Crociate (traduzione di Chiara Veltri, Einaudi, pp. 367, euro 32,00), che disegna un vasto panorama di storia del mondo arabo nel medioevo, prendendo in considerazione un buon mezzo millennio di storia, dall’XI° al XV° secolo. 
Per Cobb, che non si limita a tracciare una semplice «storia delle crociate», è importante partire dal contesto generale del confronto-scontro in atto per molti secoli tra il mondo islamico e quello cristiano, fin dalla prima espansione araba nel VII° secolo. Dopo la fase iniziale che vide un ampliamento quasi travolgente dei territori della «Casa dell’Islam», le conquiste musulmane presero a rallentare, a segnare il passo, e fu proprio intorno al mille che cominciò, su più fronti, una lenta ma sensibile «riconquista» delle posizioni perdute da parte del mondo cristiano, sia nella penisola iberica (al-Andalus), sia in Sicila, sia, infine, nelle regioni prossime all’Anatolia che un tempo era stata bizantina. Le «crociate» vere e proprie, dal punto di vista del mondo islamico, non furono che una fase di questa offensiva generale su più fronti da parte dei sovrani cristiani. 
È una storia molto dettagliata e basata su un saldo impianto di fonti di prima mano quella che l’autore tratteggia nei nove capitoli del suo lavoro, permettendo di apprendere un gran numero di informazioni sulle dinamiche interne al fronte musulmano che, lungi dal costituire un’entità compatta vedeva invece interagire numerosi attori, divisi per stirpe, lingua, fazione religiosa, alleanze politico-militari. Le conquiste e le perdite di territori, appaiono così inquadrate in una prospettiva ben più approfondita di quanto apparirebbe dalla sola elencazione delle battaglie e dei nomi dei guerrieri che vi parteciparono. Dal punto di vista etnico-linguistico, accanto agli arabi – ormai in netto declino, col tramonto del califfato iniziato ben prima del sacco di Baghdad del 1258 – compaiono sullo scacchiere popolazioni e dinastie turche di varia origine (selgiuchidi, turcomanni, kipcapi, ottomani), ma anche curdi, iranici, corasmi, georgiani, armeni, berberi, mongoli… Mentre dal punto di vista religioso si sovrapponeva il frazionamento tra sunnismo, sciismo, le diverse sette sciite, nonché i cristiani di varia obbedienza. 
Lo sviluppo degli eventi era dettato principalmente da un gioco di alleanze che ben poco avevano a che vedere con una guerra di religione. Seguendo il filo della storia colpisce come fosse tutt’altro che raro il caso di alleanze tra cristiani e musulmani di una fazione contro i musulmani di un’altra. Così pure erano frequenti i cambi di fronte repentini, come quello del selgiuchide Ridwan di Aleppo che per qualche tempo fece invocare nelle moschee i nomi dei califfi fatimidi (sciiti), salvo poi tornare, dopo poche settimane, a invocare il nome del califfo abbaside (sunnita) e del suo sultano Barkiyaruq. 
Chi oggi non si capacita di come la diplomazia e le pressioni internazionali non riescano a venire a capo del ginepraio siriano potrebbe trarre da questo libro alcune lezioni interessanti su come, nel complesso, da secoli a questa parte, questi territori siano al centro di contese tra un incredibile numero di attori, piccoli e medi potentati locali, non di rado mossi da forze esterne alla regione. Anche allora, infatti, sullo sfondo agivano, come ispiratrici o a volte con interventi diretti, potenze ai margini della frontiera: non solo i cristiani d’Europa, Bizantini o Franchi, ma anche, per esempio, la terribile setta sciita dei nizariti (i famosi «assassini»), che agivano in Siria e in Mesopotamia, ricevendo direttive dalla fortezza iranica di Alamut, o l’impero mongolo, entrato di prepotenza nella regione e fermato solo dai mamelucchi di Baybars. 
Paul M. Cobb non si limita ai dati evenemenziali delle guerre e delle paci, ma indaga e espone con chiarezza anche i molti aspetti economici e commerciali che sottostavano alle politiche dei vari governanti, obbedienti soprattutto a queste logiche, facendo uso della giustificazione religiosa solo saltuariamente e perlopiù in chiave opportunistica, quando occorreva rinsaldare le proprie forze con alleanze altrimenti labili o problematiche; ma avendo sempre presente l’opportunità di mantenere per quanto possibile rapporti di buon vicinato con tutti, indipendentemente dalla fede religiosa dei governanti. 
Già allora il jihad era più una carta a disposizione della politica che un reale impegno morale. Dei tre grandi condottieri passati alla storia per avere fermato e respinto i regni crociati, Nur ad-Din, Saladino e Baybars, il secondo è forse il più noto per aver legato la sua fama alla guerra ai cristiani, ma dalla ricostruzione di Cobb si ricava come la maggior parte del suo sforzo bellico sia stata profusa nel combattere rivali del campo islamico, e come il suo jihad contro i cristiani sia stato più che altro frutto di un tentativo di rifarsi un’immagine di buon governante musulmano dopo le spietate campagne fratricide con cui si era assicurato il potere. 
Lo stile del racconto di Cobb invoglia il lettore a seguire con interesse le vicende che descrive, nonostante non sia sempre facile districarsi nella loro complessità. Appartiene a questo stile anche il ricorso a alcune allusioni che, pensate per un pubblico di cultura anglofona, possono risultare poco perspicue per il lettore italiano. Per esempio, parlando degli eventi del 1066 nel corso della conquista normanna della Sicilia, l’autore lascia cadere, di passaggio «mentre i familiari di Ruggero e Roberto in Normandia erano occupati ad invadere un altro regno insulare…»: per quanto scolpita nelle menti di qualunque scolaro del mondo anglosassone, la battaglia di Hastings che sanzionò la conquista normanna dell’Inghilterra a opera di Guglielmo il Conquistatore è una nozione decisamente meno presente a quelli del nostro paese. 
Alla traduzione, nel complesso molto buona, nuocciono purtroppo un certo numero di scivoloni, malapropismi e rese poco felici del senso originale, che sono statisticamente quasi inevitabili in un lavoro di tale mole, ma quando compaiono, qua e là, possono rendere problematica la comprensione. Il lettore si domanderà, ad esempio per quale motivo gli Almoravidi, in arabo al-Murâbitûn, avrebbero dovuto chiamarsi «trattatevi con pazienza tra di voi», mentre il senso del termine, reso in inglese con «those who fight together», è «coloro che combattono strettamente uniti». Un merito notevole del libro, rivendicato con fierezza dall’autore, è l’ampio ricorso alle fonti arabe, spesso ignorate dagli storici occidentali o conosciute solo tramite traduzioni invecchiate e non sempre affidabili.
Da questo punto di vista, giova ricordare che il pubblico italiano gode di un enorme vantaggio avendo a disposizione, fin dagli anni cinquanta, eccellenti traduzioni di numerosi fonti islamiche sulle crociate da parte di un arabista della statura di Francesco Gabrieli. Il suo volume Storici arabi delle Crociate è un classico, tuttora reperibile grazie a continue ristampe, e la sua lettura arricchirebbe, con la vivacità delle descrizioni di prima mano degli autori arabi, molti dettagli del panorama tracciato con precisione accademica dall’autore statunitense. 
«I lettori moderni potrebbero trarre altre lezioni da una storia islamica delle crociate»: questa affermazione racchiusa nell’ «epilogo» del libro non è una frase di circostanza. La sua lettura infatti, oltre a far conoscere le vicende passate di queste terre martoriate, permette di scoprire come le stesse vicende venivano vissute dagli appartenenti ai due campi rivali, e consente di meditare sulle sconcertanti analogie che molti fatti di allora presentano con la cronaca odierna, individuando alcune costanti tuttora presenti nella realtà geopolitica e nella mentalità generale. Molti schemi e preconcetti diffusi presso chi ignora questa storia si ridimensionerebbero o sparirebbero. Historia magistra vitae dicevano gli antichi. Forse non avevano tutti i torti. 

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