domenica 15 maggio 2016

Contribuire a smantellare i partiti e la democrazia moderna e poi piangere per il disastro antropologico: il coccodrillesco libro di Revelli

Marco Revelli: Non ti riconosco. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia, Einaudi

Risvolto
Da Torino a Lampedusa un viaggio (poco sentimentale) in Italia, fuori dai luoghi comuni e dai falsi ottimismi.                   
Un viaggio per tappe della mente e del cuore nell'Italia del boom economico, del sogno, della decadenza. Di pieni fattisi d'improvviso vuoti. Di momenti di caduta e stordimento, ma anche di grande condivisione e cambiamento.
«Nel corso di questo lungo viaggio erratico tra le pieghe di un Paese sospeso, ho incontrato un'infinità di tracce di metamorfosi istantanea. Di futuri fattisi istantaneamente anteriori. Di promesse appena immaginate e già mancate. Di progetti iniziati e non terminati. E i segni di mappe che non valgono piú. Ma non riesco a considerarli simboli di un paradiso perduto».
Un viaggio in Italia, da Torino a Lampedusa, sulle tracce di città e territori conosciuti, amati, e poi, a volte, perduti. Di luoghi dell'esperienza e della memoria che mutano nel tempo e nelle stagioni fino a «non riconoscerli piú», ma di cui non puoi, comunque, fare a meno. Di paesaggi familiari che giorno dopo giorno stupiscono, disorientano, promettono nuove frontiere. Cosí Torino, prima tappa del viaggio, è un luogo in cui può succedere di perdersi. Ci si può perdere non tanto nel centro, fissato dai recenti restauri in cartolina da consumare con i piedi e con lo sguardo piú che da abitare, ma già nella prima periferia dove i negozi chiudono e le vetrine cambiano volto: la gastronomia diventa un hard discount e la piccola gioielleria di quartiere inalbera la pacchiana bandiera del «compro oro». E ci si può perdere nella seconda periferia dove la scomparsa della grande fabbrica e la trasformazione della vecchia metropoli di produzione ha «sciolto» il paesaggio mutandone anima e corpo. Ma oggi Torino è anche Arduino: una «piattaforma hardware low cost programmabile» che sa innaffiare i fiori alle ore stabilite, guidare un drone in spazi chiusi, gestire un appartamento con il comando vocale. Una risorsa eccezionale open source messa a disposizione di tutti. Un simbolo del futuro. Il viaggio continua, attraversando la nostra penisola, percorrendo autostrade deserte o mescolandosi alla folla, incrociando le storie dei suoi abitanti e ascoltandone ricordi e sogni, accompagnati dal suono del vento negli ulivi o fra gli scogli di una piccola isola lontana. Cosí si scopre il paese abbandonato di Consonno, nel cuore della Brianza, certo il piú bizzarro ghost village italiano, una sorta di «Disneyland lombarda» o il quadrante orientale, il Nordest del grande balzo in avanti e del duro rinculo, o il distretto di Prato, alle porte di Lucca e Firenze, testimone di antichi saperi artigiani sfidati dall'Oriente. E le antiche cattedrali nel deserto del Sud: l'Ilva di Taranto, le industrie chimiche di Saline Joniche, il porto di Gioia Tauro, un bacino lunghissimo a forma di fagiolo protetto da enormi colonne di cemento, e una brughiera spoglia che ha sostituito piú di ottocentomila alberi: aranci, limoni, ulivi secolari. Fino a Lampedusa luogo di arrivo e di sbarco continuo di altre realtà. Porta di entrata e di uscita. Isola che nel suo perimetro breve contiene tutte le fini e tutte le speranze.        
Cronaca di un’implosione L’Italia sfigurata dalla crisi
Corriere della Sera 12 May 2016 di Corrado Stajano
Si sa, la conoscenza che la classe dirigente politica nostrana ha della società è relativa. Ministri, senatori, deputati affidano ai loro portaborse e ai loro galoppini l’incarico di riferire le notizie che vogliono. L’ottimismo di maniera è la regola, oggi più che mai.
Questo libro di Marco Revelli, Non ti riconosco. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia (Einaudi), può far tremare le vene e i polsi con il suo spirito di verità. Revelli conosce bene la società italiana, ha le carte in regola per parlarne, professore di Scienza della politica, autore di libri come Oltre il Novecento, La politica perduta, Poveri noi, Finale di partito, Dentro e contro (quando il populismo è di governo). Il nuovo libro, 5-6 anni di lavoro, è un viaggio in Italia, ma il Grand Tour, gli stranieri più o meno illustri alla ricerca, dal Settecento al Novecento, della bellezza e del mitologico splendore, soprattutto del Sud, non è il modello. Anche se il titolo si rifà a un Lied di Goethe, gran viaggiatore nell’Italia amata.
Marco Revelli non riconosce più il Bel Paese. Confessa di essere spaesato, tradito, disorientato, sradicato: «L’io», scrive, «non si sente più “a casa” in nessun luogo del mondo perché ”il mondo” non ha più nulla ormai di famigliare, di “domestico”. In una parola: di riconoscibile».
Ma non si rassegna Revelli, va a vedere. «Un viaggio si fa o per fuggire da qualcosa, o per cercare qualcosa», come ha detto Diego Osorno, grande reporter-narratore messicano. E anche per ritornare: Claudio Magris.
Non ti riconosco è un libro duro, crudo, sofferente. In viaggio, da Torino a Lampedusa. Pessimista? Realista, piuttosto. Un libro di grande bellezza, il suo, se si potesse usare il codice estetico. I luoghi, le persone, le loro storie, gli incontri, il passato-presente sono i protagonisti. Revelli osserva, interroga, è un ispettore generale, uno scrittore senza modelli, un narratore, un professore che studia, al di là degli scheletri dei documenti. Parla con il prossimo, parla anche con se stesso, spiega, vuol capire, per far capire e per capirsi. Il libro è una mescolanza di racconto, saggio, inchiesta, verifica dei poteri, analisi ossessiva, un continuo fare i conti — perché è potuto accadere? — è anche la ricerca di un’uscita di sicurezza, il tempo per farlo è breve in una società che sembra rassegnata, passiva, chiusa in se stessa. Una società che ha smarrito i fervori di certe generazioni passate e non può affidarsi a una classe dirigente politica incolta e arrogante che fa di tutto per cancellare il valore sommo della democrazia. Non c’è bisogno di scomodare il V secolo a. C. di Pericle, basta non tradire i momenti di dignità della neonata Repubblica, la Resistenza, la Costituzione.
Il viaggio comincia nella città che Revelli ben conosce, Torino. Lo scrittore non ha nostalgie, affetti piuttosto. Che cos’era Mirafiori! Un posto ciclopico, infernale, mostruoso in tutti i sensi, con un perimetro di 11 chilometri, 32 porte, 60 mila operai, un sordo rumore ininterrotto che, brontolante, veniva su dalle viscere. Oggi? «Quel cratere si è spento. Materia fredda. E silenziosa. Non si sentono più vibrazioni, ronzii di macchine al lavoro, men che meno grida di rivolta. Né il tonfo cadenzato delle Grandi Presse». Gli operai sopravvissuti sono 5.321, dalle linee di produzione escono un centinaio di auto al giorno, ne uscivano 5.000. La Fiat si chiama Fca, la sede legale del gruppo, dopo la fusione con la Chrysler, è ad Amsterdam, la sede fiscale a Londra. Tutto frantumato, sminuzzato, rimpicciolito, ridotto a rottame. La grande distribuzione ha vinto sulla grande produzione. A Torino, dove non c’è soltanto la Fca, la vita continua, nonostante tutto, e stanno nascendo la- boratori: Arduino, per esempio, che non è un uomo, ma «una scheda» che crea gli oggetti più disparati; i Traders, fornitori di servizi, e non pochi inventori di nuovi lavori, il contrario della produzione fordista. Le iniziative esistono ma, se manca una politica sana e intelligente, com’è possibile collegare tra loro tutte quelle energie positive?
Da Torino alla Brianza, la Silicon Valley italiana degli anni Ottanta, dove prosperavano l’Alcatel, la Micron, la Celestica, e con loro 800 imprese nell’ambito delle telecomunicazioni. Il dimagrimento cominciò nel 2008, poi la caduta a cascata, i tagli, le mobilità, le bancarotte, l’esplosione, l’implosione. Marco Revelli prova anche qui un senso di irrealtà. Racconta di quando, nella placida Brianza, gli ingegneri, l’aristocrazia di quel settore di lavoro, accolsero nel 2014, a Vimercate, il presidente del Consiglio Renzi «in visita pastorale all’impresa simbolo della velocità e della rottamazione», l’Alcatel appunto, con cartelli beffardi: «Se Renzi è di sinistra, Berlusconi è femminista».
E poi il tragico Nordest. Gian Antonio Stella, nel suo Schei (1996), raccontò l’incredibile boom del Veneto diventato «la locomotiva d’Italia», il «Giappone d’Europa»: le scarpe nel Veronese, la concia ad Arzignano, gli occhiali a Belluno, i mobili a Bassano, lo Sportsystem a Montebelluna, l’oro nel Vicentino.
Revelli è andato a vedere. A Rossano Veneto, piccola capitale del boom, 6.532 abitanti, 900 imprese: con la crisi globale è arrivata la depressione, la «malaombra». Sono caduti i capannoni, le villette a schiera, i fienili diventati officine, i posti di lavoro. In quegli anni, nel Nordest, si calcola che ci siano stati 500 suicidi, tra imprenditori e dipendenti. Le cause? «In questo Nordest euforico trasformato in un Far West triste si assiste al paradosso per cui si fallisce per troppi crediti». (I mancati incassi del committente insolvente, della pubblica amministrazione inadempiente hanno creato debiti incolpevoli con tragiche conseguenze).
Il viaggio alla Taranto dell’Ilva ha il colore del piombo fuso. E pensare che la nuvola portatrice di morte aleggiante sullo stabilimento di colore rossastro, non pareva nemica. Il IV Centro siderurgico, nato nel 1964, doveva rappresentare il riscatto delle plebi meridionali, con i suoi due milioni di tonnellate d’acciaio all’anno. È diventato soltanto una fabbrica di morte, portatrice di una catena di tumori, anche nei quartieri vicini, il Tamburi, il Paolo VI. Fu un professore di storia, Alessandro Marescotti che, sospettoso, fece analizzare da un chimico un pezzo di formaggio e rese pubblica la notizia sulla mostruosa concentrazione di diossina che pesava sull’Ilva e su Taranto. Revelli registra la tragedia, studia i documenti, parla con gli operai, «gli occhi bassi dei vinti».
Poi la Calabria. Al porto di Gioia Tauro la ’ndrangheta è padrona, d’accordo con i cartelli messicani della droga, armi e cocaina. Lo scrittore, in questo paesaggio di struggente bellezza, incontra chi non si è arreso, un giornalista sotto scorta, Michele Albanese, e un imprenditore che ha detto no al pizzo, Nino De Masi, mitragliato, minacciato, anche lui sotto scorta. Che cosa sanno i governanti della questione meridionale e della questione criminale che ne è parte integrante?
Il libro finisce a Lampedusa dove la sindaca Giusi Nicolini fa fronte con coraggio. Lei e papa Francesco. Marco Revelli visita con angoscia un cimitero dove le croci sono state costruite con il legno delle barche affondate. Su uno sperone di roccia di Punta Maluk, un artista, Mimmo Paladino, ha costruito, con materiali difformi, la Porta d’Europa, un simbolo imponente, sacrale. Chissà che i Paesi del Continente si rendano conto una buona volta di questa nuova strage degli innocenti. La Shoah dei migranti.

Nel ground zero della Politica
«Non ti riconosco», un viaggio nella crisi del «made in Italy» a firma di Marco Revelli per Einaudi. Un libro sulla fine della grande fabbrica e dei distretti industriali, orfani di qualsiasi progetto di liberazione sociale
Benedetto Vecchi Manifesto 24.5.2016, 20:35
Un lungo viaggio per l’Italia, facendo tappa nelle città, le regioni, i luoghi che ne hanno scandito la storia nel lungo Novecento. È quanto fa Marco Revelli nel volume Non ti riconosco (Einaudi, pp. 250, euro 20). Il punto di partenza non poteva che essere Torino, la città operaia per eccellenza che Revelli conosce benissimo. Lì è cresciuto come intellettuale, lì è cresciuto politicamente. A questa company town ha dedicato altri libri e innumerevoli di articoli e saggi. Torino era il luogo di un modello di società da cambiare per costruire una «città futura». Non è andata così, come è noto.
Torino è diventata il ground zero del Novecento italiano. Di quella classe operaia che ha incendiato le menti di molti militanti ci sono solo flebili tracce, il resto sono aree dismesse, terreni inquinati, rottami, ruggine e una immensa sequenza di templi del consumo che ne hanno ridisegnato la geografia, anche sociale. Il centro storico è stato però ripulito, rimesso a nuovo; i sindaci che si sono succeduti negli ultimi dieci, venti anni hanno solo accompagnato l’approfondirsi della sua morte come città simbolo dell’Italia industriale. Alcuni con pragmatismo, altri con complice subalternità ai piani della Fiat di abbandonare la città per proiettarsi sul palcoscenico impalpabile della finanza. Come in tanti altri luoghi, gli operai cacciati dalla fabbrica non hanno avuto altra alternativa che sopravvivere alla lenta, ma progressiva desertificazione sociale; l’élite invece si è «deterritorializzata», recidendo i suoi legami con il territorio, altra parola magica che tutto dice per non affermare nulla.
Alla fine di un mondo
Si intuisce così il perché il titolo del libro è Non ti riconosco. Nel percorrerla, Revelli annota il disorientamento, lo smarrimento di chi quella città l’ha vissuta seguendo cortei, riunioni, incontri, studiando come solo un appassionato intellettuale militante sa fare. La classe operaia però non c’è più come soggetto politico. Esistono gli operai, che entrano ed escono dalla fabbrica con gli occhi e la testa bassa. Sono ridotti a merce, forza-lavoro, non più lavoro vivo, non più classe. Questo capitolo è la storia di una apocalisse sociale, culturale. E anche se l’autore non lo cita mai, ci sono forti echi di un grande interprete della «fine di un mondo», cioè Ernesto De Martino. Soltanto che il filosofo e antropologo italiano parlava della fine del mondo contadino, individuando nel progresso e nell’industria le avvisaglie di una nuova era.
Nella pagine torinesi di Revelli, di indizi di un nuovo da lì a venire ce ne sono ben poche pochi. Tante invece le avvisaglie di una rabbia sorda, di un ribollire di sentimenti tristi, di un razzismo strisciante, sempre pronti a sfociare in un pogrom, specialmente se l’altro da sé ha lo stigma dello zingaro.
Questa rabbia oscena, violenta consegna anche una seconda chiave di lettura del libro. Il «non ti riconosco» non si riferisce infatti solo alla morfologia sociale e urbanistica dei luoghi, ma anche al rifiuto diffuso di non riconoscere l’«eterogeneo umano», meglio l’altro da sé.
L’apocalisse sociale e culturale ha lasciato sul terreno molti frammenti tossici e per il momento ci si può solo accontentare di incontrare delle oasi, come quella che chiude il capitolo torinese, quando l’autore descrive un luogo dove uomini e donne si incontrano per condividere conoscenze e saperi. Si chiama coworking ed è frequentato da makers, quelle donne e uomini che provano ad immaginare prodotti, attività lavorative fondate sulla condivisione. Revelli evoca la sharing economy, ultima frontiera del «lavorare comunicando» sotto il regime del capitalismo che qualcuno in vena di classificazioni definisce «capitalismo 4.0», quasi fosse la nuova realise di un programma informatico invece che una variazione di un rapporto sociale di produzione, sempre diverso, ma sempre eguale.
Las Vegas in Brianza
La seconda tappa è la Brianza. È meticoloso Revelli nel descrivere i luoghi, le strade che conducono a una città fantasma che nelle intenzioni del suo ideatore doveva essere la Las Vegas italiana. Città del divertimento, un parco a tema per i sogni di godimento di una borghesia molto provinciale che aveva fatto diventare quella parte d’Italia un vitale distretto industriale. Decine, centinaia, migliaia di piccole imprese con una manciata di operai di qualità che macinava e faceva aumentare fatturati e ricchezza. Modello sociale e produttivo in antitesi con la grande fabbrica, dove il sogno di cessare di essere operaio per diventare padroni di se stessi ha scandito cinquanta anni di storia locale. Anche qui rimane ben poco di quel sogno, che per un breve periodo – i formidabili anni Settanta – ha pure alimentato conflittualità radicali. Non c’era l’operaio-massa, ma i figli di una modernizzazione che nutriva sogni, bisogni, desideri che il capitalismo 2.0 non poteva soddisfare. Il distretto, meglio i distretti industriali della Brianza si sono smontati come la panna montata. Questa volta la parola d’accesso alla comprensione di quel che è avvenuto è globalizzazione.
Zygmunt Bauman ha scritto che la fabbrica che funziona di più nella globalizzazione è quella delle vite da scarto. Tale affermazione vale, seguendo il percorso di Revelli, anche per l’Italia, in particolar modo quando si giunge nel nord-est.
Del nord-est in molti hanno scritto. Scrittori, filosofi, sociologi ne hanno tratteggiato la parabola ascendente e il tonfo seguito all’entrata della Cina nel club dei ricchi chiamato Organizzazione mondiale del commercio, meglio conosciuto come Wto. Da allora il susseguirsi interrotto di capannoni con villette adiacenti che scandisce la mappa del nord-est è stato ridotto a un triste catena di ruggine, erbacce. E di disperazione, visto il numero crescente di suicidi, visto che le banche hanno sbarrato le linee del credito perché l’insolvenza cresceva a causa dei mancati pagamenti della pubblica amministrazione o di committenti che hanno chiuso i battenti. Revelli parla, prendendo a prestito il titolo di un romanzo sulla crisi del nord-est, dell’effetto domino. Sta di fatto che questa «terza Italia» è passata dal miracolo economico alla implosione nell’arco di venti anni. Anche qui la rabbia schiuma e diventa xenofobia, razzismo.
Dopo questa nuova apocalisse sociale rimane ben poco da salvare. Revelli, tuttavia, scorge i prodromi di un capitalismo 4.0. Imprenditori che hanno introiettato il senso del limite, che dosano pazientemente consolidamento e investimenti per allargarsi. Che puntano sull’innovazione usando un lessico che ricorda quello dei makers torinesi: open source, condivisione della conoscenza, reciprocità, cura delle relazioni umane, valorizzazione delle competenze. Non un nuovo inizio, ma oasi in un paesaggio arido e vuoto. Anche qui niente politica. Nelle oasi si riprendono le forze, non si immagina un mondo nuovo, manda a dire l’autore. Ma forse è proprio da qui, da queste tendenze che la politica andrebbe ripensata. Non per improbabili alleanze tra imprenditoria illuminata e lavoratori della conoscenza, bensì per far sì che l’«eterogeneo umano» messo al lavoro si riappropri di ciò che produce.
Anche nel nord-est impera il lessico della paura e dell’odio. Ai negri, zingari, sono aggiunti i cinesi, protagonisti delle pagine dedicate a Prato, capitale del tessile made in Italy.
Bruciati vivi
Il libro di Revelli ha ripetizioni e differenze. Su queste ultime va posta l’attenzione. Prato è la città dove uomini e donne provenienti dalla Cina si uccidono di lavoro per poter immaginare un futuro. Dodici, sedici, diciotto ore a sgobbare, cosi come facevani i pratesi durante il periodo d’oro del distretto del tessile. Senza pagare le tasse, ignorando le regole sulla sicurezza, al punto che possono bruciare in un capannone perché rinchiusi là dentro da un padrone di turno. Qui il libro ci consegna pagine commoventi, da groppo in gola. E dove la scrittura di Revelli, misurata e curata come non mai nei suoi libri, non concede nulla alla retorica pietistica per quei poveracci bruciati vivi. Quei sette uomini e donne bruciati vivi nel sonno sono come quei pratesi che per tutto il Novecento sono morti di lavoro.
Il lettore è poi catapultato all’Ilva di Taranto, per poi proseguire fino alla piana di Gioia Tauro.
In questo squarcio di Sud il sogno progressista, anche comunista di vedere nello sviluppo industriale una possibilità per le «plebi meridionali» di affrancarsi da secoli di schiavitù tracima nell’incubo delle tantissime morti da cancro in una città ormai prigioniera di una fabbrica che uccide. E dove gli operai, come a Torino, hanno gli occhi e la testa bassa. Costretti a morire di cancro per sopravvivere. E che votano, a maggioranza, la proprio lenta, probabile condanna a morte bocciando un referendum che chiedeva la chiusura dell’Ilva,
A Gioia Tauro invece le cattedrali dell’industrializzazione hanno fatto arricchire faccendieri, imprenditori in abito blu. E la criminalità organizzata, diventa impresa globale, che usa il porto come una base per i suoi traffici e come bancomat, visto che chi lo usa come punto di attracco per i container deve pagare una quota alle ’ndrine. Qui si intrecciano faccendieri, criminali e imprenditori che scendono a patti con loro.
I marchi dei container scaricati nel porto di Gioia Tauro rivelano i legami di questo lembo d’Italia con il Messico (il narcotraffico), la Cina per l’export di merci scadenti e l’import di rifiuti industriali. Una logistica dove algoritmi sofisticati, piccoli padroncini e facchini costituiscono il medium di una valorizzazione capitalistica in cui l’economia criminale è una parte integrante.
Senza futuro
Anche nella piana di Gioia Tauro c’è una piccola oasi, ma è talmente piccola che serve solo a dare testimonianza di un imprenditore pulito e innovativo, che vive segregato nella sua fabbrica sorvegliata e protetta dall’esercito perché la ’ndrangheta vorrebbe farla saltare visto che il padrone non si prostrato alla «consuetudine» del pizzo. Per trovare una possibile via d’uscita da questa apocalisse sociale bisogna prendere il traghetto e sbarcare a Lampedusa. All’isola è dedicato l’ultimo testo che compone il libro. Il più commovente, il più arrabbiato. Ma è qui, in questo luogo di confine, il più periferico di una Italia irriconoscibile, che c’è il riconoscimento dell’eterogeneo umano. Per chi è al confine l’incontro con l’altro è scontato, così come il guardarsi negli occhi e vedere nell’altro da sé l’«eterogeneo comune».
È quello di Revelli un bello e disperante reportage sull’Italia del primo ventennio degli anni duemila. Quel che cattura l’attenzione è la tonalità no future della narrazione. C’è però poca immaginazione politica in questo libro, quasi che l’autore non sia più interessato all’antica domanda sul «che fare». La ricerca di una risposta può aiutare a ricomporre un puzzle e far sì che lo smarrimento che si ha non diventi evasione, disimpegno. È quell’«eterogeneo comune» che occorre indagare senza pulsioni essenzialiste visto che le dimensioni tipiche della specie sono diventate mezzi di produzione. Non si tratta, infatti, di cogliere l’essenza dell’essere umano, bensì di come l’individuo sociale produce un comune che viene espropriato desertificando la realtà. Un nodo difficile da sciogliere, ma indispensabile affinché le tante, diversificate forze-lavoro possono cessare di essere merci e diventare lavoro vivo, cooperazione sociale e produttiva, momento di liberazione. Con disincanto, certo. Con realismo, certo. Ma con la convinzione, forte, che le oasi non sono solo luoghi dove riprendere le forze, ma anche in cui è possibile cambiare le relazioni sociali all’interno e poi all’esterno dell’oasi stessa. Perché la terra promessa sarà tale soltanto se la trasformazione avviene qui e ora.

Due viaggi in un’Italia così vicina così lontana I saggi-reportage di Marco Revelli e di Giorgio Boatti restituiscono una doppia immagine del PaeseBENEDETTA TOBAGI Restampa 9 6 2016
Sono arrivati in libreria, in contemporanea, due viaggi in Italia d’autore: “Non ti riconosco. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia” di Marco Revelli (Einaudi) e “Portami oltre il buio. Viaggio nell’Italia che non ha paura” di Giorgio Boatti (Laterza). Vi consiglio di leggerli in parallelo, ne sarete sorpresi. A dispetto di quanto suggeriscono i titoli, infatti, l’accoppiata non ripropone il trito match italico ottimisti vs pessimisti. Diversissime tra loro, le opere sfuggono alla trappola in cui cerca di cacciarci sovente la retorica governativa, “gufi” contro “pensiero positivo” e danno vita piuttosto a una fuga a due voci che induce il
lettore a esplorare le proprie ambivalenze e oscillazioni nei confronti della madrepatria.
Gli autori sono quasi coetanei (Revelli è del 1947, Boatti del ‘48), tra loro e con la neosettantenne Repubblica italiana. Questo dato generazionale rende la ricognizione dei mutamento del Paese al tempo stesso una riflessione sulla propria vita, più o meno sottotraccia (Boatti concede più spazio al privato, aprendo squarci toccanti sulla storia del fratello schizofrenico, sulla misteriosa “ricciolona” a cui talvolta “il sole si spegne nella testa”). Entrambi percorrono la penisola con l’attitudine del flâneur, facendo cioè del vagabondaggio – eccentrico, non convenzionale, non sistematico – lo strumento principe di conoscenza, ma ne riversano i frutti in narrazioni molto diverse. Revelli non dismette l’habitus dello studioso di Scienza politica, mentre Boatti col suo zainetto azzurro in spalla si muove dal Monferrato a Matera leggero e spiazzante come il Matto dei Tarocchi.
I libri s’innestano in modo significativo nel percorso dei due autori. Boatti, noto come autore del testo-base sulla strage di piazza Fontana (è storico, oltre che giornalista), è al terzo “libro di viaggio”, dopo aver raccontato gli italiani tornati alla vita rurale in Un paese ben coltivato e i monasteri (e “spaesati dintorni”) in
Sulle strade del silenzio. Ma l’innesto da cui germoglia questo libro va cercato, mi pare, un passo prima, nel saggio Preferirei di no del 2001, in cui ricostruì le storie dei 12 professori (su un migliaio) che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. In un contesto non più tragico, punta di nuovo i riflettori sulle scelte individuali capaci di prescindere dal sistema. Seleziona storie positive nell’Italia della crisi, andando contro persino, ammette in apertura, agli avvertimenti onirici del proprio inconscio. Ma è opportuno ricordare che viaggiando per monasteri, rinfrancato dalle “pagine imprecatorie” del Salterio, non risparmiava “perenne e perentoria recriminazione” a molti pubblici amministratori degli ultimi decenni. Sono i singoli individui, il volontariato o l’impresa privata a mostrare scintille di cambiamento. Il riscatto è possibile per chi ha il coraggio di una vita autentica, a misura d’uomo – anche le esperienze imprenditoriali di successo sono tali perché i loro protagonisti hanno saputo andare controcorrente in solitudine. In questo senso, mi pare più efficace, e prezioso, nel cogliere una verità atemporale, la resilienza della scintilla vitale che sempre si oppone al disfacimento, piuttosto che “i segnali del nuovo”.
Marco Revelli, figlio dello scrittore- partigiano Nuto, è un intellettuale di sinistra, dalla giovinezza in Lotta continua alla recente avventura della Lista Tsipras. Incarna una cultura politica battagliera e volontarista che ha visto tradite troppe grandi speranze. Eppure, non si arrende. Nei suoi saggi analizza le mutazioni e le forme della crisi della politica, fino ai recenti La politica perduta e Finale di partito e la ricognizione dolente dell’Italia impoverita in Poveri, noi. Il viaggio ripercorre vicende significative della recente storia sociale ed economica del Paese, dalla sventurata impresa della BreBeMi all’epidemia di suicidi tra piccoli imprenditori colpiti dalla crisi, all’Ilva di Taranto, tornando su passaggi difficilmente intellegibili, o comunque presto dimenticati, nel flusso convulso della cronaca. Ad apparirgli Unheimlich, perturbante, oggi, non è il paesaggio fisico, ma quello umano, sociale. Il suo sguardo è spesso amaro, ma non cupo. Non si mette in cammino, non si accanisce nel tentativo di analisi e decodifica chi non spera più. “Non ti riconosco” lo esclama chi, pur nello sconcerto, ancora ama, chi non è scivolato nell’indifferenza torpida che accompagna il cinismo. E ciò che più tocca, la lezione profonda di questo libro, è proprio il suo mettersi in viaggio, lui, non più giovane, anziché abbandonarsi alle geremiadi o godersi la “rendita di posizione”. Talvolta la nostalgia lo insidia, ma Revelli non vi indulge. Fa i conti con illusioni e passate convinzioni, che si sgretolano via via, fino al “punto di verità” estremo della Calabria. Avvicina il reale con umiltà, curioso, senza pregiudizi, alla ricerca di nuove chiavi di lettura. Perché senza un’attenta diagnosi e descrizione come quella svolta da Revelli, i semi di speranza collezionati da Boatti rischiano, come nella parabola evangelica, di essere mangiati dai corvi o finire su terra rocciosa, anziché sul terreno buono. Condividono la misura umana, questi due viaggiatori d’eccezione, nipotini di Erodoto, e la “cultura del luogo” che, conclude Revelli “permette a chi lo abita di rimanere – nonostante tutto – umano”. Invitano a recuperare la conoscenza attraverso la ricognizione diretta in un tempo disteso, a indugiare nella prossimità che vince il pregiudizio, a guardare da vicino e riflettere con calma, in controtendenza. Contro i gemelli chiassosi dell’ottimismo e del disfattismo di superficie, funzionali solo allo scontro politico. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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