Sempre discusso, esaltato o ferocemente criticato a seconda delle occasioni: questo è il destino di Banksy. Che, lo scorso gennaio, aveva realizzato un graffito sul retro dell’Ambasciata francese di Londra raffigurante una giovane donna in lacrime (probabilmente ispirata alla Cosetta dei Miserabili di Victor Hugo) con ai piedi una latta di gas lacrimogeno e alle spalle la bandiera francese ( un modo per criticare la politica di accoglienza verso i migranti): graffito immediatamente coperto. Banksy è, insomma, il prototipo dell’artista metropolitano che, spiegano i curatori, «vuole dare voce alle masse e a chi, altrimenti, non sarebbe ascoltato da nessuno». E che per farlo utilizza, in pratica, ogni tipo di supporto tecnico: la pittura su tela, lo spray sui muri, lo stencil, la stampa su carta, l’installazione, il cortometraggio (il suo Exit through the gift shop nel 2010 è stato candidato all’Oscar).
Nelle stanze di Palazzo Cipolla si parlerà (per immagini) dei temi più amati di Banksy: la guerra, il capitalismo, la libertà. Proseguendo un percorso che, spiega il presidente della Fondazione Terzo Pilastro Emmanuele F.M. Emanuele, «darà voce a quella street art che vuole portare l’arte fuori dai musei, rendendola parte del nostro vivere quotidiano». Una mostra non-profit con una forte componente didattica, tipica dei lavori di Banksy, destinata stavolta in particolare alle scuole e agli studenti. E che probabilmente riuscirà a esaurire quella curiosità che da sempre circonda l’artista che nel 2015 aveva dato vita a(tra l’altro) Dismaland, l’esatto contrario del parco di divertimento «con i visitatori accolti da uno staff depresso e poco collaborativo». Un ultimo dato: la personale di Banksy del 2007 organizzata a Londra sempre da Acoris Andipa aveva raccolto 36 mila visitatori in «sole» tre settimane. Roma è pronta per battere il record.
Stampe, copertine e sculture La sua arte lontano dai muriNessun pezzo esposto è stato sottratto alla stradaCorriere della Sera 23 mag 2016 Di Lauretta Colonnelli
Sono due i protagonisti della mostra a Palazzo Cipolla: la raccolta di 177 opere di Banksy e il fantasma di Banksy. L’artista, considerato tra i più famosi della Street Art, non sarà presente, come giurano i curatori Stefano Antonelli e Francesca Mezzano. Né sarebbe stato coinvolto nell’allestimento. Ma in molti sono convinti che potrebbe mescolarsi ai visitatori con la certezza di non essere riconosciuto, perché nessuno ha mai visto il suo volto, anche se un paio di foto girano nelle pagine dei libri che gli studiosi gli hanno dedicato.
In Italia si trovano nel volume Banksy il terrorista dell’arte, di Sabina De Gregori (Castelvecchi). Nella prima immagine, del 1989, appare un giovane con occhiali, blazer nero, pantaloni grigi e una cravatta a righe, la divisa di chi frequentava la Cathedral School di Bristol, la cui retta annuale ammontava a quasi 10mila sterline. Nella seconda, scattata una ventina di anni più tardi in Giamaica e considerata l’unico ritratto di Banksy, si vede un uomo in tuta e occhiali, accovacciato in mezzo alla strada con un borsone carico di bombolette spray e ritagli per lo stencil. Ma tutto è opinabile quando si parla di Banksy: l’anno di nascita, fissato al 1974, la città di provenienza che sarebbe Bristol, e altri particolari della sua biografia che è diventata una leggenda composta da centinaia di testimonianze difficilmente verificabili.
Premessa necessaria per chi si aspetta che la mostra riveli qualcosa di più del misterioso artista. La curiosità su di lui è molto intensa, alimentata da anni e anni di anonimato e al tempo stesso da una martellante condivisione delle proprie immagini su internet, che lo ha consacrato come idolo delle nuove generazioni. La celebrazione definitiva arriva ora con la più grande mostra che mai gli sia stata dedicata. Per di più in un museo. Ideata e promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro-Italia e Mediterraneo presieduta da Emmanuele F.M. Emanuele. «Si tratta di un corpus di opere tra sculture, stencil, copertine di dischi, oggetti vari», dice Emanuele «tutte rigorosamente di collezionisti privati e, dunque, assolutamente non sottratte alla strada. La mostra è unica nel suo genere anche per i temi che tratta – guerra, capitalismo, libertà - che sembrano essere le fonti primarie di ispirazione dell’arte di Banksy, connotata da una forte componente di denuncia sociale, nonché i temi più attuali ed urgenti che caratterizzano il nostro presente». Ci si chiede come fa un artista di strada ad avere tanti collezionisti sparsi per il mondo. Il fatto è che lui, a differenza dei colleghi, lavora su due fronti: da una parte i muri, all’altra le immagini su tela che poi vengono vendute da una quindicina di gallerie on line, ma con tanto di certificazione da un organismo denominato Pest Control destinato a autenticare le opere dell’artista.
I curatori, per la raccolta delle opere, si sono rivolti a uno di questi galleristi, Acoris Andipa. Siccome queste opere non hanno il permesso di essere riprodotte, non ci sarà un catalogo. Ma allora perché le immagini di Bansky, dai celeberrimi topi ai due poliziotti inglesi che si baciano, dagli aborigeni in caccia di carrelli dei supermercati fino alle bambine che volano aggrappate a un fascio di palloncini, dipinte persino sul muro che divide Israele della Palestina, sono riprodotte ovunque? «Perché Banksy lascia correre e non denuncia nessuno. Ma un museo non può pubblicare delle immagini senza il consenso dell’autore, sapendo che l’autore è contrario», spiega Antonelli. Quella di Palazzo Cipolla è stata allestita come una mostra no profit, con un grande spazio riservato ai bambini, e con l’intento di far riflettere sui temi più amati dell’artista che «vuole dare voce alle masse e a chi, altrimenti, non sarebbe ascoltato da nessuno». Tra gli impegni più recenti di Banksy, c’è Dismaland, il grande parco a tema aperto nel 2015 nel Somerset e da lui ribattezzato «Bemusement Park», dove i visitatori venivano accolti da uno staff volutamente depresso e poco collaborativo. Nello scorso dicembre le strutture di questo parco sono state trasferite a Calais per ospitare i rifugiati.
La forza dei senza nome (ma solo se autentici)Corriere della Sera 23 mag 2016 Di Roberta Scorranese
Vertiginosamente bene» con «vette assurde». Così il gallerista Andipa, qui a fianco, descrive il volume d’affari intorno all’artista senza volto. Più o meno risposte simili danno alla e/o, casa editrice di Elena Ferrante, autrice senza identità, tradotta in tutto il mondo, nella lista dei 100 pensatori più influenti stilata dalla rivista Foreign Policy. Non da meno, nella musica elettronica, i francesi Daft Punk (dei quali si conoscono i nomi ma non la faccia, sempre ben nascosta da una maschera) raccolgono successi, anche monetari, oggi rari in questo ambiente. È troppo facile evocare un generico «potere dell’anonimato»: periodicamente, nella musica come nella letteratura, si prova a lanciare un autore puntando sul mistero, ma se non scatta quell’impellenza di conoscerne il nome, i dettagli sulla vita, magari le opere precedenti, la strategia non funziona. L’anonimato ha forza quando si rompe l’incantesimo di cui tutti, oggi — come aveva preconizzato Guy Débord ne La società dello spettacolo (1967) — siamo vittime, cioè lo spettacolo come realtà, la vita come maschera, la quotidianità come un palcoscenico in cui ognuno recita, con nome e cognome, una parte assegnata. Quando qualcuno (come Banksy) rompe questo meccanismo e usa il mistero non come elemento di marketing ma come manifesto poetico, come linguaggio, come parola, ecco che si compie il miracolo: non sopportiamo di non conoscere il suo nome, dobbiamo vederlo, saperne di più. E così gli affari vanno «vertiginosamente bene». In fondo, Banksy ha trasformato se stesso in un’opera, nel rifiuto dei moderni codici dell’arte e tornando al pre-Rinascimento, quando le grandi cattedrali e le opere più raffinate erano frutto di geni senza nome, molti dei quali ancora oggi sconosciuti. Questo è il potere (vero) dell’invisibile.
Le armi spuntate di Banksy
Mostre. Lo street artist inglese è il protagonista di una esposizione romana, presso Palazzo Cipolla. Anche se nessuna opera è stata rubata alla strada, il risultato è quello di una normalizzazione un po' malinconica, che contrasta con il titolo belligerante: «Guerra, capitalismo e libertà»
Arianna Di Genova Maniefsto 24.5.2016, 0:04
La mostra di Banksy ospitata nel Palazzo Cipolla di Roma, dal titolo Guerra, capitalismo & libertà (visitabile fino al 4 settembre) dirada le nebbie sul mistero che circonda l’identità del celeberrimo writer: lui non c’è, non ha collaborato all’allestimento come leggenda sul suo anonimato vuole, ma possiamo dare per certa la sua futura destinazione. Banksy sarà stritolato dai meccanismi di quello stesso capitale che per anni ha voluto combattere, le sue meravigliose figure – che scompaginavano l’ordine di alcuni quartieri nelle metropoli del mondo – verranno ammaestrate, trasformandosi in «marchi di fabbrica».
In un gioco di specchi, dove tutto si confonde, l’istanza di controcultura che Banksy ha sempre seminato in frammenti, è stata inghiottita dall’ufficialità e stemperata da quotazioni alle aste e dall’interesse dei galleristi. Il processo è inevitabile e ha coinvolto già altri graffitisti prima di lui – da Basquiat a Haring solo per fare gli esempi più conosciuti. L’artista non è innocente né, probabilmente, può agire diversamente: la normalizzazione è insita negli strumenti medesimi del suo mestiere. Sia quando lancia bombe o sguinzaglia ratti, o ancora inventa un parco a tema inquietante come Dismaland.
La monografica promossa da Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo, a cura di Stefano Antonelli, Francesca Mezzano & Acoris Andipa, con quella grande mole di opere dello street artist (centocinquanta, nessuna prelevata dalla strada) proveniente da gallerie e case di collezionisti, è sì no profit, sì didattica, ma non può che spuntare le armi della provocazione, musealizzando ciò che non è possibile musealizzare. Senza il suo contesto urbano, nascosto agli occhi di chi attraversa la città, sotto l’abbraccio benevolo delle banche, Banksy ha una voce affievolita. E per ascoltarla, dal momento che ormai è diventato un «super classico», bisognerà pagare un biglietto. Strepitose restano le sue interpretazioni delle crisi politiche e sociali del mondo contemporaneo, folgoranti per ironia e bellezza le sue cover musicali, potentissimele sue icone.
Eppure, queste ultime presentate in sequenza, ordinate per tematiche e con cartelli esplicativi, perdono il loro innesto nella vita quotidiana. Non disorientano come il buco dipinto nel muro palestinese. Era lì, infatti, negli interstizi della storia, che si nutrivano e nutrivano con cibo ecologico la mente e lo sguardo altrui. Non importa, alla fine, che quelle opere non siano state strappate dai muri né che le abbia vendute lui stesso o con la mediazione dei dealers. A conclusione del tour, si imbocca la via di casa con una gran malinconia. D’altronde, già quando Banksy faceva incursioni da pirata nel Bristol museum, era tutto concertato. Però, a quel tempo, l’artificio spiazzante aveva la sua firma.
E la rivoluzione di Banksy finisce incorniciata Lo street artist arriva a Roma Ma chiuso in un museoGREGORIO BOTTA Restampa 24 5 2016
ROMA «Esistono senza permesso, sono odiati, braccati e perseguitati. Vivono in silenziosa disperazione tra il sudiciume, e tuttavia sono in grado di mettere in ginocchio un’intera civiltà. Se sei sporco, insignificante e nessuno ti ama, allora i topi sono
il tuo modello». Parola di Banksy: ed ecco perché ha cosparso di ratti i muri delle città di mezzo mondo, facendone la metafora dei nuovi diseredati, dei ribelli anonimi che vivono ai margini delle metropoli. Sono loro i destinatari e i primi fruitori della street art, che nasce come pittura politica, gesto antagonista destinato a lasciare un segno e un messaggio nel vuoto delle periferie, ma che si è andata via via espandendo, viaggiando in una terra di nessuno, ai confini tra illegalità e istituzioni. E non disdegnando i benefici del mercato: non fa scandalo che i topi, qualche volta, trovino il formaggio. Anzi. È già successo e succederà ancora: linguaggi nuovi irrompono nel sistema dell’arte, che li accoglie, se ne nutre, li digerisce in attesa dei prossimi venturi. Keith Haring docet.
Era inevitabile, quindi, che anche Banksy, il più famoso e eversivo degli street artist contemporanei, fosse esposto in uno spazio pubblico con tutti gli onori, ma anche come il più convenzionale dei pittori, con tanto di cornici e didascalie alle pareti. Accade per la prima volta nella mostra War, Capitalism, & Liberty che apre oggi (fino al 4 settembre) a Roma, a Palazzo Cipolla, organizzata dalla Fondazione Terzo Pilastro presieduta da Emmanuele Emanuele, curata dal gallerista londinese Acoris Andipa e da Stefano Antonelli e Francesca Mezzana, i fondatori di 999 Contemporary (il centro che è diventato il motore dell’arte di strada nella capitale).
Ci sono ben 150 lavori, tutti provenienti da collezionisti privati o direttamente dalle gallerie: anche se è forse la mostra più ricca di opere mai fatta in Europa, l’artista non ci ha messo mano. Sapeva che la stavate preparando? «Non posso rispondere a questa domanda» dice uno dei curatori. Forse sì. Forse no. Manca persino il nome di Banksy dal titolo della mostra: è una delle condizioni poste da Andipa per partecipare. «Non volevo fare la solita mostra dal sapore commerciale» ha dichiarato al Corriere della Sera il gallerista, che forse non voleva irritare troppo il suo pupillo.
D’altronde niente è definitivo quando si parla di Banksy: era l’anonimo più celebre del pianeta, oggi la sua identità sarebbe stata svelata da un profiling geografico compiuto (addirittura) da un’università. Si chiamerebbe Robin Gunningham, nato a Bristol nel 1974, sempre che sia lui. Il vero mistero non è il suo nome: ma come abbia fatto a mantenere il segreto tanto a lungo, visto che è il più social dei clandestini in circolazione. Ha fatto irruzione nei musei, ha disegnato copertine di lp (dei Blur, ad esempio) ha girato video candidati all’Oscar, ha partecipato a meeting di street art in mezza Europa, ha guidato un gruppo di writer a disegnare sul Muro in Palestina, ha persino organizzato “Dismaland”, un dissacrante parco giochi degli orrori, che ha raccolto le opere di 50 amici artisti (del calibro di Damien Hirst e Jenny Holzer), e ha fatto accorrere 150mila visitatori nel Somerset. Insomma, è il subco- mandante Marcos dei guerriglieri dello spray, il guru riconosciuto di una comunità vastissima che però ha sempre protetto il suo segreto.
Circolano leggende anche sul metodo con cui si è aperto al mercato: vendite online, banchetti per strada con stampe cedute a pochi dollari, ma c’è chi dice che spedisca di nascosto i pacchi con i suoi lavori alla Andipa Gallery, o che faccia opere uniche – e non tirature – per una cerchia ristretta di ricchissimi collezionisti. Certo è che le sue opere fanno sempre più gola: ci sono stampe firmate della famosissima
Girl with Balloon che hanno sfiorato i centomila euro (anche se la tiratura è di 150 copie). Ci sono intonaci strappati ai muri di strada venduti anche a 500mila sterline. Il mercato è tanto fiorente da produrre falsi: l’artista ha dovuto aprire un sito ( Pest Control: ancora i topi!) per frenare le truffe.
Certo, è inutile cercare in un museo l’energia che si sprigiona nei lavori di strada: anche se la tecnica è spesso la stessa (lo
stencil, una mascherina che guida la vernice spray), una cosa è scoprire su un lampione la sagoma di un marine con uno smile al posto del volto, una cosa è vederlo numerato, firmato e incorniciato su un’asettica parete candida. È ovvio che qualsiasi carica rivoluzionaria si esaurisca. Potremmo dire allora che visitare la mostra è come sfogliare un catalogo delle icone di Banksy: d’accordo, è solo un catalogo, però quanta intelligenza visiva, quanta capacità di racchiudere in un’immagine un intero discorso, quanta felicità del disegno. Ci vuole del genio per mettere in mano al marine che guida i jet militari al decollo un cartello con la scritta “Applause”. Nel mirino c’è la guerra e la sua propaganda: come dimostrano i soldati Usa con i mitra spianati che dipingono un simbolo della pace, o come ci mostra il gigantesco Topolino che prende per mano la bambina vietnamita in fuga nuda da un massacro. Il nemico è il capitalismo: le Marie in lacrime come in una deposizione non piangono la morte di Cristo ma il cartello che dice “I saldi finiscono oggi”. Punk, drop out, e ribelli di strada fanno la fila davanti a un banchetto per comprare (a 30 sterline l’una!) la maglietta che recita “Il capitalismo fa schifo”.
D’altronde è l’ironia, talvolta melanconica, talvolta feroce, il vero leit motiv dell’arte di Banksy: i suoi guerriglieri lanciano mazzi di fiori, ma egli è consapevole di abitare una contraddizione, di non essere esente dall’ambiguità. Il mercato non dà scampo. Le false sterline con il volto di Lady D e la dicitura “Banksy of London” che furono distribuite in pubblico ora valgono una fortuna. Una stampa fa bella mostra di sé proprio all’ingresso dell’esposizione. Rappresenta un’asta d’arte il cui battitore dice: “Deficienti, non vorrete mica comprare questa merda?”. Banksy può permettersi tutto: anche dissacrare se stesso. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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