sabato 21 maggio 2016

Dalle "invasioni barbariche" all'Eurabia kalergiana: l'uso strumentale e ad minchiam della storia per fomentare la xenofobia e la guerra tra poveri


Michel De Jaeghere: Gli ultimi giorni dell’impero romano, LEG, pp. 520, euro 34

di Giulio Meotti Foglio | 20 Marzo 2015
Europa e Impero romano: cadute in fotocopia»

Lo storico De Jaeghere spiega le cause del crollo dell’antica Roma: crisi economica, troppe tasse e immigrazione incontrollata. E avverte: «Tra i profughi e gli invasori la differenza è minima»

Libero 20 mag 2016 SIMONE PALIAGA
«La fine di Roma ci insegna che nessun impero, per quanto multirazziale, è in grado di ospitare in modo sicuro popoli stranieri al suo interno se non ha la volontà, la forza e il tempo di imporre a essi un’assimilazione che li unisca alla sua civiltà». Queste conclusioni valevano allora e valgono anche per l’Europa di oggi. Le trae, dopo 15 anni di lavoro, Michel De Jaeghere, direttore del bimestrale Figaro Historie, nel saggio Gli ultimi giorni dell’impero romano (LEG, pp. 520, euro 34) che presenterà in Italia a èStoria, il festival goriziano diretto da Adriano Ossola, domani alle 19. Un lavoro che demolisce vari topoi mostrando quanto, nella caduta dell’impero romano, abbiano pesato crisi economica, fiscalità smisurata e immigrazione incontrollata.
Anche la denatalità ha avuto però il suo peso...
«Al cuore della crisi che ha avuto ragione dell’Impero si trovano anche le insufficienze della sua demografia. L’Impero non era abbastanza popolato per fornire a un tempo masse contadine necessarie a sostenere un’economia prevalentemente agricola e soldati schierati di fronte al Barbaricum, la vasta frontiera che andava dal Reno fino ai deserti del sud».
Ma l’Impero ha sempre avuto un demografia incerta?
«In particolare si è spopolato nel III secolo a causa della successione di guerre, saccheggi, incursioni barbariche ed epidemie mortali. I tetrarchi e gli imperatori cristiani del secolo successivo non sono riusciti a risolvere il problema. E gli esiti sono stati duplici». Quali? «Da un lato province spopolate, in parte per le invasioni, non hanno più assicurato le stesse entrate fiscali, privando così, dopo la suddivisione del 395, l’Impero d’Occidente delle risorse per governarsi. Dall’altro si è cominciato ad arruolare barbari per combattere al posto di cittadini romani. Per loro il reclutamento era il modo migliore per accedere ai benefici della civiltà romana».
Insomma, i romani accolgono i nemici al proprio interno?
«Diciamo che nel V secolo le difficoltà finanziarie dell’Impero lo portano a generalizzare ciò che è stato, in un primo momento, un espediente: dotare di terre le tribù barbare che avevano forzato il confine affinché le considerassero proprie e combattessero al servizio dell’imperatore. Questo ha avuto il merito di renderle stanziali evitando le scorrerie. Ma alla fine i romani hanno dotato i barbari di una base territoriale diventata poi uno stato dentro lo stato».
Una sorta di cavallo di Troia...
«Infatti così si sono emancipati dalla tutela romana comportandosi come dei principati indipendenti. Passa da qui la spirale fatale che avrebbe portato la rovina».
La caduta è avvenuta quindi per una cattiva integrazione?
«L’impero romano è stato fondato sulla conquista, ma anche sulla capacità di accogliere i vinti nella loro civiltà. È stato così per Galli, Iberi, Africani ecc.. Roma li ha fatti uscire dalla barbarie nativa conducendoli alla vita civica e diffondendo tra loro lingua, cultura e letteratura latine. Ma non ha potuto farlo che a due condizioni». Cioè? «In primo luogo perché prima li aveva umiliati, imponendo così le sue condizioni. Poi, perché aveva messo in atto una intelligente politica di romanizzazione che aveva fatto di loro degli alleati e poi dei compatrioti. Non è successo lo stesso con le tribù accolte a partire dal III secolo». Perché? «Esse hanno trafitto i confini e Roma ha accettato di accoglierle sul proprio territorio perché non aveva la forza di rispedirle a casa con la forza lasciando per di più a loro la possibilità di coltivare la propria cultura guerriera e le proprie strutture tribali senza farne dei cittadini romani».
È paragonabile quanto successo allora con l’immigrazione di oggi?
«L’odierna ondata migratoria è di un’ampiezza molto superiore alle invasioni barbariche della Tarda Antichità. Allora coinvolse probabilmente non più di due milioni di persone in due secoli in un impero di circa 50 milioni di abitanti. Ma oggi è essenzialmente pacifica».
Dunque possiamo stare tranquilli?
«La storia dell’Impero d’Occidente mostra che la linea di demarcazione tra l’invasore e il profugo a volte è incerta e mutevole. Può accadere che il rifugiato di ieri diventi il conquistatore di domani. È difficile e forse utopico custodire i confini di una zona di prosperità quando la sua periferia è consegnata a caos, miseria e anarchia. Gli abitanti della zona di anarchia sono inevitabilmente tentati di attraversarli con tutti i mezzi per godere dei benefici della civiltà».
Quindi che cosa ci insegna la vicenda di Roma?
«Che nessun impero, per quanto multirazziale, è in grado di ospitare in modo sicuro popoli stranieri al suo interno se non ha la volontà, la forza e il tempo di imporre a essi un’assimilazione che li unisca alla sua civiltà: non solo per condividerne i benefici, ma anche per abbracciarne l’unità culturale, cioè valori e discipline che ne hanno favorito lo sviluppo».

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