sabato 21 maggio 2016

Revisionismo nazional-italiota anti-titino e negazionismo della guerra della Nato contro la Jugoslavia. Anche sul terreno culturale la destra rimane cane da guardia dell'imperialismo


Goeffrey Swain: Tito. Una biografia, Libreria Editrice Goriziana, pp. 292, euro 30

La guerra civile in Jugoslavia nata dagli eccidi del Maresciallo
Presentata a «èStoria» una nuova biografia del dittatore: dopo la rottura con l’Urss mandò nel gulag 8.000 stalinisti e riaccese i nazionalismi che distruggeranno il Paese negli anni ’90

Libero 21 May 2016 SIMONE PALIAGA GORIZIA RIPRODUZIONE RISERVATA
Qui in Italia lo si conosce bene. O meglio, lo si dovrebbe conoscere bene anche se al di là del Piave anni di conformismo storiografico hanno steso omertosamente un velo di oblio. Di certo chi sulla pelle ne ha assaporato lo stivale c’è ancora e del IX Korpus e di Tito ha ancora un ricordo nitido. Sono gli abitanti del profondo Nord-Est, la cintura di terra che da Muggia, passando per Trieste e Monfalcone, arriva fino a Gorizia.
Queste terre per 40 giorni hanno subito l’occupazione jugoslava tra il 1˚ maggio e il 9 giugno 1945. Quaranta giorni con strascichi di sangue, foibe, rastrellamenti, delazioni. E c’è ancora chi, dall’Istria e dalla Dalmazia, ha abbandonato le proprie terre, Pola, Fiume, Zara, Sebenico per timore della feroce pulizia etnica in procinto di scatenarsi. Eppure alla festa del 1˚ maggio a Trieste si trova chi ancora sfila con il tricolore jugoslavo alzando la voce al grido di «Trst je naš», cioè «Trieste è nostra», nel senso di jugoslava, ovviamente. E anche gli stessi ex cittadini della Jugoslavia se lo ricordano il Maresciallo, che ha guidato con pugno di ferro la Repubblica fino alla sua morte nel 1980.
Ora su di lui esce una bella biografia pubblicata dalla Libreria Editrice Goriziana e che sarà presentata a èStoria oggi alle 17, in un confronto con Joze Pirjevec presso l’Auditorium della cultura friulana. Si tratta di Tito. Una biografia di Goeffrey Swain (pp. 292, euro 30).
Secondo lo storico inglese, «Tito era un dittatore: meno violento di molti altri e certamente più disponibile all’ascolto, ma pur sempre un tiranno. Nel 1954, al tempo del suo scontro con Milovan Djilas, aveva potuto affermare che la dittatura doveva continuare perché la Jugoslavia era circondata da nemici e il popolo non conosceva il socialismo, ma nel 1968 entrambe le circostanze erano state superate. Tito invece decise di restare un dittatore».
A farne le spese del suo governo sono stati gli italiani, ma pure gli stessi jugoslavi. Soprattutto da quando i rapporti tra Tito e Stalin cominciano a incrinarsi. Allora parte del partito comunista non si allinea alle scelte del Maresciallo. Molti, tra generali, ministri e alti rappresentanti della nomenklatura riparano, per sottrarsi alle persecuzioni, in Romania. Ma i «sostenitori più intransigenti della linea sovietica, 8.250 in tutto, vengono confinati nel campo di concentramento di Goli Otok e sottoposti a programmi intensi e brutali di rieducazione. Nel complesso sono arrestate in pochi mesi 13mila persone e dai dati disponibili sembra di capire che i sostenitori del Cominform fossero numerosi in Serbia e fra i serbi della Bosnia Erzegovina e particolarmente forti in Montenegro». Ma non finisce qui. Come sottolinea Swain, i fuoriusciti avevano organizzato addirittura in Unione sovietica anche una Brigata jugoslava pronta a intervenire a Belgrado per far cadere il governo deviazionista. Se l’intervento sul terreno non è mai avvenuto, l’azione dei fuoriusciti ha portato a quasi 8mila incidenti di frontiera in cui hanno trovato la morte 27 guardie confinarie jugoslave.
Questo accadeva nel silenzio complice delle potenze occidentali, dove anche i partiti comunisti volevano mettere la sordina ai dissidi del Cominform. Partita diversa l’ha invece giocata l’Inghilterra, interessata a sostenere Tito non solo per tenerlo lontano da Stalin, ma anche in funzione antitaliana. Lo si vede nell’appoggio economico che l’Inghilterra gli concede a partire dal 1948 e nella simpatie per le sue rivendicazioni su Trieste. Questo accadeva, anche se Swain si dimentica di metterlo in luce, perché con il porto dell’Alto Adriatico tra le braccia di Belgrado non solo Londra sarebbe riuscita a tenersi buono un alleato al tempo della Guerra Fredda, ma soprattutto avrebbe messo in difficoltà le future ambizioni italiane sul Mediterraneo.
Il regime poliziesco messo in piedi da Tito non cambia di segno neppure mano a mano che ci si allontana dalla fine della Seconda guerra mondiale. Infatti il suo atteggiamento autoritario non muta nemmeno ai tempi della contestazione.
«Nel 1968», racconta Swain, «impedendo all’autogestione operaia di muoversi verso quella che, lo vedeva bene, sarebbe stata una soluzione sindacale, Tito lasciò che il potere si spostasse nelle mani delle élites della Repubblica, riaccendendo le passioni nazionalistiche» che avrebbero trovato sfogo in cruentissime guerre che si sarebbero concluse solo nel 1999 dopo il conflitto per il Kosovo. «Schiacciando le passioni riformatrici del Sessantotto», conclude Swain, «Tito schiacciò di fatto qualsiasi possibilità di discussione e di evoluzione democratica».


Quel rigore sbagliato che divise la Jugoslavia 
Nel suo ultimo libro, il giornalista Gigi Riva ricostruisce la storia del calciatore bosniaco Faruk Hadzibegic e di un Paese in guerra

WLODEK GOLDKORN Restampa 21 5 2016
Il calcio, come la guerra, sono due attività in apparenza di una razionalità cartesiana. In campo scendono due squadre, avversarie, o, in caso di conflitto armato, nemiche, che mettono in atto tattiche frutto di calcoli, ipotesi e previsioni, basati sull’esperienza, sui precedenti, sulla valutazione delle rispettive forze. E anche le intuizioni, per quanto geniali e spiazzanti, debbono essere tradotte in intellegibili e comprensibili schemi di gioco o di battaglia. Salvo che poi, quando gli esseri umani entrano in azione, puntualmente succede l’imprevedibile. E qualche volta alla tattica e strategia, subentra il Destino; la mano di Dio, come nel caso di Maradona, o del Diavolo, come invece accade nel bel libro scritto di Gigi Riva; non il calciatore, ma il giornalista firma dell’Espresso; esperto delle questioni internazionali e ai tempi del conflitto balcanico inviato di Il Giorno a Sarajevo. Il libro si intitola
L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra. Riva lo ha scritto per un editore francese, Seuil, dove è uscito pochi giorni fa, ma per fortuna Antonio Sellerio lo ha intercettato, ed ecco che l’omonima casa editrice palermitana lo manda in libreria in questi giorni. Libro francese allora o italiano? Francese decisamente (ed è un pregio) perché l’autore per tessere il racconto di una serie di scelte esistenziali e il rimpianto di un uomo che da calciatore sfida il destino come se fosse invece l’eroe di una tragedia greca, usa il linguaggio e il metodo in apparenza razionalista e cartesiano, ma poi gioca tutto sulle emozioni.
Faruk del titolo è Faruk Hadzibegic, nome e cognome musulmani e bosniaci. Cinquantottenne, allenatore del Valenciennes Football Club francese, una discreta carriera da calciatore e trainer alle spalle, avrebbe potuto pensare a un futuro tranquillo, da pensionato, magari nella sua città natia, Sarajevo. Se non fosse che Hadzibegic, da anni, pensa di essere il responsabile, forse uno dei colpevoli della spartizione della Jugoslavia, con il suo corollario degli orrori e delle stragi. Non è un pazzo megalomane Hadzibegic. È successo, che il 30 giugno 1990, allo stadio di Firenze, ai quarti di finale dei mondiali di calcio, Hadzibegic sbagliò rigore. Stava giocando nelle file della nazionale jugoslava, anzi, lui bosniaco e musulmano, ne era il capitano. Assieme a lui c’erano compagni di gioco serbi, croati, montenegrini, sloveni. Ai quarti di finale, contro l’Argentina di Maradona, si arriva ai rigori. Ora, chiunque abbia mai visto una partita in cui decisivi sono i rigori al termine dei regolari 90 minuti più i trenta dei tempi supplementari, sa che si tratta di una lotteria; del destino appunto. Salvo che a decidere non è la cieca fortuna né i capricci degli dei, ma i piedi, le teste, la capacità di concentrazione e l’abilità di prendere una decisione razionale in meno di un attimo degli uomini. Ecco, Hadzibegic sbagliò rigore; si emozionò troppo prima di toccare con il piede la sfera di cuoio. Capita a tanti e ai migliori. Ma questa volta, in gioco non c’era solo il calcio. La partita aveva come oggetto l’identità jugoslava. Insomma, la Jugoslavia venne eliminata dai mondiali, e ancora oggi al suo ex-capitano succede che, quando lo riconoscono, qualcuno gli dice: «ah, se tu non avessi sbagliato quel rigore!». Le pagine del libro dedicate alla cronaca di quella partita sono scritte in un modo che trascende la cronaca e, per la bellezza formale, sono pari a certi exploit estetici dei più grandi campioni di calcio. E infatti, l’ambizione dell’autore va oltre la cronaca, per toccare l’intreccio tra biografia e storia. Riva, da inviato a Sarajevo assediata, ha visto quanto la resistenza non fosse solo un fatto militare, ma prima di tutto la presa di coscienza e l’agire come se la vita quotidiana fosse normale. È un modo di affrontare il mondo, non deterministico, ma come se tutte le ipotesi di una realtà diversa da quella vissuta, fossero sempre aperte. Questo metodo, che permette pure di vedere la storia con i “ma” e come il riscatto della memoria dei perdenti, Riva lo ha applicato a una narrazione, in apparenza solo su calcio e guerra. La vita di Hadzibegic poteva essere diversa: da vincitore. Tirare un rigore non è per lui un atto creativo e artistico; è un dovere. E del resto, tutta la sua vita è all’insegna di una serie di civili e umani doveri da adempiere: famiglia; studi universitari. Riva contrappone questa vita, in apparenza mediocre, ai cenni della biografia di Karadzic, lo psichiatra, poeta, artista, architetto del tentativo del genocidio in Bosnia; condannato a 40 anni di prigione dal Tribunale dell’Aja, o a quella di Arkan il capo delle Tigri, organizzazione paramilitare serba, distintosi per crudeltà e malvagità.
Ricostruendo in parallelo la storia calcistica e quella della guerra nei Balcani, Riva suggerisce: la violenza sugli spalti non è risultato della guerra; la guerra talvolta nasce dagli spalti e dalla volontà degli uomini di uccidere, senza altro scopo che uccidere. E solo per capire questa verità vale la pena di leggere il suo libro. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

L’errore di Genscher Come morì la Jugoslavia
risponde Sergio Romano Corriere 21.5.16
I media hanno riportato la notizia della scomparsa, a 89 anni, di Hans-Dietrich Genscher, che fu tra i più longevi ministri degli Esteri della Germania in questo dopoguerra (1974-92). Molto apprezzato dalla cancelliera Merkel per le sue raffinate doti di negoziatore nelle stagioni della Ostpolitik e della riunificazione (anche se, come precisa il Corriere , l’ambasciatore americano Burt lo definì a slippery man, un uomo sfuggente), si distinse anche come inflessibile sostenitore dei famosi parametri di Maastricht. Ne sanno qualcosa i nostri governi dell’epoca, nei riguardi dei quali il ministro Genscher ogni mattina se ne inventava una nuova. Oltre agli innegabili meriti, non crede che si debba ricordare anche questo?
Lorenzo Milanesi

Caro Milanesi,
Genscher merita quasi tutte le lodi con cui la sua figura politica e la sua personalità sono state rievocate in occasione della morte. La prova più brillante del suo impegno professionale fu probabilmente il modo risoluto e volitivo con cui seppe affrontare la crisi dei cinquemila turisti della Repubblica democratica tedesca, in visita a Praga nell’estate del 1989, che non volevano tornare a casa e avevano chiesto asilo all’ambasciata della Repubblica federale. Genscher approfittò di alcune circostanze favorevoli (le esitazioni e le incertezze della dirigenza della Germania comunista nell’era di Gorbaciov), ebbe colloqui a New York con i ministri degli Esteri dell’Urss e di alcuni Paesi satelliti, corse a Praga per annunciare ai dissidenti della Rdt che erano liberi di partire per la Germania dell’Ovest. Non riuscì a terminare la frase perché le sue parole furono sommerse da un entusiastico coro di applausi.
Ma vi è un’altra pagina della sua vita professionale che non merita altrettante lodi. Quando la Slovenia e la Croazia proclamarono la loro indipendenza, nel 1991, la prima reazione della Comunità europea fu il tentativo di ricucire lo strappo promuovendo la creazione di un nuovo stato jugoslavo confederale. La formula si scontrò con molte difficoltà locali, ma non poteva ancora dirsi irrimediabilmente fallita allorché Genscher tagliò corto e annunciò che la Germania aveva riconosciuto i due nuovi Stati. Quando gli fu osservato che quel riconoscimento significava la disgregazione della Jugoslavia, Genscher replicò che occorreva punire la Serbia per l’assedio di Vukovar e i bombardamenti di Dubrovnik; e aggiunse che non vi era altro modo per mettere fine al conflitto. Di fronte al fatto compiuto i colleghi europei di Genscher si allinearono sulla politica tedesca e condannarono lo Stato creato da Tito a quattro anni di guerra civile.
È probabile che Genscher credesse di lavorare nell’interesse della Germania. Invece di uno Stato comunista vi sarebbero state, non lontano dalle sue frontiere meridionali, due piccole nazioni cattoliche che avevano lungamente appartenuto all’orbita delle nazioni di lingua tedesca.
Mentre creava perplessità nell’Europa comunitaria, la mossa di Genscher piacque a una grande autorità morale. Giovanni Paolo II, il Papa polacco, fu lieto che la componente cattolica degli slavi del sud si fosse affrancata dalla dominazione dei serbi, un popolo che aveva il doppio difetto di essere stato comunista e di essere ortodosso. Genscher fu ministro degli Esteri sino al febbraio 1992 e non dovette gestire le conseguenze della sua politica jugoslava. Papa Wojtyla, invece, fu Papa sino al 2005 e dovette subire gli effetti di una scelta che non era piaciuta né a Belgrado né a Mosca. La Chiesa ortodossa non gli permise di fare visita a Sarajevo e il Patriarca di Mosca non volle che il pontefice romano facesse una vista pastorale nella Grande madre Russia. 

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