venerdì 13 maggio 2016

Il Costantino di Alessandro Barbero


Alessandro Barbero: Costantino il Vincitore, Salerno editrice

Risvolto
 Costantino è il primo imperatore cristiano. È il sovrano che si è convertito prima della battaglia di Ponte Milvio, dopo aver visto in cielo la croce con la scritta In hoc signo vinces, e che ha messo fine alle persecuzioni, concedendo libertà di culto ai cristiani. Ma cosa sappiamo realmente di lui? Dall’ultimo dopoguerra fra gli storici si è diffuso un clima di ammirazione e di ossequio verso uno dei protagonisti del periodo tardo antico. Alessandro Barbero in questo libro contesta alla recente storiografia un’inquietante mancanza di spirito critico, sia nei toni celebrativi con cui presenta la figura dell’imperatore, sia nell’ingenuità con cui accetta come autentiche fonti che meriterebbero un approccio ben più scettico e che, in realtà, se prese alla lettera - lungi dal giovare alla immagine di Costantino - dipingerebbero il profilo poco edificante di un tiranno disturbato.


Enigma Costantino santo uxoricida 
Campione del cristianesimo o cinico tiranno che usò la fede per puntellare il suo regime? Una monumentale biografia di Alessandro Barbero smonta la leggenda dell’imperatore che fece bollire la sposa infedele
Busiarda
Nerone ha ucciso sua madre ed è passato alla storia come un mostro. Costantino ha cucinato sua moglie nell’acqua bollente ed è stato fatto santo. Strano caso davvero quello di Costantino (274-337 d.C.), signore dell’impero romano per oltre trent’anni, dal 306 alla morte. Più si leggono i testi antichi e più la sua figura appare inafferrabile. Da un lato, c’è l’eroe della leggenda cristiana, il campione della fede che trionfa in battaglia esibendo il simbolo della Croce («In hoc signo vinces», con questo segno vincerai). Dall’altro, c’è l’usurpatore violento e assetato di potere che conquista il trono massacrando i rivali, l’imperatore vizioso e debosciato, il politico cinico che si serve furbescamente del cristianesimo per puntellare il suo regime tirannico.
Caratteri contraddittori
L’illustre storico settecentesco Edward Gibbon confessò di avere dato alle fiamme più di cinquanta fogli del suo Declino e caduta dell’impero romano perché non sapeva come raccontare Costantino. Non sappiamo quanti fogli abbia bruciato Alessandro Barbero prima di arrivare alle 850 pagine del suo Costantino il Vincitore, che esce in questi giorni presso la Salerno editrice. Certo è che sono pagine scritte splendidamente. Barbero viviseziona le fonti con rigore assoluto ma anche con piglio vivace, divertente e divertito. Non ci offre la chiave dell’enigma di Costantino. Anzi, sottolinea volutamente il carattere contraddittorio delle testimonianze antiche, passate in rassegna secondo le varie tipologie: panegirici e biografie, epigrafie e monete, editti e monumenti. Ne viene fuori una specie di Rashomon della Roma imperiale, dove ogni voce racconta la figura di Costantino in un modo diverso.
La frase celebre
Per esempio, il lettore comune crede di sapere che l’imperatore inaugurò la stagione della tolleranza verso il cristianesimo con l’editto di Milano, promulgato nel 313. Poi uno legge il libro di Barbero e scopre che l’editto non fu promulgato a Milano, anzi non fu neppure un editto ma una semplice lettera circolare, per di più pubblicata non da Costantino ma dal suo collega-rivale Licinio. Anche la leggenda della visione miracolosa che, prima della battaglia contro Massenzio al Ponte Milvio, induce l’imperatore a schierare l’esercito sotto un’insegna cristiana, è raccontata in modi spesso contraddittori. La celebre frase «In hoc signo vinces» è evocata solo nella Vita di Costantino di Eusebio, solerte biografo di corte. Peraltro Eusebio, che scrive in greco, non usa il futuro («vincerai») ma l’imperativo («vinci»). Quasi il comando divino fosse un urlo da stadio: «vinci» (níka) era infatti un grido che i tifosi usavano durante le gare dei carri negli ippodromi.
Ma come si concilia il Costantino folgorato dalla visione cristiana con quello a cui, pochi anni prima, appare invece il dio Apollo, che l’imperatore avrebbe incontrato faccia a faccia nel 310 in un tempio della Gallia? E come spiegare che sull’Arco di Costantino, eretto nel 315 a Roma per celebrare la vittoria su Massenzio, di segni cristiani non ci sia traccia? Le legioni, anzi, vi sono raffigurate mentre marciano esibendo statuette della Vittoria e del Sole. E Costantino continuerà per anni a farsi rappresentare sulle monete portando sul capo il simbolo solare della corona radiata.
Molti, insomma, restano gli aspetti oscuri e contraddittori della vita e dell’opera di Costantino. A partire dall’episodio morboso che coinvolge Crispo, suo figlio di primo letto. Si narrava che la nuova moglie di Costantino, Fausta, avesse sviluppato una passione incestuosa per il figliastro. Rifiutata, avrebbe accusato Crispo di stupro. L’imperatore mandò quindi a morte il figlio ma poi, scoperta la calunnia, avrebbe punito Fausta facendola cuocere nell’acqua bollente (o, secondo altri, buttandola nuda in pasto alle belve feroci). La vicenda, messa in questi termini, ha un sapore fiabesco e rimanda al mito greco di Fedra. Ma che Costantino abbia ucciso suo figlio e sua moglie è un fatto storico.
Un concorso nell’Aldilà
Costantino, insomma, era «pari a un apostolo» (isapóstolos, come scriveva Eusebio) o era un tiranno sanguinario? Giuliano l’Apostata, suo discendente e successore, lo considerava soprattutto un debosciato. In un’operetta satirica, I Cesari, Giuliano immagina un bizzarro concorso che si svolge nell’Aldilà: gli imperatori del passato fanno a gara davanti agli dèi dell’Olimpo per stabilire chi di loro sia stato il più grande di tutti i tempi. Partecipa anche Costantino ma solo, si spiega, perché ci vuole qualcuno che rappresenti «gli amanti dei piaceri». Certo, Giuliano, restauratore del paganesimo, non poteva apprezzare Costantino. Ma il ritratto resta impressionante. E culmina nell’immagine di Costantino che, truccato e vestito di abiti multicolori, corre dietro a Gesù, sperando di potersi purificare dai suoi crimini con un po’ di acqua benedetta.
Dopo Giuliano, la «leggenda nera» di Costantino viaggerà attraverso i secoli accanto alla favola cristiana. A Voltaire, l’imperatore apparirà come un «tiranno superstizioso» che solo «gli adulatori clericali» («flatteurs ecclésiastiques») possono considerare un grand’uomo. Difficile oggi sottoscrivere un giudizio così drastico. Ma il libro di Barbero, che tiene ben ferma la distinzione tra storia e agiografia, sarebbe senz’altro piaciuto anche a Voltaire. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

L’imperatore che inventò la realpolitik 
Un monumentale saggio di Alessandro Barbero su Costantino sfata luoghi comuni durati secoli
CHIARA FRUGONI 13/6/2016 Restampa
Alessandro Barbero, concludendo il suo “Costantino il vincitore”, (Salerno editrice) scrive: «Questo libro avrà raggiunto il suo scopo se riuscirà a convincere i suoi lettori che gli studi costantiniani, nonostante la loro apparente floridezza, avrebbero un gran bisogno di un rasoio di Occam, che venisse a spuntare la barba di Eusebio» (l’allusione è al principio formulato da Guglielmo di Occam: inutile formulare più ipotesi del necessario per spiegare un problema; Eusebio di Cesarea è una delle importanti fonti per ricostruire la
figura di Costantino, che come tutte le altre, sono state passate al vaglio della critica moderna, proponendo però spesso stupefacenti congetture e interpretazioni). In realtà Alessandro Barbero ha usato egli stesso lungo tutto il libro il rasoio di Occam e si rimane veramente stupiti nel constatare come serissimi studiosi di storia antica si siano mostrati tanto disinvolti nel trasformare labili indizi in granitiche certezze, approssimativi e disattenti nel controllare le fonti e le proprie affermazioni, pronti a fraintendere e, francamente, a immaginare.
Costantino il vincitore è un volume impegnativo per il numero di pagine (con gli indici, 850) ma non per la lettura, che risulta appassionante e piacevole insieme. Si tratta dunque di un saggio assai documentato (nella bibliografia le opere citate superano largamente il migliaio), rivolto agli studiosi, ma anche al grande pubblico, per lo stile piano e discorsivo, spesso ironico e sorridente.
Diciamolo subito: tutto quello che abbiamo imparato sui libri di scuola va rivisto, dalla croce accompagnata dalla scritta “in hoc signo vinces” apparsa in cielo a Costantino alla vigilia della vittoriosa battaglia di Ponte Milvio, all’editto di tolleranza di Milano del 313 che non fu emanato a Milano, non fu un editto e fu pubblicato dal collega e rivale di Costantino, Licinio.
Alessandro Barbero lascia parlare, per poi discuterla, ogni fonte da sé, in modo autonomo; accanto alle fonti scritte sono presentate, ognuna con la propria specificità e nel suo contesto, anche le testimonianze materiali: le monete, le epigrafi, i monumenti.
Il libro segue Costantino dalla giovinezza alla morte: una vita segnata anche da truci vicende famigliari: fece uccidere la seconda moglie Fausta, il padre e il fratello di lei e il proprio figlio Crispo, che lo aveva aiutato in tante vittorie. La battaglia di Ponte Milvio del 313, una vittoria schiacciante e inaspettata con lo scempio del cadavere di Massenzio, produsse un’enorme impressione: l’imperatore è vincitore di una guerra civile nella quale le sue mani «grondano di sangue romano ». Dai pericoli della mischia furibonda e da giudizi che potrebbero essere non del tutto benevoli Costantino fu messo al riparo dalla visione celeste avuta prima della battaglia che gli assicurava la vittoria. Tuttavia i racconti di Eusebio di Cesarea e di Lattanzio divergono in maniera sostanziale. Secondo Eusebio sarebbe stato lo stesso imperatore ben dopo gli avvenimenti a raccontargli dell’apparizione in cielo: «Il trofeo della croce fatto di luce e accanto una scritta: “Con questo segno vinci”», apparizione vista da Costantino e dall’esercito. Alessandro Barbero nota l’inverosimiglianza del fatto che nessuno degli spettatori abbia mai raccontato il portento attendendo che l’imperatore molti anni dopo decidesse, lui solo, di rompere il silenzio. Secondo Lattanzio, l’imperatore vide invece in sogno “caeleste signum Dei” descritto in modo assai poco chiaro: una Chi greca messa di traverso e una Rho (che in greco, ha la forma della nostra P) e gli fu ordinato di mettere tale “signum” sugli scudi prima di attaccare battaglia. La storiografia si è puntualmente divisa intendendo o che Lattanzio pensasse al simbolo della croce o invece a un cristogramma formato dalle prime due lettere greche XP della parola Cristo. (Entrambe le possibilità sono state raccolte dall’iconografia).
Tuttavia il signum di Lattanzio era anche un emblema solare e dunque forse Costantino stesso, in quel tempo devoto al culto del Sole, potrebbe avere scelto un simbolo che attirava pagani e cristiani. Forse si è trattato addirittura di un’invenzione di Lattanzio: non esiste alcuna attestazione iconografica strettamente contemporanea del signum Dei iscritto sugli scudi, né sulle monete, né sull’arco di Costantino. Lattanzio raccontò una storia molto simile, attribuendo un sogno di ispirazione cristiana a Licinio, un sogno che la storiografia ha del tutto dimenticato, perché, mi permetto di azzardare, Licinio è un perdente, sconfitto da Costantino, giustiziato per avere complottato una rivolta e Costantino è, come egli stesso si soprannominò, il Vincitore.
Mi è impossibile dare conto, nello spazio a disposizione, della vastità della ricerca di Alessandro Barbero, frutto di anni e anni di studio. Voglio sottolineare però, che dopo avere maneggiato con tanta maestria il rasoio di Occam, l’autore ha contribuito a delineare con molta sicurezza un inedito e finalmente più sicuro ritratto di Costantino. Politico abilissimo, divenuto unico imperatore per spietata durezza e grandi doti militari, Costantino lavorò alla costruzione di un potere imperiale e dinastico assicurandosi il consenso di alcuni compatti gruppi sociali anche con sbalorditive concessioni. Ad esempio i grandi possessori di fondi fiscali non dovevano essere vessati dai funzionari le cui verifiche, se ritenute ingiuste, avrebbero comportato la morte sul rogo di chi in teoria cercava di difendere gli interessi del fisco. Costantino assicurava così una protezione che aveva valenza clientelare. Vietò le vendette politiche e le delazioni: un altro modo per garantirsi la gratitudine di chi si era arricchito ad esempio sotto Massenzio e temeva l’ira del vincitore. Rassicurò i veterani concedendo una serie di immunità.
Avendo compreso che anche i cristiani erano un compatto gruppo sociale, in prospettiva sempre più importante, mostrò per la nuova religione tutta la sua benevolenza, anche se fino alla fine della vita, pur manifestando una crescente freddezza verso i pagani, salvaguardò i culti civici e i sacerdoti loro addetti, senza chiudere i templi. Tutta la politica di Costantino fu di natura inclusiva, tesa a evitare i contrasti.
Costantino solo in punto di morte ricevette, forse, il battesimo. Convinto per tanti anni di essere protetto da varie divinità pagane (come dimostrano le monete) credette davvero, nella maturità, nell’esistenza di un unico Dio? Perché la Chiesa scelse Costantino come il primo imperatore cristiano? Qui potrebbe iniziare un altro libro. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Intrighi rovinosi, tra sangue e potere
STORIA MEDIOEVALE. L’ombra lunga di un imperatore e di un vescovo in tempo di crisi tra Occidente cristiano e Islam. Costantino e Ambrogio, figure cruciali del IV secolo, sono al centro di due distinti saggi firmati da Alessandro Barbero e Franco Cardini
Marina Montesano Manifesto 23.12.2016, 17:46
Si potrebbe affermare che, sotto il profilo della storia religiosa dell’Europa e del Vicino Oriente, il IV secolo si sia aperto con Costantino e chiuso con Teodosio e il suo principale ispiratore: Ambrogio. Nel mezzo, l’ultimo accanito contrasto fra pagani e cristiani. Escono in contemporanea due lavori, molto diversi fra loro, che tracciano un profilo di Costantino (Alessandro Barbero, Costantino il Vincitore, Salerno Editore, pp. 852, euro 49) e di Ambrogio (Franco Cardini, Contro Ambrogio. Una sublime, tormentosa bellezza, pp. 136, euro 11); attraverso la lettura delle due opere si può avere un quadro decisamente più chiaro del cambiamento radicale nel quale incorsero l’impero e la società.
ANCHE SE L’APOLOGETICA cristiana ha aggiunto tinte più fosche del necessario alle persecuzioni anticristiane prima di Costantino, è indubbio che il problema dell’atteggiamento da tenere nei confronti dei seguaci di Cristo si era presentato precocemente, in particolare verso i cristiani che si rifiutavano di partecipare all’adoratio dell’imperatore. Dopo alcuni sporadici tentativi di repressione, tra la fine del II e gli inizi del III secolo l’atteggiamento delle autorità romane era stato sostanzialmente improntato alla tolleranza. Ma la difficile situazione attraversata da Roma e il rapido proselitismo dei cristiani attiravano il malcontento sulle comunità: divenne dunque necessario adottare provvedimenti di maggior peso.
Nel 250 si scatenò una persecuzione anticristiana ordinata dall’imperatore Decio. Cinque anni più tardi l’editto di Valeriano colpì i responsabili delle comunità locali dei fedeli, al fine di costringerli a partecipare ai riti del culto imperiale. Nel 260, per volontà dell’imperatore Gallieno, cessarono le persecuzioni e per i cristiani ebbe inizio un quarantennio di pace. Durante il regno di Diocleziano la pace venne tuttavia interrotta. Con l’emanazione del famoso editto persecutorio del 303, Diocleziano e Galerio ordinavano la distruzione delle chiese, il rogo delle Sacre Scritture e misure che colpissero chiunque, cristiano, avesse svolto mansioni pubbliche. Le persecuzioni – questa volta assai dure – continuarono anche dopo il ritiro di Diocleziano, sino al 311, quando l’imperatore Galerio emanò un editto di tolleranza.
La svolta fondamentale per la vita del cristianesimo nell’impero giunse però due anni più tardi, nel 313, con l’editto emanato a Milano da Licinio e da Costantino: anche se, come ci dice Barbero, la tradizione ha obliterato il ruolo preponderante del primo a favore del secondo. In esso si dava piena libertà di culto a tutte le fedi dell’impero: il che ovviamente ha conferito alla figura di Costantino una centralità assoluta nella memoria storica cristiana. E qui, ci dice Barbero, cominciano i problemi: perché della sua figura sembra di conoscere ormai tutto, alla luce di innumerevoli fonti, ma di fatto buona parte della storiografia, di quella antica come della contemporanea, ha costruito una immagine dell’imperatore selezionando le fonti, ignorando quelle che l’avrebbero smentita, talvolta commettendo errori che si sono poi radicati passando per informazioni.
BARBERO RIESAMINA tutta questa mole di notizie per restituire un Costantino aderente alla molteplicità delle fonti che ne hanno tramandato le azioni, incluse quelle messe in sordina dalla tradizione cristiana: «Costantino è un usurpatore che diventa unico imperatore romano sconfiggendo e uccidendo tre colleghi, di cui uno era suo suocero e gli altri due i suoi cognati: nessun altro al mondo è mai riuscito ad ammazzare cosí tanti imperatori romani. Eliminati tutti i rivali e divenuto unico padrone dell’impero, Costantino fa uccidere il figlio maggiore Crispo e la seconda moglie Fausta, anche se non sappiamo perché. Subito dopo la sua morte, i suoi figli uccideranno in un bagno di sangue quasi tutti i fratelli e i nipoti superstiti di Costantino, e poi si ammazzeranno fra loro, finché non ne rimarrà uno solo. Questa immagine shakespeariana, sanguinosa e tragica, non è il frutto di una tradizione ostile, alternativa rispetto all’immagine santificata del Costantino cristiano: sono tutti fatti accertati, che dobbiamo cercare di far coesistere con le scelte religiose dell’imperatore».
È la volontà di ripercorrere questa intera tradizione storiografica con certosina precisione a far sì che il Costantino di Barbero risulti in un libro di oltre ottocento pagine; il che potrebbe far paura a più di un lettore, ed è quindi opportuno segnalare che la discussione storiografica viene inserita nel corso dell’opera in sezioni segnalate ed è possibile fruire anche solo delle parti più narrative. Ma più di questo accorgimento, un’altra cosa ci pare importante, e cioè che, in linea con quanto premesso, Alessandro Barbero non crea un «nuovo» Costantino, e anche questo potrebbe lasciare perplessi i suoi lettori: la sua è in primo luogo un’opera di decostruzione, di pulizia dalle incrostazioni di idee e interpretazioni che alla luce delle fonti non hanno ragion d’essere. E soltanto nelle poche pagine conclusive si lascia andare quasi suo malgrado: «Fino all’ultimo ho creduto che non avrei scritto delle conclusioni», ci dice, ma «non è possibile convivere per anni con le fonti su Costantino senza farsi, un po’ per volta, una propria idea di cosa dev’essere accaduto davvero».
QUALE SIA LA SUA IDEA non è il caso di dirlo qui: molto meglio leggere il libro; ma quello che senz’altro si ritiene è la lezione di metodo, il gusto per l’indagine e la scoperta al di là dei luoghi comuni. Che è poi una lezione valida non soltanto in ambito storiografico.
Negli anni successivi alla morte dell’imperatore, però, la crisi tra pagani e cristiani, nonché fra cristiani di diverse confessioni, evidentemente solo sopita, si riaccese e raggiunse il suo apice nel 357 con la contesa intorno all’Altare della Vittoria: Costante II, succeduto a Costantino e cristiano di simpatie ariane, fece rimuovere l’ara sacra alla quale i senatori rendevano omaggio bruciando ritualmente grani d’incenso. Fra 361 e 363 l’ascesa al potere di Giuliano (il quale ha ricevuto dalla tradizione cristiana l’epiteto di «Apostata») sembrò riportare il primato alla tradizione pagana; pur essendo stato educato come cristiano, Giuliano sentiva maggiore attrazione per la cultura ellenistica ed esprimeva le sue stesse propensioni per il monoteismo nel favore accordato al culto solare.
Dopo Giuliano, la Chiesa riprese il sopravvento grazie soprattutto a due imperatori, cristiani nel modo più deciso e rigoroso: Graziano (375-383) e Teodosio (379-395). Su entrambi, e sulle loro scelte, si proietta l’ombra del potente Ambrogio vescovo di Milano. Il libro che Franco Cardini gli dedica è quasi un pamphlet già a partire dal titolo provocatorio (Contro Ambrogio) soltanto mitigato dalla «grandezza» cui si allude nel sottotitolo. Non è soltanto il numero di pagine ben differenti a contraddistinguere i due saggi; quello di Cardini si posiziona infatti in linea con gli interessi da lui manifestati in tante opere dedicate ai rapporti fra Occidente cristiano e Islam in questi ultimi anni di crisi, contro la vulgata che vorrebbe un cristianesimo affermatosi nella storia grazie all’esempio dei martiri, alla predicazione, alle buone opere, e un Islam che invece si sarebbe fatto largo a colpi di spada. La scelta di Teodosio, che mette fuori legge culti e confessioni differenti dal cristianesimo niceno, ha significato una svolta repressiva che ha segnato l’intera storia successiva dell’Occidente; e anche gli appartenenti ad altri culti hanno contato la loro buona parte di martiri poco celebrati dalla tradizione.
MA NON C’È SOLO QUESTO. Prima di essere l’ispiratore della scelta teodosiana del cristianesimo come unica religio licita, spiega Cardini, Ambrogio ha rivendicato ai chierici un ruolo di modello e di guida nei confronti dei laici e di quegli stessi tra loro ch’erano pubblici funzionari o addirittura detentori della suprema funzione imperiale; in tal senso egli sta alla base di un lungo e complesso itinerario che la riforma della Chiesa dell’XI secolo e il monarchismo pontificio riprenderanno, configurando una tradizione che solo il conciliarismo quattrocentesco (per una breve parentesi), il Concilio Vaticano II e, oggi, alcune scelte di papa Francesco hanno teso in qualche modo a limitare e a correggere. Così, se l’obiettivo polemico di Barbero è la storiografia, quello di Cardini sta nella visione parziale che amiamo dare della nostra storia – e di quella altrui. Entrambe sono operazioni encomiabili, entrambi libri importanti ben al di là dell’argomento trattato.

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