venerdì 13 maggio 2016

Estimatori delle rivoluzioni colorate e dell'astuto Quirico, che si fece rapire dai suoi amici

Esodo. Storia del nuovo millennioDomenico Quirico: Esodo, Neri Pozza

Risvolto
Questo libro è la cronaca dei viaggi fatti in compagnia dei migranti nei principali luoghi da cui partono, e in cui sostano o si riversano. In questo senso, è il racconto in presa diretta dell’Esodo che sta già mutando il mondo e la storia a venire. Una Grande Migrazione che ha inizio là dove parti intere del pianeta si svuotano di uomini, di rumori, di vita: negli squarci sterminati di Africa e di Medio Oriente, dove la sabbia già ricopre le strade e ne cancella il ricordo; nei paesi dove tutti quelli che possono mettersi in cammino partono e non restano che i vecchi.
Termina nel nostro mondo, dove file di uomini sbarcano da navi che sono già relitti o cercano di sfondare muri improvvisati, camminano, scalano montagne, hanno mappe che sono messaggi di parenti o amici che già vivono in quella che ai loro occhi è la meta agognata: l’Europa, il Paradiso mille volte immaginato.
In realtà, il Paradiso è soltanto l’albergo fatiscente di civiltà sfiancate e inerti, destinate, come sempre accade nella Storia, a essere prese d’assalto da turbini di uomini capaci di lasciarsi dietro il passato, l’identità, l’anima.
Da Melilla, l’enclave spagnola che si stende ai piedi del Gourougou, in Marocco – dodici, sonnolenti chilometri quadrati cinti da un Muro in cui l’Europa è, visivamente, morta – fino alla giungla di Sangatte, a Calais, dove la disperata fauna dei migranti macchia, agli occhi delle solerti autorità francesi, le rive della Manica con la sua corte dei miracoli, tutto l’Occidente, dai governanti ai sudditi, sembra ingenuamente credere di poter continuare a respirare l’aria di prima, di poter vivere sulla medesima terra di prima, mentre «il mondo è rotolato in modo invisibile, silenzioso, inavvertito, in tempi nuovi, come se fossero mutati l’atmosfera del pianeta, il suo ossigeno, il ritmo di combustione e tutte le molle degli orologi».
Cronaca itinerante dal centro del mondo che verrà 
SCAFFALE. «Esodo» di Domenico Quirico per Neri Pozza. Il libro verrà presentato domani al Lingotto di Torino 
Guido Caldiron Manifesto 13.5.2016, 0:04 
«Abbiamo passato vent’anni a fantasticare di come sarebbe stato il terzo millennio: le invenzioni, i robot, le malattie sconfitte, Marte colonizzato come se fosse un’isoletta esotica, la democrazia planetaria, la fine della Storia, l’arte come una sorta di infatuazione infantile, come quando i ragazzi fanno progetti per il tempo in cui saranno grandi. Ed eccolo, invece, il terzo millennio, è arrivato come forse mai nessun secolo arrivò così pieno di avvenire». E il suo nome è quello della Grande Migrazione che «forse cambierà il mondo, ma quando ce ne accorgeremo sarà già in noi. Sarà già in noi il popolo nuovo». 
Domenico Quirico non è soltanto uno dei più noti e stimati reporter italiani, un profondo conoscitore della realtà africana come di quella del Medio Oriente, un raffinato indagatore dell’animo umano che da tempo ha oltrepassato il confine, talvolta sempre più sottile, che separa il giornalismo dalla narrativa. Il cronista piemontese è anche un testimone, una di quelle voci in grado di segnalare per tempo un cambio d’epoca, uno scarto dalla realtà ordinaria capace di svolte storiche destinate a segnare in modo indelebile il futuro. Un talento che forse, oltre che alla lunghissima esperienza maturata sul campo, e sui numerosi fronti delle altrettanto numerose guerre che si combattono sulla sponda sud del Mediterraneo, Quirico deve alla capacità di provare la medesima empatia che suscitano le tragedie di massa, anche verso le sofferenze patite da un solo essere umano. Un radar emotivo che gli consente di leggere dentro i grandi eventi della Storia quasi si trattasse di vicende private: con la stessa attenzione e con le medesime precauzioni che si prendono nei confronti di quanti hanno già troppo sofferto. 
Così, dopo aver indagato negli ultimi anni le alterne vicende mediorientali con Primavera araba (Bollati Boringhieri), prima e Il Grande Califfato (Neri Pozza), poi, Quirico concentra ora la propria attenzione sulle migrazioni destinate a cambiare il volto del pianeta. Esodo, uscito per i tipi di Neri Pozza (pp. 176, euro 16,00) giusto alla vigilia del Salone di Torino, dove sarà presentato dall’autore, insieme a Giuseppe Russo, domani alle ore 13.30 presso la Sala Blu del Lingotto, è però molto più di un semplice reportage d’attualità. Lo si potrebbe definire una cronaca dal centro del mondo che verrà, tali sono le implicazioni e i cambiamenti che la migrazione in corso è destinata a portare con sé, e questo sia nei paesi di partenza che in quelli indicati come destinazione. 
Anche se il primo cambiamento, segnala Quirico, riguarda il modo stesso in cui una tale vicenda, e soprattutto i suoi protagonisti, possono e devono essere raccontati. «Quando si scrive di loro è impossibile ignorarne stato civile, mestiere, geografia. La Grande Migrazione comporta un mutamento obbligatorio di vita per il cronista, ma anche per il narratore, il sociologo o l’analista, che devono avventurarsi non più solo con la testa, ma con il corpo», spiega il giornalista che ha condiviso con i migranti un viaggio disperato dalle coste africane su di un barcone infine affondato al largo di Lampedusa. 
L’itinerario della ricerca parte per molti versi dai luoghi già esplorati di recente dall’autore, vale a dire laddove le promesse non mantenute delle annunciate primavere di libertà e democrazia dei paesi arabi, il perdurare di guerre sanguinose e di povertà altrettanto endemiche, la minaccia del sedicente Stato Islamico hanno reso le condizioni di vita insopportabili e il bisogno di partire non più procastinabile. Sono quelle parti intere di mondo, «squarci sterminati di Africa e Medio Oriente» che si svuotano così progressivamente «di uomini, di rumori, di vita». 
Da qui, insieme ai candidati al viaggio, Quirico si mette in cammino, ripercorre con loro le rotte verso l’Europa, gli itinerari della speranza e del sogno di una vita diversa che sempre più spesso si infrangono contro i muri, i recinti, le gabbie per esseri umani di Melilla, Sangatte, Calais, dell’Ungheria come della Macedonia. L’esodo si conclude nel Vecchio continente dove «file di uomini sbarcano da navi che sono già relitti o cercano di sfondare muri improvvisati, camminano, scalano montagne, hanno mappe che sono messaggi di parenti o amici che già vivono in quella che ai loro occhi è la meta agognata». Un processo che si ripete circolare, senza interruzione. Chi appare sconfitto è in realtà già pronto a riprovarci. 
In gioco non c’è soltanto il tramonto dell’Europa, che si fa «fiore carnivoro» di fronte ai migranti, ma un futuro comune, un orizzonte che, comunque vada questo viaggio ora, sembrano dire coloro il cui destino è incrociato dal reporter, non sarà mai più come prima, per chi nelle nostre città ci è cresciuto e per chi già ci si vede di qui a pochi anni, mesi, giorni. Per Domenico Quirico non ci sono dubbi al riguardo. «Abitanti di un mondo in declino, trepidiamo soltanto per la nostra ricchezza, proprio come i popoli vecchi, le civiltà al tramonto. E non ci accorgiamo che nelle nostre tiepide città, in cui coltiviamo la nostra artificiale solitudine, vi sono già alveari ronzanti, di rumore e di colore, di preghiera e furore. Il mondo di domani».

Sulla montagna di Gourougou dove Dio ha altro da fare Nell’estremo lembo settentrionale del Marocco, in vista di Melilla, tra i migranti più derelitti che tentano il passaggio in Europa e a volte restano qui per anni. Dal nuovo libro di Domenico Quirico Domenico Quirico Busiarda 9 5 2016
La foresta di Gourougou! Pronunciatelo il nome, fate scorrere le sillabe ritmate... Gourougou: sembra uscito dalle Mille e una notte, un nome sacro alle favole e agli idilli, che risuona di voci, di fatti misteriosi e di oscure magie. Una leggenda dice che in cima al monte hanno trovato un’antica ancora di nave: perché un tempo un’onda è arrivata fin lassù. Sì, in fondo sono venuto fin qui attratto dal nome, dall’incanto di un nome... Gourougou...
E invece... invece Gourougou non è un luogo di fate, è un terribile luogo di uomini, è veramente lo smemorato regno della tristezza e del dolore. Tutta la malinconia degli uomini del nostro tempo, i migranti, razza inquieta e infelice, si raccoglie in questo lembo di Marocco, in questa estrema regione dell’Africa, goccia a goccia, come acqua in terra cava.
Per queste alte terre deserte, dove le greggi abbandonate belano roche tra le agavi e le erbe, ho raccolto l’ennesimo filo della Grande Migrazione. Non una casa, non una capanna, non un viso di uomo per miglia e miglia, i villaggi e le città, Melilla e Nador, affondate giù nelle valli come in un’acqua cupa, balzano a galla ogni tanto, appena un raggio di sole percuote le pareti bianche. Qui tutto è aria, luce, erba, vento, roccia e acqua. Il riflesso del Mediterraneo spalanca sul monte cieli esangui. Ma l’alta, splendente malinconia di questa terra, ha il suo male segreto, gli «africani», i migranti.
Maledetto paradiso
Li chiamano proprio così, i marocchini, senza odio e senza rabbia: gli «africani», come se loro fossero altro e non figli della stessa patria, immensa. Un altro rivolo dell’Esodo si raggruma in questa terra vicina, troppo vicina al primo cielo d’Europa.
Mai come sulla montagna di Gourougou, in questi anni in cui inseguo i migranti, ho visto il contrasto profondo e duro. I migranti con la loro viva e rossa forza che batte loro nei polsi e l’Europa che è morta.
A Melilla, l’enclave spagnola che si stende ai piedi del monte, l’Europa è, infatti, visivamente morta. In questo anacronistico antemurale assediato, difeso da un Muro, noi europei siamo già stati smascherati, spogliati delle nostre seduzioni e dell’arroganza legata alle nostre realizzazioni. Qui possiamo toccare con mano quanto c’è di illusorio nei nostri sforzi e nelle nostre convulsioni.
Dalla montagna dove vivono in covili da bestie, ridotti ad affamato popolo delle selve, i migranti lo vedono, lo spiano, lo maledicono il loro ipotetico paradiso, è laggiù in fondo, un chilometro in linea d’aria, sdraiato davanti al mare: dodici chilometri quadrati, Melilla, la Spagna d’Africa. Dell’impero su cui non tramontava mai il sole, l’impero degli hidalgos e dei re cristianissimi, restano solo questi dodici, sonnolenti chilometri quadrati di case giallastre, come le città povere del nostro sud.
Ma per i migranti questa terra è d’oro, perché è già Unione europea, chi riesce a calpestarla è già in Europa. Niente viaggi mortali nel Mediterraneo crudele, niente passeur che chiedono migliaia di dollari. Si entra direttamente in paradiso, a Melilla. [...]
Le scimmie come cibo
La montagna di Gourougou sfuma quasi sul posto di frontiera. Ho faticato a trovarli, i migranti, arrampicandomi su per sentieri di pietra. Ma la polizia marocchina li bracca e si nascondono sempre più in alto, in gole sempre più impervie. Tutto questo versante spruzzato di polvere, di sole, di luce è ostruito da vegetazione selvaggia e vigorosa. Attraverso questo viluppo di pini ed eucalipti si incrociano, legandosi come maglie di catena, una moltitudine di piccoli sentieri polverosi che, visti dall’alto, somigliano a una grande rete stesa sul fianco del monte ad asciugare. Più giù, al di là delle linee delle case di Melilla, appare la tovaglia blu del mare.
Eccoli: un gruppo mi scende incontro, hanno in mano bottiglie di plastica, vanno a cercare l’acqua che sul monte non c’è. Hanno un aspetto di vergogna, di impudicizia senza scampo. È per me come rincontrarli ogni volta. Hanno dentro di loro la natura delle loro terre magre, le zolle scure e la sabbia dei deserti, le piste polverose, i greti bianchi nel sole tra gli argini alti di fiumi immensi, le acacie in fiore e i rovi. Questi sono i poveri dei poveri, hanno scelto questa via tra le tante perché non hanno i soldi per pagare il passaggio del deserto e della Libia verso il mare. Hanno camminato a piedi attraverso l’Algeria, lavorato a Tamanrasset e a Orano per pochi denari, e ora sono qui, sulla loro montagna, a centinaia, a migliaia. C’è tutta l’Africa dei derelitti, «ma viviamo insieme come fratelli, dividiamo il poco che abbiamo».
Le «tende» sono fatte di sacchetti di plastica, pezzi di cartone, stracci. Si odono strilli di bimbi e le voci pazienti delle madri. «Vieni, ti mostro la mia casa» insiste Youssef e sembra avere l’orgoglio con cui mi mostrerebbe una reggia. «Sai come la chiamo? Il bunker...». Scendono ogni mattina a Nador a chiedere la carità, per comprare un po’ di cibo, e rientrano con il buio come le bestie, nella loro tana. La notte è gelata sulla montagna e non hanno vestiti e coperte. C’è gente che è qui da due, tre, cinque anni... Il problema è il cibo: mangiare. Uccidono le scimmie e i cinghiali per sfamarsi. Posso offrire loro solo questo sollievo, essere qualcuno che ascolta. Chissà se nelle loro mitologie vi è un dio che non risponde, ma che forse sente, ascolta. Sarebbe già molto.
«Ogni tanto la polizia e i soldati si scomodano e salgono fin qui, vengono all’alba per sorprenderci quando dormiamo. Noi fuggiamo nel fitto della foresta e loro bruciano tutto, tende, coperte, telefonini... Bruciano il nostro niente».
La peggior colpa che abbiamo verso di loro è che li abbiamo plasmati e riplasmati, li abbiamo resi informi, e tali da non potersi più inserire in nessun altro destino. Chi oserebbe raccogliere queste anime sparpagliate, argilla confusa e screpolata, ovunque, da impronte di dita?
La barriera troppo alta
Parliamo della barriera, l’incubo, l’ossessione, le strategie per attraversare. Qualcuno ce l’ha fatta, i compagni lo mettevano in un sacco, lo facevano dondolare e poi cercavano di gettarlo al di là. C’è chi nella caduta non si è rotto testa e gambe, si è alzato ed è fuggito prima dell’arrivo dei poliziotti spagnoli. Ma ora la barriera è troppo alta e troppo larga. Possono provare di notte in due o tre, arrampicandosi.
«Io l’ho fatto una volta, ma sono rimasto bloccato tra i due reticolati. I poliziotti marocchini mi hanno bastonato fino a farmi sanguinare le orecchie».
Ogni tanto in centinaia danno l’assalto, soverchiano i poliziotti, e qualcuno riesce a scivolare via. Non resta allora che il mare, nuotare con l’aiuto di un copertone, ma l’acqua è gelata, la distanza infinita, e c’è chi muore.
Parliamo di Dio, ci sono cristiani e musulmani: «Guardaci! Forse Dio si occupa degli uomini solo quando non ha altro da fare... Il mestiere di Dio sono capaci tutti a farlo. Anche il Nulla è capace di essere Dio in questo modo». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

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