In un piccolo comune che di per sé conterebbe poco, la sintesi di una catastrofe nazionale. Quasi come a Nichelino, dove oltretutto - a maggior beffa - ha vinto un'altra lista di sinistra che però era autonoma [SGA].
lunedì 20 giugno 2016
Abbiamo vinto noi
Vinciamo quindi alla grande a Cagliari, dove
governiamo con i compagni di tante avventure, e a Napoli con il nuovo
amico Giggino. Ma anche a Roma, dove spazziamo via il PD dei poter
forti, e a Milano, dove uniti al PD arrestiamo il fascismo grillino e
quello berlusconiano in un colpo solo. A Bologna impediamo la
secessione. A Torino invece chiudiamo per sempre con il Novecento degli
apparati di partito e allo stesso tempo con Marchionne.
Strategia vincente, dunque. E senza quasi nemmeno presentarci alle elezioni.
Menzione di merito per San Benedetto del Tonto. Nonostante il sacrificio dei compagni di
Rifondazione - che in tutta coerenza si sono immolati per far vincere il
sindaco del PD una settimana dopo aver detto che questo partito è un
covo di bande - il centrosinistra è stato sconfitto.
Hanno perso la faccia, ma in compenso non hanno guadagnato neppure l'assessore.In un piccolo comune che di per sé conterebbe poco, la sintesi di una catastrofe nazionale. Quasi come a Nichelino, dove oltretutto - a maggior beffa - ha vinto un'altra lista di sinistra che però era autonoma [SGA].
Il retroscena. Dopo la sconfitta, secondo la minoranza, Renzi deve lasciare la carica di segretario
1di Giovanna Casadio Repubblica 20.6.16
ROMA.
«Renzi lasci la segreteria del Pd». La sinistra dem si prepara
all’attacco. Per la “ditta”, ovvero quella parte del partito che fa capo
a Bersani e Speranza, una sconfitta di questa portata alle
amministrative deve segnare una svolta vera. Di linea politica e di
gestione del partito. Non basta un restyling, come il premier-segretario
ha fatto già trapelare, prendendo atto di un partito in crisi profonda,
commissariato a Roma con Matteo Orfini, in Liguria con Davide Ermini,
in mezza Sicilia con Ernesto Carbone e tra poco a Napoli e in Veneto. Ma
per la minoranza non è sufficiente qualche ritocco all’organigramma.
«Il
Pd sta male, i risultati ne sono la conferma, si è rotto il rapporto
con il nostro elettorato». Roberto Speranza si limita a poche parole ma
ricorda l’analisi che la minoranza ha fatto da tempo. Sia Speranza che
l’ex segretario Bersani hanno detto e ribadiscono che il doppio ruolo di
segretario- premier ha “ammazzato” il Pd; che la rincorsa dei voti dei
moderati e le alleanza con Verdini sono state fallimentari e hanno fatto
perdere consensi. Il doppio ruolo che «non va bene».
Gianni
Cuperlo parla di «dato negativo» e di «forte preoccupazione». Dice:
«Giachetti va ringraziato per la generosità con cui si è battuto a
Roma», ma la sconfitta è cocente, termometro del disastro Capitale di
cui il Pd è stato protagonista. Aggiunge: «Alla luce di quanto è
accaduto, va ridiscusso l’Itali-cum». Una questione che Bersani ha posto
più volte: la legge elettorale va cambiata. Denuncia Miguel Gotor: «Il
doppio ruolo di segretario e di premier deve finire, così come la
stagione dei commissariamenti. A Roma ci vuole un congresso subito,
mentre il partito è stato “turchizzato” e va anticipato il congresso
nazionale. Inoltre le politiche sulla scuola e sul Jobs act hanno
contribuito a farci perdere consensi». Sono ore sul filo. La minoranza
prepara una convention: era prevista venerdì nella sala delle riunioni
al Nazareno. Ma l’appuntamento slitterà, perché Renzi ha convocato la
direzione del Pd.
«Non bastano gli aggiustamenti nella segreteria,
se è a questi che Renzi pensa»: riflette il bersaniano Nico Stumpo. Il
senatore Federico Fornaro mostra dati e raffronti. Dopo essere stato
attaccato da Renzi e difeso da Bersani, Fornaro documenta la crisi del
renzismo: rispetto alle comunali del 2011 il Pd ha perso il 4,3% pari a
oltre 200 mila voti in valore assoluto. Prese come campione le città
capoluogo, i candidati del centrosinistra hanno complessivamente
dissipato dieci punti e mezzo. Dell’apoteosi del centrosinistra a Roma,
Milano, Torino, Cagliari, Bologna, non ne resta traccia. Ancora. La
coalizione di Bersani “Italia bene comune” nel 2013 aveva ottenuto alle
politiche il 33,3% e il Pd di Renzi alle europee il 44%: che fine ha
fatto questo tesoretto?
A Napoli dove i dem hanno perso malamente
al primo turno con Valeria Valente, candidata della corrente dei
“giovani turchi”, dopo uno strascico di accuse sulle primarie taroccate,
è Antonio Bassolino, a commentare il ballottaggio tra De Magistris e
Lettieri: «A Napoli sulla scheda elettorale ci sono ben 22 simboli.
Manca quello del Pd, eppure è il partito al governo del paese, è stato
compiuto un vero e proprio delitto politico». Gelate continue nel Pd..
Tensione tra renziani e Massimo D’Alema che, all’uscita del seggio ieri,
smentisce di avere pensato di votare Virginia Raggi: «Ho votato come
sempre, come faccio da quando ero piccolo, secondo le indicazioni del
partito». Quindi Roberto Giachetti, il candidato renziano che non gli è
mai piaciuto. Però l’ex premier attacca di nuovo
Repubblica, che
aveva dato notizia della sua tentazione, e «le manovre di qualcuno
all’interno del partito». Clima di sospetti. D’Alema sposta il redde
rationem al referendum costituzionale di ottobre: lui è per il No.
Gotor: basta con il partito pigliatutto Pronti a collaborare se c’è più umiltà
di Daria Gorodisky Corriere 20.6.16
ROMA Miguel Gotor, ha visto? Il ballottaggio...
«Queste
elezioni dimostrano che la narrazione renziana “con me finalmente si
vince” non regge alla prova dei fatti. Noi della sinistra Pd lo abbiamo
detto da tempo, per non andare a scogli serve un cambio di rotta: non
prendiamo voti a destra, e li perdiamo a sinistra verso i 5 Stelle e
verso l’astensionismo».
Un prezzo alto dovuto a che cosa?
«C’è
un problema di identità e di prospettiva del partito. Il Pd è nato per
organizzare il campo del centrosinistra; non per aspirare a essere una
formazione pigliatutto, indistinta, fulcro di ogni trasformismo, con la
pretesa di occupare tutto il campo disarmando la sua natura di
centrosinistra: insomma il modello bulimico a trazione renziana».
Dunque il risultato è da mettere in conto a Renzi?
«A
Roma siamo arrivati al ballottaggio grazie all’aiutino di Berlusconi,
ma ora registriamo un distacco che equivale a un altro Comune perso.
Abbiamo sempre detto che il doppio incarico, segretario del partito e
presidente del Consiglio, non funziona. Sembriamo sempre più un partito
dell’ establishment , mentre la sinistra riformista deve essere più
popolare. Appariamo quelli della democrazia dell’autoscatto e del
narcisismo».
E l’azione di governo? Pagate anche quella?
«Paghiamo soprattutto le scelte su scuola e jobs act».
Però li avete votati anche voi della minoranza.
«Per
senso di responsabilità verso il governo, visto che era stata posta la
fiducia. Al Senato noi abbiamo appoggiato 50 fiducie, altro che remare
contro, ma il nostro dissenso è agli atti».
A Milano il Pd ha incassato una vittoria, ma risicata.
«Grazie
al buon governo di Pisapia siamo riusciti a tenere il centrosinistra
unito: proprio dove doveva nascere il Partito della nazione, la sinistra
è stata necessaria. È la conferma che non esistono pifferai magici.
Serve più umiltà. La democrazia del personaggio fa innamorare la
comunicazione, ma alla lunga stanca: due anni fa c’era la corsa a farsi
un selfie con Renzi, nei giorni scorsi per i nostri candidati era un
sollievo che fosse a Mosca».
La prossima tappa fondamentale sarà,
in autunno, il referendum costituzionale: per sostenerlo, resta la
vostra richiesta di cambiare l’Italicum?
«Resta e si rafforza. Ciò
detto, sono d’accordo con Renzi quando dice che gli italiani fanno
zapping politico. Questa battuta d’arresto non ha alcun rapporto con il
referendum o le future Politiche; però, attenzione: forse abbiamo un
problema di antenna».
Sembra che il «l’avevamo detto», il poter addebitare a Renzi questi risultati vi dia soddisfazione.
«Sarebbe
la soddisfazione dei fessi. Siamo sulla stessa barca. I segretari
passano e il Pd resta. Confidiamo che adesso il timoniere Renzi ascolti
di più e metta da parte il piglio dannunziano. Noi ci siamo con spirito
di collaborazione. Se però si vuole continuare con il lanciafiamme,
attenzione al ritorno di fiamma».
Pd La minoranza pronta alla sfida su doppio incarico e Italicum
di Alessandro Trocino Corriere 20.6.16
ROMA
Il gesto finale di Massimo D’Alema — «Ho votato come sempre nella mia
vita, da quando ero piccolo: secondo le indicazioni del mio partito» — è
tutto tranne che un calumet della pace. Ma l’annuncio del voto romano
di D’Alema per Giachetti, neanche nominato, arriva pochi minuti prima
della fine della tregua. Perché ancora non si sono chiuse le urne e già
la minoranza fa sentire la sua voce per testimoniare un disagio e
annunciare quel che sintetizza Federico Fornaro: «La luna di miele
renziana è finita, qualcosa si è rotto. È ora di dirci la verità».
La
voce della maggioranza arriva da una nota ufficiale del partito, che
parla di una «sconfitta netta e senza attenuanti» a Torino e Roma e di
una «vittoria chiara e forte a Milano». Ma segnala anche «l’amaro in
bocca per alcune sconfitte molto dure, da Novara a Trieste». Poi
un’analisi, che riecheggia la posizione dei giorni scorsi, sulla valenza
locale e non nazionale delle Amministrative. Con una novità: perché è
vero che si tratta di un dato «frastagliato» a livello territoriale, ma
emergono «anche alcune indicazioni nazionali» che saranno analizzate
nella Direzione già convocata per venerdì 24 giugno. Lorenzo Guerini,
vicesegretario, sintetizza: «Vinciamo in modo netto contro le destre, ma
con il M5S paghiamo dazio».
Il risultato più deludente è quello
di Roma, dove Virginia Raggi schiaccia Roberto Giachetti. Ettore Rosato
la vede così: «Il risultato di Roma è frutto di una campagna elettorale
difficile per Giachetti, che ha lavorato con grande generosità. Non so
quanti avrebbero scommesso su un ballottaggio. Dopo Mafia Capitale e
dopo la gestione Marino e Alemanno, c’è un disincanto dell’elettore
romano che voleva il cambiamento». Durissimo Roberto Morassut, sconfitto
alle primarie da Giachetti: «Ora serve un nuovo Pd. Si sciolgano le
consorterie correntizie che ostacolano l’ingresso di nuove forze e sono
un tappo mortale».
Diversa l’analisi di Gianni Cuperlo, che ieri
era al Nazareno: «Bisogna riflettere seriamente sul risultato. Il
problema non è solo Roma, dove Giachetti ha fatto una campagna
generosissima, per la quale va ringraziato». Su Torino altra
riflessione: «Si conferma il travaso di voti dalla destra ai 5 stelle. E
questo pone un problema con l’Italicum». Tesi che potrebbe non essere
respinta, come finora è stato, dalla maggioranza, visto che con questa
legge elettorale, e con questi consensi, i 5 Stelle potrebbero diventare
i favoriti alle Politiche. Cuperlo rivendica il risultato di Milano:
«Abbiamo difeso il perimetro del centrosinistra. È la conferma che
intorno a Sala abbiamo ricostruito una coalizione larga. Ora il tema è
ricostruire il centrosinistra a livello nazionale».
La minoranza,
dunque è già sul piede di guerra, anche se Cuperlo nega di voler
chiedere le dimissioni di Renzi dalla segreteria: «Assolutamente no, la
notte delle elezioni io do solo solidarietà al mio partito». Venerdì
Roberto Speranza ha convocato i suoi al Nazareno, mentre Cuperlo terrà
un incontro sabato a Bologna. Tra i temi più sentiti, lo stop al doppio
incarico e una modifica della legge elettorale, come precondizione per
non mettersi di traverso al referendum. Nessuna tentazione di scissioni o
simili: «Già la scelta del Nazareno per la riunione — spiega Fornaro — è
una risposta agli scenari apocalittici di fuoriuscite di massa». Il che
non vuol dire che il disagio non sia a livelli di guardia: «C’è una
forbice preoccupante tra realtà e narrazione. Certo trionfalismo fa a
pugni con una ripresa che stenta».
Napoli De Magistris vola Lettieri doppiato “Così facciamo la nostra Podemos”
CONCHITA SANNINO Repubblica 20.6.16
NAPOLI. Finisce
con un’invasione colorata e pacifica, in piena notte, di Palazzo San
Giacomo col primo cittadino portato in trionfo, a braccia sollevate. «È
una vittoria solo nostra. Sentirete molto parlare di Napoli. Abbiamo
vinto contro tutti, contro tutto il sistema. Nessun travaso di voti né
dai Cinque Stelle, né dal Pd. Questa è la vittoria del nostro modello:
fare la rivoluzione ma governando», sentenzia Luigi de Magistris. È
ormai l’una di notte quando, lasciata la sede di Agorà a pochi metri dal
Municipio, de Magistris si tuffa in strada, corre avanti e tutti gli
altri - assessori, consiglieri, ma soprattutto militanti e giovani - a
centinaia gli vanno dietro, sempre più svelti e euforici fino a quando
il portone verde del Comune si spalanca e celebra il trionfo del
sindaco.
Poco prima, tantissime le bandiere rosse che sventolano
nel cortile del municipio. Una folla radunata all’esterno attende che il
sindaco si affacci per un saluto. De Magistris non li delude ed esce
sul balcone indossando una maglietta azzurra del Napoli con dietro
stampato il numero 1.
«È una vittoria vostra, del popolo di
Napoli, Napoli è protagonista», incalza de Magistris, interrotto dai
cori spontanei dei sostenitori che cantano Bella ciao. « Non è un voto
di protesta. Siamo l’unica, vera ed effettiva novità politica di queste
elezioni amministrative - aggiunge - è un dato che ci riempie di
responsabilità, quello che abbiamo messo in campo va molto oltre
l’amministrazione di una città e ci godiamo questo risultato
straordinario. Farò il sindaco di Napoli h24 dal 2016 al 2021».
Inizia
così il secondo mandato dell’ex pm - fu leader di Idv, poi grillino,
oggi più semplicemente anti Renzi e anti sistema. Finisce con il 66,8
per cento di de Magistris contro il 33,2 dello sfidante - per la seconda
volta messo ko in cinque anni -Gianni Lettieri, l’imprenditore rimasto
in Comune, dopo la sconfitta del 2011 a fare l’opposizione nel sogno di
poterlo sconfiggere alla rivincita.
Per ausi un’ora il ‘popolo’ di
de Magistris occupa con cori e euforiche ola il cortile del palazzo
fino al quel ritornello identitario “Oje vita, oje vita mia, oje core ‘e
chistu core”, che gli cantano i fan, tratto dal celebre brano “O
surdato ‘nnamurato”.
Vince quindi il modello ‘Podemos’
rivendicato
dal sindaco e ribattezzato ‘I Napoletanos”. Ma nella notte del trionfo
del ‘movimento’ tutto napoletano vince - soprattutto e come mai prima -
il dato triste dell’astensione. L’affluenza difatti si ferma al 35,99
per cento. La sfiducia e la lacerazione col corpo elettorale tiene a
casa, lontano dalle urne, il 64 per cento dei cittadini chiamati al
voto. Ben 15 punti in più rispetto al popolo del non voto registrato nel
2011. Mentre quindici giorni fa, al primo turno, aveva votato il 54 per
cento. Significa comunque che de Magistris è confermato solo da un
quarto dei cittadini che dovevano esprimersi.
Considerazioni che
non scalfiscono la gioia della notte dei ‘Napoletanos’. Il tripudio e
l’invasione di Palazzo San Giacomo finisce con la consacrazione del suo
slogan ‘Scassamm’, urlato ormai da 5 anni. Cioè: rompiamo tutto. Intanto
il folto gruppo gli intona anche “Tanti auguri a te” urlato con almeno
mille voci, mentre spunta lo striscione “Doppi auguri grande Luigi”:
visto che la data del trionfo elettorale coincide anche con il
compleanno del sindaco.
È anche la città sul cui fondo restano le
macerie del Pd: puntualmente rimarcate ancora ieri, con un post su
Facebook, nel giorno dell’ultimo voto da Antonio Bassolino, l’ex sindaco
sconfitto alle primarie del marzo scorso dalla deputata Valeria Valente
che poi non è riuscita ad arrivare al ballottaggio. «Sulla scheda il
simbolo del Pd non c’è, un vero e proprio delitto politico».
De Magistris: “Vittoria contro M5S, Pd e FI”
L’ex pm festeggia riconferma e compleanno
di Grazia Longo La Stampa 20.6.16
Non
c’era partita e infatti, dopo 5 anni, Gianni Lettieri è stato
nuovamente sconfitto. La cronaca di una vittoria annunciata si consuma
al comitato «Dema» di Luigi De Magistris, tra brindisi all’Aglianico del
Sannio e taralli napoletani, poco distante dal Maschio Angioino.
Spumante a mezzanotte, invece, per il sindaco che nel quartiere generale
all’hotel Mediterraneo festeggia sia il successo, con quasi il 67 per
cento dei consensi, sia il compleanno. Dopo mezz’ora parla alle
telecamere: «La nostra è una vittoria del popolo, contro il Pd, contro i
grillini e contro Forza Italia».
Quarantanove anni proprio oggi e
lo sguardo già oltre i prossimi cinque alla guida di Napoli. Non è un
segreto, l’ex magistrato lo aveva già dichiarato pochi giorni prima del
ballottaggio: punta a un movimento politico nazionale d’intesa con il
M5S. Per ora, per bocca di Roberto Fico, i grillini gli hanno risposto
picche: «No grazie, con lui non c’è una capacità di rete e di
partecipazione».
Si vedrà, intanto è probabile che sul sindaco
siano confluiti anche i voti di una parte di grillini. Da parte sua, De
Magistris per ora dovrà proseguire ad amministrare una città che lotta
con le piaghe della camorra, della disoccupazione e della bassa
scolarizzazione. Una città dove comunque il primo partito è
l’astensionismo. Il 64 per cento non ha votato al ballottaggio
(l’affluenza alle urne è del 36 per cento contro il 54 del primo turno e
contro il 50,5 per cento del ballottaggio del 2011).
Ma De
Magistris ha più di una ragione per essere soddisfatto. «Ho asfaltato il
Pd di Renzi - insiste -. Queste amministrative sono un vero e proprio
test nazionale». Già in un comizio elettorale si era espresso nei
confronti del premier con un poco elegante: «Renzi ti devi c...are
sotto» e a quello di chiusura, (non venerdì 17, ma il giorno prima, per
pura scaramanzia) ha più volte urlato il suo slogan «Amma scassa’». Un
chiaro invito a rompere con gli schemi della politica di governo
nazionale. Non a caso tra le 12 liste civiche che lo hanno sostenuto si
annovera gran parte della sinistra antagonista ai Dem. A partire da
Sinistra Italiana (l’unione tra Sel e i fuoriusciti dal Pd che fanno
riferimento a Stefano Fassina), Verdi e Bene Comune, la galassia di
sigle postcomuniste. Una disfatta per il Pd. Come ha scritto su Facebook
l’ex due volte sindaco e altrettante governatore della Campania,
Antonio Bassolino, dopo aver votato: «A Napoli sulla scheda elettorale
ben 22 simboli. Manca il Pd, eppure è il partito al governo del Paese. È
stato compiuto un vero e proprio delitto politico».
Il messaggio nazionale dalle 5 capitali
di Gian Antonio Stella Corriere 20.6.16
«B
oh, si votava per Pizzighettone…», sbuffò un giorno Silvio Berlusconi
tentando di minimizzare una batosta alle amministrative. Matteo Renzi
no, non aveva tirato in ballo il borgo lombardo. Ma aveva battuto e
ribattuto per settimane sulla stessa tesi: «È solo un voto locale».
Vaglielo a spiegare ora, ai media internazionali e agli amici di
partito, il tracollo a Roma e la traumatica scoperta della svolta di
Torino.
Torino la più fedele. Conquistata da un’altra giovane
donna grillina. Sa bene, il premier, che c’è sconfitta e sconfitta. E
che il voto «locale» ha già segnato la sorte di vari governi.
Quando
l’allora Cavaliere fece quella battuta su «Pisighitòn» dopo la tornata
della primavera ‘95 spiegando che si trattava di «elezioni che non
contano» e che «i moderati si sa come son fatti, non brillano per
affezione al voto quando ci sono in discussione cose che non riguardano
il destino del Paese», spacciava una realtà irreale: le elezioni avevano
coinvolto 15 regioni, 75 consigli provinciali e 5.119 comuni (di cui 44
capoluoghi) per un totale di 43 milioni di elettori. Difficili da
liquidare come un «sondaggio».
Anche stavolta, però, non era in
ballo questo o quel paesello. C’erano addirittura cinque capitali che
per la prima volta votavano insieme: la capitale politica, la capitale
economica, la capitale originaria e fondatrice, la capitale del Sud e la
storica capitale di quello che era il «Paese rosso». Tutte cinque
reduci da gestioni (buone, stiracchiate, disastrose) più o meno rosse o
rossissime. Due su cinque, stando ai primi dati, perdute nella notte. E
lì era il senso politico, squisitamente politico, del passaggio
elettorale. «O con me o contro di me», era stato il messaggio. La
risposta: contro.
Piaccia o no al gagliardo ex sindaco di Firenze e
ai compagni di partito più o meno fedeli che da settimane intonavano il
coro (da Luca Lotti a Vannino Chiti fino a Nicola Latorre: «Il
tentativo di trasformare il voto in un referendum sul governo appare
maldestro») è sempre andata così: chi sta a Palazzo Chigi sdrammatizza,
chi sta all’opposizione dà fuoco alle micce. Ma perché le elezioni
«locali» siano davvero locali occorre vincerle. Se si perdono, è proprio
un guaio grosso.
Lo imparò a sue spese sedici anni fa, per un
piccolo paradosso della storia, quello che oggi è il peggior avversario
interno di Renzi, Massimo D’Alema. Entrato lui pure nella stanza dei
bottoni senza l’investitura del voto popolare. Sfangata la sconfitta
alle europee del ‘99 dove il partito era rimasto 7 punti sotto Forza
Italia («Nei Paesi europei il parlamento viene eletto con “legislative”.
Le europee servono per il parlamento europeo. Si sa», aveva sentenziato
l’allora premier) il «Lìder Massimo» andò alle regionali del 2000
piuttosto baldanzoso: «Ritengo che il centrosinistra prevarrà abbastanza
largamente». Aggiunse tagliente che la destra aveva «disprezzo per le
regioni e i cittadini che non sono carne da sondaggi» e che in
Inghilterra «chi sta al governo perde regolarmente le comunali» ma «non
viene in mente a nessuno che il governo se ne debba andare». La sinistra
perse Liguria, Lazio, Abruzzo e Calabria, i Ds tirarono su solo un
milione di voti più di An e lui, mentre gli ultimi irriducibili come
Lapo Pistelli protestavano che «non c’è automatismo tra i risultati
delle regionali, la tenuta del governo e le elezioni anticipate», gettò
la spugna.
Lo stesso Silvio Berlusconi, che maramaldeggiava in
quei giorni spiegando che «se un Paese democratico sfiducia il governo,
si vota», avrebbe saggiato presto quanto il voto «non politico» possa
essere politico. Incassate le sconfitte alle amministrative 2002 («È
ridicolo e patetico che esponenti del centrodestra si affannino a
parlare di voto locale: la nostra vittoria è inequivocabile», diceva
Piero Fassino), alle regionali friulane 2003 («È una sconfitta politica
che apre una riflessione nel governo», sibilava D’Alema), alle
suppletive e alle europee 2004 (4.085.683 voti persi da Forza Italia col
fondatore che faceva spallucce: «non è poi una flessione così
rilevante»), le regionali del 2005 (perdute 12-2) furono fatali. «Non
sono state un referendum sul governo», si precipitò a dire Enrico La
Loggia. Pochi giorni dopo, però, il premier era costretto a dimettersi.
Per formare un nuovo esecutivo. Addio record…
E così è andata
avanti per anni. Con ogni elezione «locale» che assumeva valore
nazionale. Le comunali della primavera 2005 a Catania che interruppero
la serie nera forzista e quelle d’autunno a Messina che anticiparono la
sconfitta nel 2006. E poi, a parti rovesciate, le amministrative 2007
con Berlusconi che incitava a «politicizzarle al massimo: trasformarle
da voto locale a voto politico» contro il governo dell’odiato Prodi che
l’aveva battuto d’un soffio l’anno prima e D’Alema che avvertiva: «non
si vota per il governo e checché se ne dica il governo andrà avanti per
la sua strada per altri 4 anni». E poi ancora, a parti di nuovo
ribaltate, le comunali del 2011 col Cavaliere che, pochi mesi prima
d’essere sfrattato, spingeva a votare contro Pisapia perché ciò era
«fondamentale per dar sostegno al governo del Paese» e Bersani che gli
rovesciava tutto addosso: «Vinciamo noi e perdono loro, la sfida
lanciata da Berlusconi si è rivelata un boomerang». E via così. Potremmo
andare avanti per ore. E potete scommettere che stanotte, a vedere i
primi exit poll, Matteo Renzi ha capito quanto il «voto locale» potesse
rovesciargli addosso una grandinata di nuovi problemi …
Gli errori e le insidie
di Massimo Franco Corriere 20.6.16
Sarà
difficile minimizzare quanto è successo ieri nelle maggiori città
italiane. E ancora di più catalogare come voto amministrativo
ballottaggi che spediscono al governo nazionale un segnale univoco. Per
mutuare il verbo crudo scelto da Matteo Renzi all’inizio della sua
esperienza, l’elettorato ha «rottamato» il Pd a Roma e Torino, premiando
le due candidate del Movimento 5 stelle, Virginia Raggi e Chiara
Appendino; e fino a notte fonda ha tenuto in bilico la vittoria a Milano
di Giuseppe Sala su Stefano Parisi del centrodestra. Il capoluogo
lombardo è l’unica soddisfazione, e non da poco, per Palazzo Chigi. Gli
consente di tirare un sospiro di sollievo, come a Bologna. Relativo,
però. Né basterebbe prendersela con gli avversari interni: le diatribe
tra i Democratici interessano poco, ormai.
La sconfitta della
sinistra di governo pone un problema di sistema, perché l’alternativa in
incubazione ha il profilo di Beppe Grillo. Il rischio, adesso, è di
gettare l’esecutivo in un limbo di paura e di logoramento che il vertice
del Pd dovrà affrontare anche psicologicamente. Va ribadito che non si
vede una maggioranza diversa dall’attuale per guidare l’Italia. Ieri,
tuttavia, si è aperta una stagione che cancella qualunque illusione di
primato e di posizione di rendita.
A l punto che viene da
chiedersi se il Pd riuscirà a prevalere nel referendum di ottobre sulle
riforme istituzionali: quello su cui punta tutto.
Se non cambia la
strategia, c’è da dubitarne. Il flop delle Amministrative non avviene
per la bontà delle proposte avversarie. È figlio di errori di
sottovalutazione e di un filo di presunzione. Non è esagerato dire che
probabilmente, qualunque candidato del M5S avrebbe dato filo da torcere a
Pd e centrodestra. E non solo perché il movimento di Grillo è una
«macchina da ballottaggi» capace di pescare consensi dovunque. La sua
affermazione si alimenta del fallimento delle forze tradizionali: è il
sintomo della delusione verso i partiti tradizionali, e di tensioni
sociali irrisolte.
Per Renzi lo schiaffo è più doloroso, perché
respinge la sua narrativa ottimistica e getta ombre sul referendum. Due
anni e mezzo di segreteria del Pd e oltre due di presidenza del
Consiglio dovevano consacrarlo come il leader capace di riplasmare la
sinistra e porsi come nuovo baricentro della politica. Il mandato era di
fermare Grillo e di far ripartire l’economia attraverso le riforme.
Alcune riforme ci sono, eppure i loro effetti tardano a vedersi. Già
emergono, invece, i contraccolpi negativi. Il M5S ha espugnato
facilmente il Campidoglio, sospinto da un consenso popolare gonfiatosi
sulle macerie del Pd e del centrodestra capitolini.
E a Milano è
bastato un candidato moderato come Parisi per mettere in forse fino
all’ultimo la vittoria di Sala. Quanto a Napoli, cuore del Sud, i Dem
non sono arrivati nemmeno al ballottaggio. Insomma, abbiamo alcune delle
«capitali» d’Italia non governate dal Pd. E lo schema del partito che
si percepisce così forte da ritenersi autosufficiente deve fare i conti
con ballottaggi dispettosi. I risultati confermano che nessuno si può
permettere l’autarchia. Sono necessarie alleanze. Gli unici a
prescinderne in nome di una controversa purezza sono i grillini: almeno
ufficialmente.
Bisogna prendere atto che al secondo turno si
formano coalizioni di fatto, micidiali per chi ne è escluso. Si tratta
di una verità che potrebbe portare a una modifica dell’Italicum,
ritenuto dal premier un tabù intoccabile. Bisognerebbe aspettarsi un
ripensamento dell’agenda del governo, e del modo in cui il premier ha
svolto il suo doppio incarico. L’insuccesso, tuttavia, non può essere
scaricato solo su di lui. I limiti di leadership si abbinano
all’incapacità dell’intero Pd di trasmettere al Paese un messaggio di
unità e di credibilità.
Gli elettori hanno tolto a Renzi l’aureola
della grande vittoria del Pd alle Europee del 2014. Ma c’è poco da
rallegrarsi. La fase che si apre presenta molte insidie. Non c’è un
dopo-Renzi in vista. C’è un partito-perno che di colpo si ritrova
indebolito e magari tentato dalla caccia ai capri espiatori: tutte
premesse di un periodo di confusione. Bisogna sperare che, messo di
fronte alla responsabilità di governare, il M5S scelga un profilo meno
estremista; e riesca a battere le diffidenze verso la sua classe
dirigente magari onesta ma inesperta e manichea: anche perché il
tripolarismo sta diventando sfida Pd-M5S. Con la Lega ridimensionata
nelle ambizioni, e l’astensione come convitata di pietra.
La rivincita delle periferie nella città che ha cambiato pelle
L’onda
dei 5 Stelle ha spezzato il patto tra sinistra e borghesia Gli
imprenditori: “Chi vota sa cosa vuole, non siamo spaventati”
di Andrea Rossi La Stampa 20.6.16
E
così la periferia (non solo geografica) si è mangiata il centro. S’è
fatta onda, rivalsa, orgoglio, anche rivolta. L’ha travolto e con lui ha
spazzato via il «sistema», quel patto tra capitale, grande borghesia
cittadina e gli eredi del Pci che ha governato Torino negli ultimi
ventitré anni. Trasformandola: sapere, turismo, cultura. La rivoluzione
suona come un risveglio improvviso: una parte consistente di città si è
sentita tagliata fuori da due decenni di travolgente cambiamento, ha
visto approdare opportunità e investimenti ma sente di non averne
sperimentato i benefici. Soprattutto - ed è la chiave del ribaltone - ha
smesso di credere che un domani non molto lontano avrebbe fatto parte
di questo cambiamento. E ha deciso di fare da sé: Fassino ha stravinto
nel centro storico (59 a 41), ma solo lì; la periferia, specie a Nord,
l’ha sommerso: 64,5% a 35,5 per Appendino nella quinta circoscrizione,
Vallette e Borgo Vittoria; 63% a 37 nella sesta, Barriera di Milano.
«Poveri dimenticati»
Don
Adelino Montanelli, il parroco di Falchera, l’ultimo avamposto Nord di
Torino, ha visto nascere e prendere corpo questo sentimento. «La povera
gente si è sentita dimenticata. Quando è arrivata la crisi siamo stati
travolti. Tutti chiedevano una mano, ma qui le risorse sono poche, la
povertà rosicchia la pelle. Ho visto cinquantenni trasferirsi, con i
figli, a casa dei genitori anziani».
Mentre si moltiplicavano le
code fuori dai musei e i turisti sfondavano il muro dei 4 milioni -
quasi quanto gli abitanti dell’intero Piemonte - esplodevano gli sfratti
per morosità, da 1500 a 4600 l’anno in un quinquennio. Così sono nati i
palazzoni sventrati e le occupazioni. Così un simbolo delle Olimpiadi,
l’ex villaggio atleti al Lingotto, è stato invaso da un migliaio di
profughi, umanità sbarcata sulle coste e parcheggiata in attesa di
futuro. Quei caseggiati sbrecciati sono diventati una cartolina: del
lato oscuro delle Olimpiadi, della faglia sociale che si è aperta in
città, meta di proteste e speculazioni, così come, sull’altra sponda
della città, i campi nomadi abusivi. Dramma umanitario e incubo per i
residenti, stremati da degrado e microcriminalità.
Il vento ha
cominciato a soffiare. Alle politiche del 2013, nei quartieri in
difficoltà, Pd e Cinque Stelle viaggiavano quasi appaiati. Ora, al primo
turno, Fassino ha superato il 50% solo nel centro storico. Un segnale:
l’ultimo segretario dell’ex partito comunista che arranca nei quartieri
popolari, costretto a fare affidamento su quel pezzo di città che più ha
beneficiato della mutazione di Torino. Quel centro dove si fa la coda
fuori dai musei; la Crocetta del Politecnico e della Compagnia di San
Paolo, dove siede Francesco Profumo, che da rettore voleva candidarsi a
sindaco ma si fece da parte per lasciare campo libero a Fassino, il
quale poi l’ha voluto alla guida di Iren e della Compagnia. Una
fotografia del «sistema»: virtuoso per tanti, detestato da molti.
La mappa del potere
Un
patto che ha pochi precedenti tra classi dirigenti - politica, finanza,
impresa, università, cultura - disposte a collaborare per dare
un’impronta alla città. Cinque anni fa molti volti di questo mondo erano
seduti in prima fila mentre Piero Fassino annunciava la sua
candidatura. C’erano Enrico Salza, il papà di quel patto, l’allora
presidente della Compagnia Benessia, il Sovrintendente del Regio
Vergnano, il prorettore dell’Università, Evelina Christillin, l’allora
presidente degli industriali. Non c’era Marco Boglione, imprenditore,
fondatore della BasicNet, spesso corteggiato ma sempre e volutamente ai
margini. «In questi giorni mi chiedevano se ero spaventato. Non lo sono.
Questa è una città che sa che cosa vuole. L’ha fatto vent’anni fa,
interrogando la sua crisi e progettando, con successo, la propria
vocazione in un mondo diverso. L’ha fatto oggi: ha avvertito nuove
esigenze e ha pensato che una forza nuova potesse affrontarle con piglio
diverso».
Il «sistema» si è liquefatto. Fassino è stato lasciato
solo quando la battaglia si è fatta dura. Intorno a lui prendeva corpo
la narrazione delle due città, già emersa in studi, ricerche e negli
allarmi del vescovo Nosiglia: la Torino che sfavilla e quella che
soffre. Ma anche la Torino che cerca di conservare meccanismi, grumi di
potere e alleanze contro quella che finora si è sentita tagliata fuori.
Chiara Appendino non è stata la prima a rivolgersi agli esclusi. Però è
stata la prima a ricevere una risposta.
La rottamazione grillina che batte il renzismo
La dorsale del disagio che colpisce Renzi
di Stefano Folli Repubblica 20.6.16
STAMANE
la vittoria dei Cinque Stelle a Roma sarà su tutti i siti web e sulle
prime pagine di tutti i giornali del mondo. È una vittoria prevista ma
clamorosa, anche nelle proporzioni. La capitale d’Italia verrà
amministrata da una forza che pretende di essere un movimento e non un
partito e che esiste da pochi anni. Beppe Grillo, assente durante la
campagna, è piombato nella notte ad abbracciare Virginia Raggi e forse a
sovrapporsi a lei. Quello che accadrà è un enigma avvolto in un rebus,
ma i Cinque Stelle hanno vinto con un colpo di scena anche a Torino, il
che raddoppia la loro responsabilità. Hanno gli occhi del mondo addosso e
sono di fronte al passaggio cruciale della loro breve esistenza. Se
intendono diventare qualcosa di diverso dal fenomeno protestatario e un
po’ folkloristico che sono stati fin qui, salvo poche eccezioni, da oggi
non dovranno sbagliare. Sapendo che le scelte possono essere impopolari
e richiedono la capacità di riunire una classe dirigente.
SEGUE A PAGINA 37
DI
SICURO sono scelte che turbano il raccontino manicheo dei buoni contro i
cattivi. Per Matteo Renzi e il suo partito il risultato è molto
negativo. È soprattutto un pessimo risultato per il “renzismo” inteso
come ambizioso disegno volto a rimodellare l’Italia definendo i contorni
di un partito personale costruito sul carisma del leader. Perdere Roma è
grave, ma per mille ragioni inevitabile. Perderla con uno scarto
percentuale così significativo è spiacevole, dimostra che Giachetti è
stato un candidato dignitoso ma debole e fuori contesto. Tuttavia ciò
che rende grave la sconfitta e apre un capitolo carico di incognite nel
centrosinistra è la parallela caduta al Nord.
Fassino, uno dei
fondatori del Pd, era in vantaggio di circa undici punti al primo turno e
nonostante questo Torino ha da oggi un sindaco a Cinque Stelle. Torino,
non solo Roma. La Capitale sconta un dissesto amministrativo di anni,
il capoluogo del Piemonte è un’altra storia. Fassino ha adempiuto ai
doveri del suo mandato con esperienza e serietà, come dimostra la realtà
di una città ben gestita e sotto questo profilo non paragonabile a
Roma. Eppure l’esito del voto è il medesimo al Nord come al Centro:
vince l’alternativa “grillina” con le sue ricette vaghe, i mille No e le
prospettive di “decrescita felice”. E se mettiamo nel canestro anche
Napoli, dove De Magistris è stato confermato senza problemi, abbiamo una
dorsale dell’anti-politica, della protesta e del malessere sociale che
abbraccia mondi lontani e diversi da Nord a Sud, uniti da un senso di
insofferenza e di rivolta contro il vecchio assetto. E infatti De
Magistris, che non é “grillino”, ha assorbito e riproposto molti dei
temi populisti cari ai Cinque Stelle. I quali sotto il Vesuvio quasi non
esistono, mentre il Pd — come è noto — è completamente scomparso dalla
contesa.
Quanto a Milano, Sala ha prevalso di misura. Nonostante
questo, nessuno può davvero pensare che dal laboratorio milanese sia
uscita la ricetta vincente per dimenticare Roma, Torino e Napoli. È un
dato che rende meno drammatica la notte del Pd, ma non basta a costruire
un’ipotesi rassicurante: troppo poco per riconciliare il centrosinistra
con il suo elettorato, tanto meno per individuare le coordinate del
famoso “partito di Renzi” su cui il premier ha puntato le sue carte a
partire dalle elezioni europee del 2014. Così come non è sufficiente il
successo di Merola a Bologna, terreno tradizionalmente favorevole, a
garantire sullo stato di salute del Pd. Perché queste elezioni, pur
nella diversità dei luoghi e delle situazioni, dimostrano che il Partito
Democratico ha bisogno di essere ripensato dalle radici.
Travolto
dai Cinque Stelle a Roma e a Torino, inesistente a Napoli, perdente a
Trieste, vittorioso alla fine a Milano (e vedremo poi le altre piazze,
alcune — come Varese — positive per il Pd). Un bilancio abbastanza
misero per alimentare le prospettive renziane, il sogno del partito “di
sistema” capace di tenersi l’ala sinistra e al tempo stesso di sfondare,
novello Tony Blair, verso il centrodestra. Questo scenario non si è
verificato e se Renzi conserverà Milano lo deve alla lealtà di Pisapia,
che ha permesso di incollare a Sala buona parte dei voti di sinistra.
Il
Pd ha bisogno di una rifondazione ideale e di un modo meno aspro di
intendere la leadership. Il che non significa una trattativa di basso
livello con la minoranza bersaniana. Ovvio che il premier-segretario
deve attendersi qualche atto poco amichevole da parte di quel segmento
del partito che è stato trattato con malcelato disprezzo negli ultimi
due anni. Ma la rifondazione ideale presuppone un orizzonte assai più
ampio. Temi, prospettive, ricerca di un nuovo rapporto con la base
sociale e gli elettori; un rinnovamento che non sia solo la resa dei
conti con gli avversari interni per promuovere il proprio gruppo di
potere... c’è solo da cominciare. Il congresso del Pd potrà essere
l’occasione propizia per segnare il cambio di passo, alla ricerca di un
più equilibrato assetto interno. Ma nulla sarà possibile senza idee e
suggestioni calate nel solco del riformismo europeo, fondate su una
visione non solo propagandistica dell’Italia di oggi e del suo disagio,
sullo sfondo di una ripresa economica troppo fragile e di ingiustizie
percepite come intollerabili.
Il governo non corre rischi. Ma
sarebbe grave se l’analisi si limitasse a tale considerazione. Questa
volta è indispensabile un bagno nel realismo. A lungo, il premier si è
protetto dietro uno scudo: l’assenza di alternative. Un centrodestra
berlusconiano troppo debole e diviso fra moderati e “lepenisti” alla
Salvini. E un movimento Cinque Stelle chiassoso ma immaturo e poco
credibile come forza di governo. In parte è ancora così, ma sempre meno.
Le elezioni comunali dimostrano che una forma di alternativa prende
forma nelle città. Sarà incapace di esprimere, come si usa dire, una
cultura di governo? Vedremo. La storia insegna che le alternative
politiche con il tempo si creano sempre, per cui è pericoloso cullarsi
nelle illusioni. Da stanotte anche il referendum costituzionale di
ottobre diventa un’insidia da non sottovalutare. Non c’è un nesso
diretto fra il voto amministrativo e la consultazione sulla riforma,
salvo uno: la popolarità di Renzi è in calo insieme alle fortune del suo
Pd. Per cui una certa retorica del rinnovamento, con il vezzo di
dividere gli italiani fra riformisti e conservatori, rischia di essere
irritante e poco utile. Anche rispetto alla strategia referendaria sarà
opportuna una riflessione.
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