mercoledì 29 giugno 2016

La Nuova Scuola porta sul proprio terreno il dibattito su Heidegger e dà scacco matto. Il libro di Nancy e l'orgoglioso heideggerismo della sinistra postmoderna


Banalità di HeideggerJean-Luc Nancy: Banalità di Heidegger, Cronopio 

Risvolto
Non basta condannare l'ignominia dell'antisemitismo: bisogna metterne in luce le radici - e questo può significare solo intervenire al cuore della nostra cultura. Non basta condannare l'estrema violenza con la quale immoliamo popoli, e anche categorie, classi e ceti sociali: bisogna domandarsi quale oscura risorsa sacrificale operi in questo modo e in vista di quale "sacro" completamente sprovvisto di sacralità (di simbolicità, se si preferisce). Non basta guardare attoniti a una storia che ci pare correre verso la propria rovina: bisogna imparare a rompere con il modello che questa storia si è dato, quello di un progresso in una conquista del mondo da parte dell'uomo e dell'uomo da parte delle proprie finalità esponenziali.


Il congedo magistrale 
NOVECENTO. Un’anticipazione tratta dal nuovo libro di Jean-Luc Nancy, «Banalità di Heidegger», edito da Cronopio in libreria da domani. La questione dell’antisemitismo non lascia dubbi: c’è un legame insostenibile con il pensiero e con il suo impianto
Jean-Luc Nancy Manifesto 29.6.2016, 0:05 
La sfida della lettura di Heidegger, e soprattutto dei suoi testi più esposti alla condanna o all’anatema, è quella di condurci ancora una volta, ma con una potenza tutta particolare, di fronte all’esigenza di interrogare ciò che, con «il mondo moderno», è accaduto al mondo – e al mondo in quanto tale, al mondo, cioè, come presunta configurazione di una o più possibilità di costituire, ricevere e condividere senso (qualunque cosa s’intenda con questo termine). Ed è stato proprio Heidegger che ha operato la prima metamorfosi della questione filosofica del senso, definendola come la questione del «senso dell’essere». Che il suo modo di porre la questione l’abbia condotto, non verso il nazismo come «visione del mondo» (espressione che rifiuta per motivi filosofici), bensì verso qualcosa che si può caratterizzare come «archi-fascismo», secondo un’espressione di Lacoue-Labarthe, o come una specie di rivelazione iperbolica di una verità dell’essere destinale e «in popolo» (uso la parola «rivelazione» con un’intenzione che preciserò più avanti) – ecco ciò che merita di essere analizzato da vicino, di essere smontato e sconfessato. Ma che si sia trattato di un gesto filosofico, è innegabile. 
Questo non fa che rendere ancora più drammatiche le questioni che i suoi Quaderni ci mettono di fronte senza ambiguità. È evidente innanzitutto che la definizione di «antisemitismo storico-universale» è pienamente giustificata. Essa riassume ciò di cui la frase che abbiamo citato costituisce il primo nucleo: il popolo ebraico, in quanto tale, svolge un ruolo determinante, per non dire primordiale, nello «sradicamento dell’essere». Abbandonato a se stesso – «totalmente liberato» o «affrancato» – questo popolo si rivela particolarmente appropriato e dedito al compito dello sradicamento. È l’attore privilegiato del tramonto dell’Occidente o perlomeno ne presenta la figura più caratteristica. 
Sorge una prima domanda: perché mai un movimento così ampio come quello che s’incarna contemporaneamente nell’americanismo, nel bolscevismo, nella democrazia, nella tecnica, nella razionalità e nell’oggettività deve fare ricorso a una figura particolare – se è vero che non sono tutti ebrei gli attori di questa storia catastrofica? Questa necessità risponde al principio secondo il quale è necessario un popolo per mettere in opera ogni disposizione decisiva della storia-destino, la quale non è un semplice processo, ma un impegno, una decisione presa e ripresa sotto forma di figure determinate e dai portatori di tali figure. Questa necessità prende qui una piega molto precisa e singolare: il popolo ebraico fa appello per se stesso a un principio razziale. Un tale principio proviene anch’esso da una «sottomissione della vita alla macchinazione». Ora la macchinazione che fa sorgere un tale principio naturalista conduce in direzione della «de-razzializzazione» (Entrassung) integrale di un’umanità ridotta all’uguaglianza indifferenziata di tutti gli enti. 
È interessante notare che l’argomento non è molto lontano da quello usato da Marx per definire il denaro come «equivalente generale», nel quale viene alienata e livellata tutta l’umanità produttrice della propria esistenza e dunque del proprio valore o senso. Questo parallelismo nella percezione di un livellamento e di un’indifferenziazione si accompagna a un parallelismo di natura molto diversa: quello di una classe destinata a rovesciare i rapporti di classe e quello di un popolo destinato ad annullare le distinzioni di razza. Ciò che è comune a queste due prospettive è il ricorso a un’istanza determinata e privilegiata – di un privilegio che ogni volta si avvale della sua negatività: il proletariato e il popolo ebraico sono esclusi entrambi dall’umanità. 
Opinioni e confusioni 
Sono entrambi dotati di un’identità tutta negativa e/o negatrice. Ciò che questo parallelismo, di cui non pretendo di approfondire l’analisi, suggerisce è un certo regime escatologico e figurale del pensiero: si avvicina una fine – una fine, quindi anche un inizio – e questo avvenimento richiede una figura, l’identificazione della forza annientatrice. Per Heidegger – che in questo caso non fa che confermare un topos che data almeno dal Rinascimento – il primo inizio è greco. La fortuna (Glück) dei Greci è stata quella di aver osato «determinarsi a partire dall’essere». Ed è per questo motivo che i Greci sono stati un popolo, il popolo dell’inizio. Va notato che questa singolarità greca appare sola, priva di ogni rapporto con l’ambiente storico, mentre la storia che si apre a partire da quel momento si presenta subito, se non come cosmopolita, almeno come mescolanza e volgarità, di cui Roma fornisce la prima figura («dispotismo dell’opinione e confusione [Mischmasch]»), e che in seguito non faranno che aumentare. L’inizio si fa attraverso un popolo (nel senso forte del termine) e il declino attraverso la mescolanza, la confusione e l’indistinzione dei popoli in un’umanità che non pone abbastanza in alto l’humanitas dell’uomo come affermerà la Lettera sull’umanismo. 
Il precipitarsi del declino che precede e annuncia la venuta dell’altro inizio si segnala, invece, mediante una figura – un popolo? Forse, ma allo stesso tempo anche il rovesciamento o addirittura la caricatura di un popolo – che concentra in sé i tratti e le disposizioni del declino. Da dove Heidegger prende questa figura? Semplicemente dal più banale, volgare, triviale e torbido discorso che da molto tempo vaga per l’Europa e da una trentina d’anni si avvale della miserabile pubblicazione dei Protocolli dei Savi di Sion. 
La prossimità fra i discorsi di Heidegger e quel testo (il tema del calcolo, della democrazia, della manipolazione, dell’internazionalismo) non lascia dubbi. E non occorre nemmeno indagare se Heidegger abbia o meno letto quel falso grossolano e grottesco, la cui esistenza era semplicemente l’effetto e il riflesso di un’opinione ampiamente diffusa, accolta dappertutto e con sempre maggior interesse, via via che crescevano in Europa le ragioni di quel «disagio» di cui Freud aveva parlato nel 1930. 
Già dal 1921 era stata riconosciuta la falsità dei Protocolli: nel mondo universitario e colto lo si poteva sapere. Nel 1940 restare vicini ai discorsi di quel testo, senza citarlo direttamente ma senza neanche prenderne le distanze, non poteva essere un caso. Heidegger sa bene quello che fa. Raccoglie la spazzatura banale per fini superiori. E questo vuol dire anche riconoscere una verità superiore dell’antisemitismo. Una verità talmente superiore da non poter diventare pubblica senza essere associata alle critiche al nazismo e al cristianesimo (diverse, certo, ma congiunte), di cui abbonda il testo delle Überlegungen che resta perciò privato e riservato a una pubblicazione lontana. Questa verità superiore è quella di cui ho appena tratteggiato lo schema. Tale schema merita di appoggiarsi sulla volgarità più diffusa, più odiosa e ottusa, perché tale volgarità dice a modo suo la verità dell’essere-ebreo, dello Judentum, entità e identità ben individuabili del precipitare del mondo nella volgarità, appunto, e in tutti i sensi del termine. 
Del rifiuto di sé 
Si potrebbe dire che Heidegger condivide la banalità di uno spirito pubblico per il quale gli ebrei incarnano un’insaziabile banalizzazione del mondo – la perdita dello spirito dei popoli nell’universale (all-gemein, come talvolta scrive) volgare.
È il dispositivo di pensiero che va a cercare il tema dell’antisemitismo o è, invece, l’antisemitismo che suggerisce una parte del dispositivo? È difficile, probabilmente impossibile, dare una risposta. Per Heidegger l’antisemitismo non è soltanto un’atmosfera diffusa, perché a questa atmosfera appartiene tutta una vena di pensiero per certi versi già tradizionale: il pensiero del popolo, di una storia i cui momenti e le cui inflessioni appartengono ai popoli definiti come soggetti singolari o eccezionali. Nei primi venticinque anni del Novecento si è prodotta una congiunzione tra i temi del declino, della massa, della democrazia e le volontà di sussulto, rigenerazione ed eliminazione dei fattori morbosi dell’Occidente. 
Heidegger collega strettamente la decostruzione (Abbau) dell’ontologia metafisica – grande gesto filosofico che prolunga e rilancia le premesse di Nietzsche, Kierkegaard e Husserl – e la distruzione (Zerstörung) di tutto questo e di coloro che gli paiono appunto distruggere il mondo e la storia. Come, per esempio, a proposito dell’interpretazione di Hölderlin che esige «anzitutto superare la storiografia (Historie)», cosa che richiede a sua volta «la distruzione dell’assenza di storia (o d’invio destinale, Geschichtslosigkeit)». Ora questa assenza di storia è un tratto distintivo dello Judentum, che d’altronde è caratterizzato dalla mancanza di tutto ciò che permette l’apertura al Seyn (suolo, invio, decisione, popolo). Si tratta quindi di decostruire la metafisica e distruggere le forze che portano a compimento la sua opera deleteria. Occorre distruggere la distruzione – che è già essa stessa una curiosa distruzione di sé (dello spirito dell’inizio). 
La logica e l’economia di questa decostruzione/distruzione della distruzione propongono un intrico abbastanza curioso di auto-affermazione e auto-distruzione. L’Occidente si distrugge, compiendo così una necessità del suo invio iniziale e richiede la distruzione della propria distruzione al fine di liberare un altro inizio che, pur essendo altro, deve tuttavia essere il suo nella maniera più vera e autentica. E se si trattasse di un rifiuto di sé all’interno dell’Occidente? È intorno a questo tema – presagito, ma mai sviluppato come tale – che qui s’intrecciano, con un legame tuttavia insostenibile, il pensiero e l’antisemitismo. 
(la traduzione del libro è di Antonella Moscati)


Lo zibaldone che scotta 
Novecento. Un sentiero di letture intorno ai «Quaderni neri» di Martin Heidegger. Appunti intensi, lacerti di riflessioni, testi confluiti in altre opere. E le frasi antisemite sotto accusa

Marco Pacioni Manifesto 29.6.2016, 18:34 
La pubblicazione del primo e da poco anche del secondo dei due tomi dei Quaderni Neri di Heidegger (II-VI, VII-XI, Bompiani) costituisce uno dei momenti di maggior rilievo nelle cronache filosofiche italiane. Avevano preceduto l’uscita del primo volume anticipazioni, articoli e libri sull’argomento. Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri» (Bollati Boringhieri, ora in edizione accresciuta) di Donatella Di Cesare e la raccolta curata da Adriano Fabris, Metafisica e antisemitismo. I Quaderni neri di Heidegger tra filosofia e politica (Edizioni ETS) sono dell’autunno del 2014. Come si vede dai titoli, l’attenzione si è concentrata sull’antisemitismo. Esaminando le migliaia di pagine dei quaderni dalla copertina nera che Heidegger aveva accettato andassero a completare i volumi della sua opera generale, sono state trovate delle frasi (quattordici in tutto) nelle quali compaiono gli ebrei e l’ebraismo. Alcune sono state considerate antisemite e sulla base di questi pochi passaggi si è dato vita a nuove interpretazioni del pensiero di Heidegger. 
La traduzione italiana del libro di Peter Trawny, curatore dell’edizione tedesca dei Quaderni, ha ulteriormente rincarato la dose, insistendo sull’antisemitismo nei Quaderni come chiave d’accesso all’opera heideggeriana. Il titolo del suo libro è inequivocabile: Heidegger e il mito della cospirazione ebraica (Bompiani). Per Trawny, Heidegger avrebbe fatto propria l’idea di una cospirazione dell’«ebraismo mondiale» analoga a quella dei falsi Protocolli dei savi di Sion. Per Heidegger, Trawny parla di «antisemitismo onto-storico», cioè dell’ebraismo come momento che impedirebbe all’«essere» di emanciparsi dalla sua riduzione a «ente» senza patria, senza suolo, senza fondamento e perciò «sradicato». Secondo Trawny e, ancora più decisamente secondo Di Cesare – tornata sulla questione con Heidegger&sons. Eredità e futuro di un filosofo (Bollati Boringhieri) – per Heidegger gli ebrei sarebbero l’ingranaggio cruciale della «macchinazione metafisica» che assicurerebbe il mantenimento del dominio nichilistico dell’«ente». 
Gli ebrei sarebbero i nemici dell’essere autentico, i campioni del mimetismo, della tecnica disanimata, i «calcolatori». Per Trawny e Di Cesare l’antisemitismo di Heidegger se non può essere semplice adesione agli stereotipi dell’antisemitismo popolare che da secoli caratterizza la cultura europea (non un antisemitismo razziale biologistico come quello del nazismo), non meno gravemente è però un «antisemitismo metafisico». Questa accusa tuttavia, soprattutto per Di Cesare, non vuole mettere sotto teca l’opera del filosofo di Messkirch. Anzi, la filosofa si pone come «erede» seppur «infedele» del pensiero di Heidegger. Per Di Cesare occorre continuare a costruire su di lui, purché la costruzione passi attraverso il riconoscimento dell’appartenenza di Heidegger alla trafila antisemita del pensiero occidentale, con tutto ciò che comporta riguardo la Shoah. 
Oltre alle poche righe ritenute antisemite, che altro c’è nelle migliaia di pagine dei Quaderni neri, e che tipo di scrittura sono? Domande queste alle quali i libri menzionati non rispondono se non sbrigativamente per dire che i Quaderni vanno considerati «opera» alla pari, se non addirittura con status ermeneutico superiore, rispetto agli altri libri di Heidegger. Ma che cos’è un’«opera» di scrittura del pensiero per Heidegger? Per quanto possiamo osservare, per Heidegger ogni sua «opera» ha uno status precario. Già Essere e tempo è un’opera «interrotta» per mancanza di un linguaggio emancipato dalla metafisica. 
Gli altri testi che Heidegger pubblica sono quelli allestiti per situazioni colloquiali come i corsi universitari, oppure sono elaborazioni più volte modificate di conferenze. Molti scritti autorizzati da Heidegger come «opere» a sé sono di fatto incompleti e postumi, come gli importanti Contributi alla filosofia (dall’evento). Insomma, dire che cosa sia un’«opera» nella scrittura di Heidegger non è facile neanche per le pubblicazioni da lui direttamente autorizzate, figurarsi per i Quaderni che sono un fiume di appunti in lacerti più o meno lunghi, indici di parole notevoli, passaggi confluiti in altri testi, versi poetici. Somigliano a uno Zibaldone. Similmente a quello di Leopardi, nello zibaldone dei Quaderni neri Heidegger da un lato sconta passivamente e dall’altro lato cerca di approfondire propositivamente, come fosse una risorsa-limite, l’in fieri di un pensiero e soprattutto di un linguaggio filosofico che continua a sentirsi inadeguato, provvisorio. 
Già in Essere e tempo, ma ancor più quando comincia «il cantiere a cielo aperto» (Brencio) dei Quaderni, la metafisica per Heidegger diventa anche, se non soprattutto, una «macchinazione» del linguaggio che rischia di farci ricadere nella metafisica quando presumiamo di averla «oltrepassato». Diventa difficile allora fare delle attribuzioni nette riguardo chi e che cosa, secondo Heidegger, sarebbero «diabolicamente» metafisici. E ciò a maggior ragione se si considerano le poche frasi estrapolate dagli appunti dei Quaderni. Farne la chiave per comprendere il cuore della metafisica in Heidegger sembra quantomeno imprudente. 
In Heidegger molti termini-chiave come tecnica, dispositivo, sradicatezza, erranza, annientamento (termini che Trawny e Di Cesare utilizzano per descrivere la dimensione metafisica che secondo loro avrebbero gli ebrei nei Quaderni) proprio nel laboratorio degli Hefte acquisiscono una dimensione plurivoca, spesso contraddittoria. Dimensione che però è anche dettata dall’esigenza espressiva di mettere in luce che la semplice contrapposizione a questi termini può essere essa medesima una trappola, una «macchinazione». 
Ciò si coglie anche negli scritti che il filosofo pubblica in vita. Ad esempio, nella Questione della tecnica, Heidegger scrive che «restiamo prigionieri della tecnica sia che la accettiamo con entusiasmo sia che la neghiamo con veemenza». In Costruire, abitare e pensare Heidegger scrive che «appena l’uomo riflette sulla propria sradicatezza, questa non è più una miseria», ma «l’unico appello che chiama i mortali all’abitare». 
Su una maggiore considerazione dei Quaderni nel loro complesso e su una loro contestualizzazione più larga e sfaccettata, si è mosso con accortezza filologica il libro a cura di Francesca Brencio, La pietà del pensiero. Heidegger e i Quaderni Neri (Aguaplano) e ora il volume curato da Friedrich-Wilhelm von Herrmann e Francesco Alfieri, Martin Heidegger. La verità sui Quaderni neri (premessa di Arnulf Heidegger, uno scritto di L. Messinese e appendice di C. Gualdana, Morcelliana, pp. 459, euro 35). Quest’ultimo lavoro offre una vasta e articolata analisi sine glossa di molti passi dei Quaderni neri e, in particolare, di quelli utilizzati dagli interpreti che accusano nuovamente Heidegger di essere un filosofo nazista. Rilevante è anche la sezione con lettere inedite di e a Heidegger, che in molti casi aiutano a contestualizzare meglio la precarietà e estrema ambivalenza degli Hefte. Ma sono gli scritti di Brencio e il libro da lei curato a offrire anche un’interpretazione complessiva della comprensione degli Hefte sia nell’opera di Heidegger che nella specifica questione del suo presunto antisemitismo filosofico. 
A tal riguardo, per la studiosa e filosofa italiana le frasi sugli ebrei nei Quaderni non possono dare all’ebraismo in Heidegger un carattere peculiare, una dimensione-chiave per comprendere la storia della metafisica occidentale. Semmai per Brencio, l’ebraismo in Heidegger va considerato come un momento contingente inseparabile dalla tradizione giudaico-cristiana biblica e dalla ripetuta critica al cristianesimo e in particolar modo al cattolicesimo. Da qui il filosofo manterrà sempre interesse per la teologia, soprattutto per quelle forme teologiche dissimulate che nutrono la «macchinazione» trasformatrice del domandare del pensiero in sapere operazionale, l’ambiente e gli umani in un cumulo di risorse e «fabbrica di cadaveri».

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