domenica 6 novembre 2016

Gli Stati Uniti esercitano apertamente il terrorismo informatico. L'Impero pronto a provocare un conflitto globale per questioni di politica interna



incursioni russe Nel cyberspazio ci mettono alla prova 
Stefano Stefanini Busiarda 6 11 2016
Il coinvolgimento russo a favore del «no» nel referendum del 4 dicembre può lusingare un’Italia ansiosa d’attenzioni dall’estero. Delude Matteo Renzi, reduce da un Consiglio europeo in cui si è opposto con successo a nuove sanzioni a Mosca per i bombardamenti in Siria. Allarga la posta in gioco alla tenuta italiana contro il populismo senza frontiere, da Orban a Trump, verso cui Vladimir Putin non nasconde ricambiate simpatie. Soprattutto rivela come la Russia faccia politica estera attraverso l’ingerenza nelle politiche interne. Molti degli strumenti che Mosca padroneggia spregiudicatamente, Internet, social media, hackers, gli consentono di nascondere la mano dopo aver gettato il sasso.
L’entrata a gamba tesa di «Russia Today» sul referendum, testimoniata in queste pagine, dà fiato alle trombe pentastellate e leghiste. La voce semi-ufficiale di Mosca stona nel coro internazionale pro «sì». Gli americani sono stati i primi, Berlino e Ue sono sullo stesso versante. Su quello opposto è schierato l’universo populista, dall’Ukip di Nigel Farage al Fronte Nazionale di Marine Le Pen. 
La Mosca ufficiale è trincerata nel silenzio; la propaganda russa aiuta sistematicamente il no, allineata sul campo con M5S, Lega e Forza Italia. Non potrebbe farlo senza avallo e benedizione del Cremlino. «Russia Today» è la punta di un iceberg d’influenze subliminali sull’opinione pubblica. Il messaggio russo tanto è più efficace in quanto l’audience italiana lo riceve dall’interno. 
La poco santa alleanza fra Putin e l’arcobaleno populista europeo e occidentale ha falcidiato le fila dell’atlantismo italiano. A difenderlo sono rimaste le forze di governo e pochi altri. La bilancia delle simpatie del restante spettro politico pende verso il Cremlino. 
Mosca utilizza il «soft power» propagandistico per promuovere i propri obiettivi internazionali e interessi economici. Non c’è da scandalizzarsi, almeno fino a che non attraversa linee rosse del «cyberspace», come potrebbe aver fatto con gli hackers della campagna di Hillary Clinton. Bisogna però riconoscerne le impronte digitali, non far finta di non vederle. La Russia sa quali tasti toccare: valga, ad esempio, il sostegno all’opposizione al terminale in Puglia del gasdotto Tap dall’Azerbaigian. La Puglia perderebbe appena pochi olivi; Gazprom il monopolio. Mentre, senza Tap, l’Italia perderebbe un’importante fonte di diversificazione energetica. 
I buoni rapporti con Mosca sono un interesse prioritario italiano. Dobbiamo però imparare a farli convivere con una serie di divergenze di politica estera. Ignorarle non è realistico. Mosca percepisce Nato e Ue come rivali, se non come minaccia; noi vi apparteniamo. Con l’annessione della Crimea e la crisi ucraina, la Russia ha imposto sulla carta geografica europea la legge del più forte, che credevamo abrogata. Con l’intervento in Siria, ha allontanato negoziato e soluzione politica per puntare sull’appoggio incondizionato al regime di Assad. I civili di Aleppo pagano il prezzo delle basi di Latakia e Tartus. Putin esercita una classica politica di potenza in Europa e nel Mediterraneo, facendo leva sulla forza militare (e nucleare) per compensare debolezze fisiologiche del Paese. 
Per influenzare la politica occidentale ed europea verso la Russia l’Italia deve innanzitutto essere credibile e solidale nel rispondere alle sfide di Mosca, non inseguire fantasie d’equidistanza euro-asiatica. La nostra sicurezza contro le minacce e l’instabilità da Sud (Mediterraneo) può essere tutelata solo se riconosceremo la minaccia da Est (Russia). Questo il motivo per cui l’Italia contribuisce alla sorveglianza aerea dei cieli nordici e schiererà una compagnia nella forza di rotazione Nato nei Paesi baltici e in Polonia. Questa è l’Alleanza «a 360°» proclamata nel vertice di Varsavia.
Roma capisce meglio di altri le sensibilità russe e l’esigenza di rispettarle. Se credibile e coerente, la politica estera italiana saprà anche smorzare le punte anti-russe in campo europeo e occidentale e promuovere il dialogo sul confronto. Da evitare è il ruolo d’avvocato d’ufficio, specie quando Mosca è indifendibile, come su Aleppo. Nessuno ci darebbe più ascolto. Intanto la longa manus della propaganda russa continuerebbe a pescare nel torbido del populismo nostrano ed europeo.
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Usa-Russia, la battaglia degli hacker 

Washington minaccia attacchi alle infrastrutture se Mosca interferirà col voto elettronico Il Cremlino replica: sono accuse infondate, siete voi a fare terrorismo informatico di Stato 
Lucia Sgueglia Busiarda 6 11 2016
La cyber-guerra tra Mosca e Washington si fa scontro politico, a colpi di hacker, veri o presunti. Dopo mesi di attacchi da «ignoti» pirati informatici contro la piattaforma democratica di Hillary Clinton, secondo l’Fbi legati al Cremlino, ora l’America contrattacca. O minaccia di farlo, ventilando cyber attacchi alle infrastrutture russe se «lo riterrà necessario»: vale a dire se Mosca oserà «hackerare» il sistema elettorale Usa, magari il giorno del voto. Sarebbe la prima volta nella storia.
Lo rivela il «leak» di un anonimo papavero dell’intelligence Usa alla «Nbc», per il quale gli hacker del Pentagono avrebbero infiltrato la rete elettrica e delle telecomunicazioni russe, e i sistemi di comando del Cremlino. Col rischio di una cyber-escalation che potrebbe portare anche a uno stop di Internet. 
Dura la risposta di Mosca, a parti ribaltate: se la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato non chiariranno, significa «che negli Usa esiste un cyber terrorismo di Stato», dice la portavoce degli Esteri, senza smentire né confermare. Il Cremlino assicura, siamo in grado di «fronteggiare le minacce di un cyber-attacco». La rete russa «ha un alto livello di protezione» per il Ministero dell’Energia, ma la «patria mondiale degli hacker» è ferita nell’orgoglio. German Klimenko, potente consigliere di Putin per il digitale, smorza: «Penso si tratti di propaganda». Facendo notare che «dichiarazioni del genere non si fanno mai, non si avvertono in anticipo» gli avversari.
Ma è chiaro che Washington ha lanciato un avvertimento a Mosca. Le prime avvisaglie c’erano state giorni fa quando presunti hacker ucraini hanno diffuso 2377 e-mail (presunte) di Vladislav Surkov, consigliere di Putin, che ne svelano gli stretti legami (già noti) con i separatisti del Donbass. Un colpo troppo sofisticato, pare, per essere realizzato senza un aiuto di alto livello, magari dagli Usa alleati di Kiev. Anche se non hanno trovato legami tra Donald Trump e la Russia, il timore degli 007 Usa è che l’hacking della corrispondenza di Clinton e del suo staff punti a interferire nel voto, non tanto per alterarne il risultato ma per seminare dubbi sul processo, screditandolo. Nelle ultime settimane il dipartimento di sicurezza Usa avrebbe raccolto prove di un’apparente «scansione» russa di banche dati statali e sistemi computerizzati di voto.
Timori non irreali, a giudicare dai media russi. Che non appoggiano esplicitamente il «filo-Putin» Trump, ma attaccano a testa bassa Hillary, enfatizzando ogni scandalo che la riguarda. Ma soprattutto la propaganda del Cremlino cavalca le dichiarazioni del candidato repubblicano su un possibile rifiuto dei risultati in caso di sconfitta, per ventilare uno scenario da «rivoluzione colorata a rovescio» negli Usa. Che potrebbe trovare appoggio a Mosca. Di recente un deputato della Duma, sottolineando la «scarsa trasparenza» del voto elettronico Usa, ha dichiarato: «Gli americani hanno paura che si scoprano brogli, e di perdere il loro ruolo di arbitri del mondo». A Mosca, ripetono gli analisti, non interessa chi vincerà l’8 novembre, l’obiettivo è già raggiunto: Putin è protagonista centrale delle presidenziali del Paese più potente al mondo.
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I guru della “cyber security” lanciano l’allarme: rischi seri Ora servono norme mirate 
Giovanna Pancheri Busiarda 6 11 2016
«La scorsa settimana sono andato a Washington per degli incontri istituzionali e al Senato in tutti i corridoi, su tutte le bacheche, c’erano dei cartelli che dicevano: “Venite al nostro seminario sulla cybersicurezza”. Mi è venuto da sorridere vedendoli: qui nella nostra comunità sono anni che ci confrontiamo con il problema, ma finora i nostri avvertimenti anche sul rischio del voto elettronico erano rimasti inascoltati. Adesso con questa torbida campagna elettorale forse si sono svegliati anche sull’altra costa». Non si capacita Eric Ries, guru delle start up della Silicon Valley, dei ritardi del governo americano sul fronte della minaccia degli hacker. «Libertà di Internet e sicurezza devono e possono andare insieme, ma bisogna iniziare a regolamentare il tutto con norme più mirate», spiega quando lo incontriamo a San Francisco durante la settimana delle start up, da lui organizzata. 
Come molti altri qui Ries è un sostenitore e finanziatore di Hillary Clinton tanto che ha predisposto all’interno della conferenza anche uno stand per gli imprenditori che vogliono prendersi una pausa dai lavori e fare volontariato chiamando gli elettori indecisi. Nulla del genere è previsto per Trump perché, come spiega un partecipante, «bisogna anche pensare al valore che ha l’immigrazione nel mondo delle start up. Il 42 per cento delle società qui è stato creato da un immigrato di prima o seconda generazione», ma questo mondo non è preoccupato solo da una ipotetica vittoria di Trump: se otto anni fa abbiamo assistito alla campagna di YouTube, quattro anni fa a quella dei social network, quest’anno la chiave digitale delle elezioni sembrano essere gli hacker.
«Loro sono agili e veloci come una start up. Organizzati in piccoli gruppi. Il governo invece è come una grande Corporation lenta e burocratica», sottolinea Matt che ha inventato un nuovo modello di Touch Screen da collegare a più device contemporaneamente. «Proprio la possibilità di connetterci sempre e ovunque unita all’Internet delle cose costituisce i rischi maggiori. Fino a pochi anni fa potevano infettare al massimo il nostro personal computer. Adesso e sempre di più, senza i giusti investimenti sulla sicurezza, potranno mettere in pericolo i nostri elettrodomestici, le nostre macchine, la nostra stessa democrazia», sottolinea John Lilly, ex Ceo di Mozilla, ora partner di Greylock e grande donatore per Hillary Clinton.
Secondo alcune recenti rivelazioni di stampa, il governo americano si sta preparando a un cyber attacco proprio nella notte del voto. «È una minaccia concreta e seria», afferma John Peterson, Vice Presidente di Comodo, una delle aziende leader nel settore della Cyber Security: «Abbiamo visto nelle ultime settimane un aumento considerevole nel fishing e nello spam. Sono movimenti che vengono più dall’estero che da hacker interni e ad agire sembrano essere sempre i soliti sospetti. Molti di questi attacchi provengono dalla Cina o dall’Europa dell’Est».
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Bobby e Chesha nel Paese spezzato

Alla vigilia del voto lo scrittore Giorgio Vasta e il fotografo Ramak Fazel attraversano gli Stati Uniti dal profondo Sud al Midwest fino a New York. Tra sostenitori convinti dei due candidati, elettori disillusi che diserteranno le urne e chi già rimpiange Obama
Il coltivatore di “rose confederate”: “Se vince Hillary sarà la fine”. L’attivista per i diritti civili: “Trump ha legittimato gli istinti più bassi di questa comunità”. Il reduce della guerra in Afghanistan: “Per me c’è stato solo JFK, da Reagan in poi il declino”

GIORGIO VASTA  Rep 6 11 2016
GLENN HA QUARANTACINQUE ANNI
e vive a Sulphur, Louisiana, in una camera a due letti del Red Roof Inn, la finestra del motel che si affaccia sull’interstate. Quando lo incontriamo – le sei del mattino ed è ancora buio – Glenn ha appena staccato dal lavoro alla raffineria, ha addosso il giubbotto giallo fluorescente, il ricetrasmettitore appeso sotto lo sterno, i jeans impolverati e le scarpe da lavoro. Ci racconta che ogni mattina, prima di andare a dormire, si siede davanti al motel – una sigaretta e qualche lattina di Bud Light – a fare due chiacchiere con gli altri operai che hanno finito il turno, aspettando che poco a poco la luce si strutturi e arrivi l’alba. Glenn ha combattuto in Somalia – e si tocca la schiena nel punto in cui è penetrata la pallottola che l’ha tenuto fermo per mesi – e in Afghanistan (e nel dirlo aggiunge
of course,
ma sottovoce, come se aver combattuto in Afghanistan, per lui che è stato un soldato, fosse implicito). La vita militare, dice, è stata un imprinting. Nel senso che lo ha abituato alla fatica e alla transitorietà, a non sapere cosa accadrà domani. E dunque vivere in un motel, lavorare di notte e dormire di giorno non gli pesa, come non gli pesa usare buona parte di quello che guadagna per mantenere l’ex moglie e le due figlie in Florida; della cicatrice che gli divide il naso in due – ciò che resta della notte in cui correndo dietro a due donne venne pestato e rapinato da due uomini – è persino orgoglioso. «I’m an American», dice mostrandoci “Ranger” tatuato su una spalla, e questo non è in contraddizione con il fatto che Glenn l’8 novembre non andrà a votare; per lui c’è stato solo JFK (il suo cognome – quello della famiglia che l’ha adottato quando aveva otto anni – è proprio Kennedy): da Reagan in poi, per l’America è stato solo un lungo declino.
«Se vincerà Hillary sarà la fine», dice Bobby Bennett – sessant’anni, ex edile, il viso scaleno, gli occhi piccolissimi – ricevendoci asciutto se non ostile sul portico della sua casa a Easleyville, a nord di Baton Rouge; intorno, il prato perfetto di Blue Velvet, la statuina di un procione, lo stendardo rosso e blu degli Stati Confederati. «Non sono razzista», spiega, «ma questa bandiera è la mia origine », e intanto se ne sta con le mani affondate nelle tasche a fissare un punto lontano. Quando poco dopo ci mostra l’ordine rigoroso del suo backyard – la rimessa pulitissima, le scale a pioli allineate –, il risentimento laconico con cui ci aveva accolto si ammorbidisce, Bobby si avvicina a una pianta di rose, ne stacca una e torna indietro: «It’s a confederate rose», dice allungandocela. Con il fiore sul cruscotto della Saab comprata a Houston all’inizio del viaggio arriviamo a casa di Antoinette Harrell, a Kentwood, la cittadina di duemila abitanti dove è nata Britney Spears. Cinquantasei anni, Antoinette è un’attivista che lavorando sul campo e negli archivi ricostruisce le genealogie degli schiavi africani (durante il nostro incontro, sullo screensaver del suo computer si materializzano vecchie foto di famiglie afroamericane che scorrono dal basso in alto, decine di volti e di corpi, il moto silenzioso delle stirpi). Il suo, chiarisce, non è un lavoro sulla memoria ma sul presente. Perché da queste parti la schiavitù non è mai finita. Semmai si è evoluta: se un operaio nero di Fluker, a due passi da qui, guadagna sei dollari l’ora nella fabbrica locale perché, non avendo una macchina e non essendoci mezzi pubblici, non può raggiungere la fabbrica dove ne guadagnerebbe sedici, questo si chiama asservimento: l’unica metamorfosi è quella della catena.
Quando – in cerca di un nesso e di un bilanciamento – le regaliamo la rosa di Bobby Bennett, Antoinette ci dice che a spaventarla non è che Trump possa vincere, ma le conseguenze della sua campagna elettorale: «Quell’uomo ha legittimato gli istinti più bassi di questo Paese». La stessa percezione di Chesha Lewis, studentessa a Tougaloo, un “historically black college” a nord di Jackson, nello stato del Mississippi. Mentre ci fa visitare le sale studio, la biblioteca, la caffetteria, i dormitori, la camera – oggi riconvertita in aula – dove Martin Luther King si fermò a riposare durante la March Against Fear del ’66, Chesha, che ha ventun’anni e sogna di giocare nella Nba femminile, ci spiega che sì, è chiaro, voterà per Hillary, ma purtroppo, al di là dei risultati dell’Election Day, queste sono le elezioni di Trump: considerato quello che è riuscito a fare al Paese, anche se perde, vince.
Quando la sera del 29 ottobre a Chicago i Cubs giocano contro i Cleveland Indians nella finale della World Series di baseball, la grammatica sportiva si mescola a quella politica. Le scritte sui cartelli – “It’s Gonna Happen” – e sulle t-shirt – “Wait Till This Year” – non alludono solo a una vittoria che Chicago attende da oltre cento anni, ma a ciò che si spera succeda da lì a poco. Al “fantasma” di Harry Caray – o meglio al sosia di quello che è stato il più popolare “annunciatore” della squadra locale, scomparso nel 1998 – domandiamo chi tra i due candidati svanirà dopo le elezioni. La risposta autoironica del fantasma è netta: «Trump è uno spettro: appena si dissolverà diventeremo adulti». Il giorno dopo Tony Wilson – il meccanico che ci ricarica la batteria quando in Illinois la Saab decide di lasciarci a terra – osserva che a lui questi candidati non piacciono per niente: «Keep Obama in», dice già rimpiangendo il suo presidente. Il 31 ottobre Trump tiene un comizio a Warren, nel Michigan; davanti al Macomb College il tifo si articola per formule: ”Stop Evil Clinton Machine”, “Hillary for Prison”, “Trump: the rest are apprentices”. Tra la folla si aggira anche un fake del candidato – la complessione robusta,
il doppiopetto, la parrucca sgargiante –, non è chiaro se sia un fan o qualcuno che lo prende in giro. Colpisce – e all’inizio sembra un’incoerenza – la partecipazione di tante persone di colore. Michael, ventotto anni, ci spiega che non c’è nulla di strano: molti afroamericani votano il tycoon perché esasperati dall’ipocrisia delle politiche assistenzialiste dei democratici. Anche per loro Trump risponde a un bisogno viscerale – più che a un desiderio – di cambiamento. Non importa se non c’è un vero progetto, se non c’è una visione: basta cambiare. Nel parcheggio del Macomb College incontriamo Madelyne, diciannove anni, il suo lavoro è portare da mangiare agli anziani, ma adesso un’agenzia di Chicago ha visto le sue foto e vuole lanciarla come modella. «I’m not a political
person», precisa: se vota Donald è per tradizione familiare, per istinto, perché quello che pensa la fa sentire protetta. Perché – di nuovo – le cose devono cambiare (poi di colpo Madelyne ci fa un cenno di saluto, ha fretta di tornare a casa: «You know, it’s Halloween», dice sorridendo e sparisce tra le macchine).
Percorrendo gli Stati Uniti da sud a nord e poi da ovest a est il paesaggio è molteplice: se le superfici orizzontali prevalgono tenaci, a partire dal Missouri i campi di grano e di cotone sono punteggiati dagli aceri rossi e dalle querce color ruggine, da silos bianchi a forma di fungo – e a un certo punto, sotto i portici delle case, si accende l’arancione delle zucche. Molteplice è anche il paesaggio elettorale: repubblicano nel Deep South, appena più democratico nel Midwest. Ci sono i supporter più convinti – – ma tanti sono gli indecided (lo “Yes We Can” del 2008 ha lasciato il posto a una specie di “We Really Don’t Know”), così come chi sentendosi forgotten, dimenticato, o unseen,
non percepito, ha trasformato l’amarezza in un’indifferenza calma e pragmatica. Come Jason che a Blytheville, in Arkansas, mentre al di là di una grata metallica svuota il self-storage dove per quaranta dollari al mese ha stipato la sua roba, ci racconta che si è iscritto ai registri elettorali ma l’otto non sa ancora cosa farà, non ci pensa, in realtà non gli importa: «I’m not involved», dice continuando a svuotare il suo deposito.
Durante le presidenziali del 1984 lo spot elettorale di Ronald Reagan mostrava un’alba che – al contempo concreta e metaforica – tingeva di rosa la cupola del Campidoglio, a Washington, mentre la voce off recitava fiduciosa: “It’s Morning Again in America”. All’alba del nove novembre di trentadue anni dopo, terminato il suo turno, Glenn Kennedy andrà a sedersi davanti al motel dove abita – qualche lattina di Bud Light, la sigaretta accesa – a chiacchierare con gli altri operai della raffineria. Sarà il nove, certo, e in America ci sarà un nuovo presidente, ma potrebbe essere il sette oppure il sei, il 2015 o già il 2017. Perché dal punto di vista di Glenn – che poi è quello di tanti americani – la Storia è solo storia, rumore di fondo, quello che al limite succede agli altri; una cosa che – se anche è reale, se addirittura è il presente che diventa futuro – può lo stesso non riguardarti. Per Glenn l’unica cosa certa è che dopo la notte viene l’alba. Per lui però questo non è la metafora di niente, è solo il modo in cui passa il tempo.
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Saskia Sassen “I giovani faranno la Storia” 
GIULIANO ALUFFI Rep 6 11 2016
IL VELO DELLA SOCIETÀ LIBERALE, sollevato dal vento della globalizzazione, lascia sempre più scoperto il lato feroce e violento dell’America, secondo una delle voci più lucide del panorama intellettuale statunitense, Saskia Sassen, sociologa e docente alla Columbia University.
Quali sono i laboratori sociali più importanti nell’America di oggi?
«Le città, soprattutto quelle che hanno forti divisioni interne: di classe, di politica, di razza. E poi ci sono laboratori più mobili, puntiformi, istantanei: le occasioni di incontro — o meglio, scontro — tra le forze dell’ordine e i diseredati, gli homeless ».
Divisioni e scontri fanno pensare a un disordine generalizzato e sempre più diffuso. C’è qualcuno che ne trae vantaggio?
«La brutalità — e l’America è stata a lungo brutale, basta pensare che solo negli anni Sessanta sono finiti i linciaggi degli afroamericani — oggi si camuffa da intermediazione tra i livelli della società. Ma lascia trapelare la logica sottostante, quella dell’estrazione, che si è imposta su modalità di scambio meno a senso unico, come il commercio. Un esempio è lo spodestamento delle banche da parte della finanza. Le banche vendono denaro che possiedono, in cambio di un interesse. La finanza invece vende qualcosa che non possiede: ecco perché deve invadere famelicamente ogni altro ambito ed estrarre valore ovunque possibile».
E l’America meno fortunata?
«È costretta a svendersi. Ai nove milioni di americani che hanno subìto il sequestro della casa per l’impossibilità di pagare i mutui, fanno da contraltare i massicci acquisti di proprietà immobiliari: c’è un incessante travaso da una parte all’altra della società. Tra il 2014 e il 2015 sono stati spesi più soldi nell’acquisto di case non nuove a Boston che a Hong Kong, più a Austin che a Shanghai, più a Portland che a Milano».
Nelle sue analisi la politica americana sembra impotente, se non complice… «Da un lato ha concesso un enorme grado di autonomia alle organizzazioni più potenti, dall’altro risente dell’impreparazione di legislatori che, di fronte alla complessità di ambiti come la finanza e le telecomunicazioni, preferiscono lasciar fare agli “esperti”, che — naturalmente — sono coloro che già operano in questi settori. Questo è stato un tratto comune a repubblicani e democratici».
Il cittadino americano è solo come il cittadino globale?
«Oggi “cittadino” è un temine ambiguo. Troppi “cittadini” sono discriminati, o marginalizzati o uccisi dalla polizia. E all’altro estremo ci sono troppi privilegiati che non si sentono più cittadini. Magari violano la legge e sono lo stesso ammirati e rispettati. Oppure acquistano appartamenti di lusso per non abitarli mai, aggiungendo desolazione ai centri urbani: una volta vivi e frequentati, oggi spazi del vuoto».
Il futuro è quindi fosco?
«Prevedo ancora più disuguaglianza e decadimento degli standard minimi di vita, più militarizzazione della polizia e incarcerazioni, e più impoverimento della classe media. La democrazia liberale — qui come nel mondo — ha retto fino a quando il consumo di massa era il modello trainante del capitalismo. Oggi che non lo è più, viene allo scoperto la vera natura della democrazia liberale: niente più intermediazione, solo sorda brutalità».
Nonostante tutto, vede ancora qualche possibilità di speranza?
«Nelle università vedo sempre più giovani che si attivano in lotte locali per il bene comune, contro la povertà e per l’ambiente. Sono quelli che si sono mobilitati per Bernie Sanders. Ma più in generale sempre più studenti vogliono studiare le città. Sono accesi dal desiderio di costruire un mondo migliore». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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