domenica 27 novembre 2016

I seminatori di populismo reattivo si lamentano del populismo reattivo. Ma ci pensa Italian Theory

 

L’EQUILIBRIO CHE SI SPEZZA 
ROBERTO ESPOSITO
CHE la globalizzazione sia entrata, forse per la prima volta, in una crisi profonda è sotto gli occhi di tutti. Certo, sul piano tecnologico il mondo è sempre più connesso. E nell’economia finanziaria l’interdipendenza tra i mercati si è addirittura accentuata. Ma sul terreno politico i punti di arresto, e anche di arretramento, sono altrettanto vistosi. L’idea di uno spazio globale senza frontiere batte ogni giorno contro nuovi muri. Tutt’altro che occasione di crescita comune, la globalizzazione sta diventando l’arena di scontro tra identità contrapposte. La Brexit e la vittoria di Trump sono le conseguenze di un’onda lunga che da tempo porta acqua al mulino dell’isolazionismo. Gli Stati tornano a parlare il linguaggio della sovranità nazionale e delle sfere d’influenza. Contro una logica cosmopolitica, la politica riprende a radicarsi nel territorio — se perfino il terrorismo globale cerca di costruirsi un profilo statale. Dopo che per qualche tempo si è pensato che non esistesse più un “fuori”, l’esclusione prevale sull’inclusione. Per dirla con i filosofi, il “negativo” ricomincia a far sentire la sua voce attraverso emigrazioni forzate, guerre, terrorismo.
Ma la crisi politica della globalizzazione non si limita a segnare nuove linee di frattura tra Stati sovrani. Essa configura in maniera inedita i regimi politici, scomponendone gli elementi costitutivi. Ad andare in crescente difficoltà è la forma istituzionale che da tempo siamo abituati a chiamare “liberal-democrazia”. Se già, alle porte dell’Europa, Russia e Turchia hanno imboccato un percorso autoritario, anche gli Stati Uniti di Trump sembrano tentati di girare le spalle all’alleanza occidentale, per candidarsi a leader dell’antiglobalizzazione. Ma è soprattutto in Europa che il binomio democrazia-liberalismo pare disgregarsi in una maniera che trasforma, e insieme deforma, entrambi i suoi termini. Per almeno un secolo il luogo d’incontro tra democrazia e liberalismo è stato il rapporto tra diritti individuali e sovranità popolare. Esso implicava che gli interessi individuali si integrassero con le scelte politiche di governi legittimamente eletti, in un equilibrio di poteri garantito dalla Costituzione. È appunto questo equilibrio complessivo che rischia oggi di spezzarsi nella prevalenza dei diritti individuali su quelli collettivi, del mercato globale sulle volontà nazionali, della logica finanziaria sulle scelte politiche.
Certo, nei nostri sistemi politici, il diritto costituisce il collante della democrazia. La stessa idea di democrazia presuppone un insieme di regole condivise, all’interno delle quali le forze politiche si misurano contendendosi il governo dei rispettivi Paesi. Ma ciò è possibile per gli Stati nazionali. Negli organismi sopranazionali — come l’Unione Europea — la legislazione tutela un sistema di interessi che non coincide con il diritto pubblico. Il quale resta, al momento, appannaggio degli Stati nazionali. In fondo il contenzioso aperto da alcuni di essi — tra cui anche l’Italia — riguarda proprio questa differenza. Che è quella che sempre più tende a separare neoliberalismo e democrazia. Mentre il primo presuppone un mercato regolato dal principio di concorrenza, garantito da istanze terze di natura non politica, la democrazia ha al proprio centro la volontà popolare espressa dai governi politici. In questo senso è vero che non esistono governi puramente tecnici. Un governo nazionale esprime comunque scelte in ultima analisi politiche. È quello che manca all’Unione Europea. Non essendo espressione di un unico popolo, essa sconta necessariamente un deficit di democrazia. A essere sempre più contestato — con accenti spesso populisti — è un progetto costruito su una trama di accordi giuridici adeguati alla logica globale del mercato, ma privi di legittimità politica.
In questo modo la latente divaricazione tra liberalismo e democrazia spinge l’uno e l’altra verso due estremi che rischiano di allontanarsi sempre di più. Da un lato il sistema globale neoliberale tende ad emanciparsi dai governi nazionali, dettando loro le proprie regole, senza farsi carico degli interessi e delle volontà dei popoli. Dall’altro le democrazie, chiuse nei confini dei singoli Stati, incorporano dosi sempre maggiori di populismo anti-istituzionale, col rischio di cancellare le indispensabili mediazioni rappresentative. Così i due processi opposti di globalizzazione e nazionalizzazione minacciano di deflagrare. Quando la via da seguire sarebbe un’altra. Quella di articolare istituti democratici e istanze sovranazionali, diritto pubblico e diritto privato. La stessa Unione Europea, con tutte le sue contraddizioni, costituisce per sempre l’unico spazio in cui tali esigenze possono trovare una misura comune. Solo se ciò accadrà, un’Europa politica potrà competere da pari a pari con gli altri grandi spazi in cui si divide il mondo.
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Uno spettro s’aggira per l’Europa Il populismo autoritario 

Uno studio inglese individua alcune caratteristiche comuni ai diversi movimenti: egoismo e razzismo specialmente 

Jacopo Iacoboni  Busiarda 27 11 2016
Hanno sentimenti negativi verso i migranti, i diritti umani e l’Unione europea: piuttosto che allargare le maglie vorrebbero restringerle, su tutte e tre le questioni. Sono ostili ai giornali, e si fidano di più di un tuffo in Internet senza stare a sottilizzare particolarmente su quale sia la fonte a cui si affidano, nella scia della massima di Donald Trump «non credete ai giornali, credete a Internet». Uno studio condotto in Inghilterra da tre professori - David Sanders dell’University of Essex, Jason Reifler dell’University of Exeter, Tom Scotto dell’University of Strathclyde - per analizzare la questione del referendum sulla Brexit, ha scoperto che il 50 per cento degli inglesi condivide questa «mentalità» e questi «sentimenti negativi». I tre prof utilizzano, per definirla, l’etichetta di «populismo autoritario» (Pa), che è un vero e proprio «insieme coerente di convinzioni».
Lo studio, bisogna rilevarlo, non è un sondaggio ma un’analisi sui dati di una serie di indagini su panel di YouGov condotte tra il 2011 e il 2015, quindi nel quadriennio che porta dritti alla Brexit. Ne vien fuori questo ritratto: i populisti autoritari non sono, per capirci, esattamente dei «fascisti», o ciò che eravamo abituati a intendere con questa parola, intanto perché occupano una fascia centrale dello spettro politico - e non la tradizionale, limitata destra o estrema destra. Ma sono anche diversi dal populismi sudamericani, così nutriti di emotività, e non necessariamente permeati dai medesimi elementi (per esempio l’ostilità ai migranti). 
Abbiamo potuto conversare con i tre studiosi che hanno avuto a disposizione questi dati e abbiamo chiesto loro sostanzialmente due cose: il «populismo autoritario», studiato con riferimento al Regno Unito, è una dinamica che accomuna solo i Paesi anglosassoni della Trump-Brexit, o riguarda anche posti come la Francia di Marine Le Pen, o l’Italia del Movimento cinque stelle? Secondo: il Movimento cinque stelle, alleato di Nigel Farage (uno dei campioni dell’attitudine «populista autoritaria») al parlamento europeo, condivide gli stessi sentimenti, a giudizio di questi studiosi, almeno per la comune fascinazione - sempre più percepibile anche ai più distratti - per il mito dell’uomo forte (The Helping Man) alla Trump, o alla Vladimir Putin?
David Sanders ci racconta: «Ho fatto alcuni recenti lavori con YouGov, l’agenzia di rilevazioni inglese, compreso uno studio sul populismo autoritario europeo su dodici nazioni. Cercavamo un set di attitudini consistente (verso l’Ue, l’immigrazione, la politica estera, i diritti umani, il collocamento sull’asse destra-sinistra), che giace come una risorsa sottostante per forze politiche differenti - compresi ovviamente partiti autoritari o anti-establishment. Abbiamo trovato in Europa modelli simili a quelli in Regno Unito»: supporto potenziale per la Le Pen, Danimarca, Olanda, Svezia, Finlandia, Polonia, Spagna, e in misura più limitata, Germania. In tutti questi posti il populismo autoritario tende a destra, è anti Ue, egoista in politica estera e vuole una robusta politica di difesa. In Francia, un’attitudine al Pa occupa addirittura il 60% dell’elettorato». E in Italia? «Come in Romania, da voi c’è una cosa singolare: il populismo autoritario è stato mischiato anche con movenze prese dalla sinistra radicale. È il caso del populismo autoritario del M5S e di Grillo».
Spiega Tom Scotto: «L’attitudine di questo tipo di elettorato è un rigetto, diffuso in molti Paesi occidentali, del “liberalismo cosmopolita”. La working class, e anche la parte bassa della middle class, nelle democrazie avanzate hanno visto spostarsi i loro lavori in outsource verso le economie emergenti. Persone che appartengono alla fascia compresa nell’80-90% del patrimonio globale esistono sia in Uk, sia in Usa, Francia, Italia: questa gente si sente insicura, e l’insicurezza non si ferma ai confini delle nazioni». Certo, il Pa «ha poi molto a che fare col tema della razza, anche se è ingiusto dire che gli elettori di Trump, o della Le Pen, siano tutti razzisti». Il Pa si nutre poi molto anche del «culto del capro espiatorio», indicare la soluzione semplice a problemi complessi: cosa succederà quando vedranno che soluzioni semplici a queste insicurezze, economiche e sociali, non ci sono? «Questi movimenti potrebbero moderarsi, diventare più una sorta di conservatorismo sociale teso a qualche forma di redistribuzione; ma la transizione la vedo difficile. Più probabile una ricerca ancora più forte del capro espiatorio, ma a quel punto il bivio diventa drastico: o il Pa si affievolisce, o diventerà ancora più tossico nei comportamenti sociali».
Reifler osserva: «La vera domanda secondo me sarà: fino a quanto puoi arrivare a essere apertamente razzista, e nello stesso tempo conquistare il potere? I partiti sembrano avere più successo quando non sono così catturati dal razzismo, o dalle teorie cospirazioniste. Ma Trump ha smentito questo assunto; anche se va detto che l’America ha una storia brutta e difficile sulla razza, e Trump in questa storia non è il primo».
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