martedì 29 novembre 2016

Il Sì "anti-casta" di Renzi, Trump, Le Pen e i problemi del populismo
















All'imbroglione giovane sta riuscendo in queste ore il piccolo capolavoro di far passare il Sì per un gesto di ribellione populista contro la Casta, la quale sarebbe tutta schierata per il No a difesa dei propri privilegi.
Il piccolo particolare per cui proprio lui è al potere e proprio lui è il virgulto preferito dell'establishment, ovvero delle classi dominanti, passa facilmente in secondo piano in quella guerra di comunicazione pubblicitaria su larga scala alla quale è ridotta oggi la contesa per l'egemonia, e nella quale ciascuno utilizza le armi che ha a disposizione.
Tutto ciò - come i primi passi concreti della politica di Trump, anch'egli salutato come il salvatore della sovranità popolare da un fronte che ha sfondato i confini tradizionali della destra - pone più di qualche problema a coloro che ritengono che la risposta populista, la costruzione cioè di un non meglio definito fronte popolare, sia di per sé la soluzione alla crisi della democrazia moderna.
Il concetto di populismo è infatti ampiamente formale. E indicando più che altro uno stile politico che si dispiega a partire dalla sostituzione della dicotomia politica destra/sinistra con quella alto/basso, può essere riempito dei più diversi contenuti concreti e non rappreenta di per sé una soluzione.
Chi costituisce il popolo? Dove comincia e dove finisce? Di quali classi sociali è composto? In quale direzione si orientano le proposte populiste, verso una politica redistributiva di ricchezza, potere e riconoscimento o verso una diversa concentrazione? I confini della sovranità popolare sono declinati in chiave escludente (Herrenvolk Democracy) o inclusiva? La Casta sono poi le classi dominanti o solo una loro frazione?
Il campo populista, oltretutto, per suo statuto ontologico è in realtà assai più favorevole alle articolazioni destrorse, che hanno un rapporto privilegiato con l'immediatezza e il particolarismo. Tanto più nella mancanza assoluta nel campo progressista di una figura minimamente credibile che sia capace di dominare i mitici "significanti vuoti" ("cambiamento", "casta", "establishment", "popolo", "poteri forti"...).
E' per questo che, per come la penso io, rimane assai preferibile il vecchio caro concetto di strategia nazionale-popolare e il "populismo" va recepito solo nella misura in cui costituisce l'ammodernamento di questa proposta. Mentre va senz'altro respinto laddove si presenta come la versione di sinistra dell'adeguamento della sfera politica alle esigenze dell'epoca postmoderna (in primo luogo tramite la costruzione di leadership carismatiche capaci di legare le domande sociali, in secondo luogo tramite una pratica egemonica assimilata al marketing).
In ogni caso, non c'è fretta di decidere perché si tratta di una discussione di scuola: per la sinistra attuale sarebbe già tanto esistere, figuriamoci se ci poniamo il problema della strategia [SGA].



Zero fair play, campagne social e toni accesi. E la politica pop diventa trash: l’analisi di comunicatori ed esperti

Diego Motta domenica 27 novembre 2016 

La Stampa
La Stampa
La Stampa
Corriere della Sera


Il piano R 
Se sconfitto, il premier tenterà di tornare alle urne Ecco come. E chi cercherà di impedirlo

GOFFREDO DE MARCHIS Rep
ROMA. In caso di vittoria del No, Matteo Renzi continua a pensare al voto anticipato nel 2017. Per una questione caratteriale: «Io non mi ci vedo a fare il segretario del Pd per un anno e più sostenendo un altro governo che sarà bombardato da Grillo e Salvini perché non eletto». E per un calcolo che a Palazzo Chigi stanno facendo da molti giorni: «Con una sconfitta di misura, il 45-48 per cento sono voti riconducibili a me e al Pd». Numeri sufficientemente incoraggianti per affrontare una sfida elettorale contro una compagine molto variegata e dove il vero dominus sarebbe Beppe Grillo.
Lo scioglimento delle Camere è veramente il nodo più difficile da districare nei tanti scenari post 4 dicembre. A cominciare dal fatto che le elezioni anticipate sono nella disponibilità del capo dello Stato Sergio Mattarella e che dal Quirinale è già filtrato il mood presidenziale: cercare in ogni modo di arrivare alla scadenza naturale della legislatura, ovvero febbraio 2018. Umore espresso pubblicamente dal ministro della Cultura Dario Franceschini, molto vicino al capo dello Stato. Ma il Colle fa filtrare che il pallino è nelle mani di Renzi, che la via d’uscita alla bocciatura della riforma costituzionale passa innanzitutto dal premier e segretario del Pd, un partito che solo alla Camera conta 312 deputati, più altri 100 senatori. E un governo, qualsiasi governo, ha bisogno di una maggioranza parlamentare per sopravvivere. Questa è la vera partita tra Renzi e il Colle. Comincerà all’indomani del 4 dicembre sempre che non vinca il Sì.
Il sentiero meno impervio per giungere a questo risultato è accettare il reincarico da parte di Mattarella, avviare le operazioni per una nuova legge elettorale, tenere insieme il Pd, convincere gli alleati dell’esecutivo (Ala e Ncd) che l’unica soluzione praticabile è il voto nella primavera nel 2017. Insomma, non ritirarsi a Rignano, come promesso ormai molti mesi fa, ma nemmeno vivacchiare, mettendosi invece subito in gioco e accettando la sfida delle urne.
Le variabili, come si vede, sono molte, forse troppe, e gli ostacoli ancora di più. Renzi però pensa soprattutto a questo orizzonte quando dice, anche al di là della propaganda, che non subirà mai un governo tecnico, un governicchio, un inciucio.
Del resto è difficile vedere, con questo Parlamento, un governo tecnico sul modello Monti. Con quale maggioranza? Pd e 5 stelle insieme? Con Forza Italia e il Pd uniti? Renzi dunque lo nega non solo come spauracchio per spostare gli indecisi sul Sì. È un’ipotesi complicatissima da realizzare, il segretario del Pd non avrebbe problemi a stopparla. Semmai il pressing su Renzi è un altro. Viene dal partito, dalla sua pancia profonda e prevede un’altra strada. Non le elezioni anticipate.
Il premier resta leader dem e propone un governo politico. Un Renzi bis senza Renzi con Delrio o Padoan a Palazzo Chigi. Il governo nasce su un non detto: la durata. In realtà “vede” il traguardo del 2018. Nel frattempo Renzi fa il segretario a tempo pieno, gira l’Italia, prepara il congresso del Pd dove rimane il superfavorito e si ricandida alla guida dell’esecutivo. Questo suggerimento gli arriva ormai da molte parti, principalmente da alcuni dirigenti del suo partito che “misurano” anche la resistenza dei gruppi parlamentari del Pd allo strappo del voto anticipato. Come dire: non è sicuro che i dem seguiranno il leader sulla china del voto a primavera. Il Renzi bis senza Renzi garantisce la stabilità, serve a preparare una rinvincita nel 2018. «Fa un po’ il democristiano - spiega un deputato amico -. Lui alla segreteria che dà le carte, un suo uomo alla presidenza del Consiglio. Altrimenti possono esserci prospettive peggiori perché soluzioni, anche senza di lui, si possono sempre trovare. E non tecniche».
Mentre Renzi è pancia a terra per colmare lo svantaggio e ai suoi professa ottimismo sulle possibilità di rimonta, qualcuno infatti pensa già al dopo. Certo, l’idea di sostenere un altro al suo posto è estranea alla sua grammatica. La sua prima scelta, nel caso, ricadrebbe su Pier Carlo Padoan, l’unico del quale Renzi non avvertirebbe l’ombra allungarsi sul Pd e sulle sue ambizioni.
Ma Padoan, fino a due anni e mezzo fa era all’Ocse. Anche con un esecutivo di ministri politici, avrebbe il sapore di una scelta “tecnica”. Graziano Delrio rappresenta l’alternativa, ma una figura come il ministro delle Infrastrutture, sarebbe davvero così neutra rispetto alla lunga battaglia congressuale e alla ricandidatura? La risposta dei renziani è no.
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SERVE PIÙ DEMOCRAZIA CONTRO IL POPULISMO 
NICOLAS BAVEREZ Rep
AVENTICINQUE anni dalla disgregazione dell’Unione Sovietica, le illusioni sulla fine della Storia e il trionfo della democrazia sono ormai svanite, per cedere il posto a una grande angoscia. Le nazioni libere, che si credevano eterne, si riscoprono invece mortali: bersaglio della jihad, soggette alla concorrenza dei Paesi emergenti e alle pressioni delle “democrature”, destabilizzate da una recrudescenza dei populismi senza precedenti dagli anni ‘30 — come dimostrano la Brexit e l’elezione di Donald Trump.
Si definiscono populisti i movimenti contestatari guidati da capi carismatici che cavalcano confusione e sconcerto davanti a grandi sconvolgimenti storici, per esacerbare le passioni identitarie e istigare il popolo contro le élite. La loro capacità di seduzione fa leva sull’esaltazione di idee semplicistiche e ingannevo-li: protezionismo, nazionalismo, xenofobia.
Le ragioni dell’onda d’urto populista sono note. Da un lato la stagnazione dei redditi, la povertà e le disuguaglianze in crescita dal 2008; dall’altro le ansie suscitate dalla rivoluzione digitale che ridisegna le imprese e i posti di lavoro, la crescente insicurezza interna ed esterna. Emerge così sotto i nostri occhi una situazione nuova, ad alto rischio. Sul piano economico si apre un ciclo di de-globalizzazione, sotto il segno del protezionismo, di una ripresa dell’interventismo statale e del rialzo dei tassi d’interesse. Su quello strategico il jihadismo, sulla difensiva in Iraq e in Siria, si avvia a una nuova mutazione, nel cuore delle società sviluppate. Sul piano geopolitico, le democrature — Cina, Russia, Turchia — vedono un’occasione per accelerare la propria espansione a fronte di un Occidente diviso, che dubita dei suoi valori e rimette in discussione le alleanze su cui si fondava la sua sicurezza, definite da Trump «obsolete e costose».
Per rispondere a queste sfide, le democrazie devono innanzitutto opporre resistenza alla corruzione e alle divisioni interne. I demagoghi, al pari degli autocrati, traggono forza dalla debolezza delle nazioni libere; ma una volta spente le illusioni iniziali non provocano altro che rovine, come si è visto nell’Argentina dei Kirchner e nel Venezuela chavista. Lo scoprono anche i britannici, con la crisi istituzionale, politica ed economica determinata da Brexit; e gli americani si preparano a loro volta a fare quest’amara esperienza. La chiusura delle frontiere e l’interventismo statale finiscono sempre per frenare crescita e investimenti, con perdita di posti di lavoro, aumento di inflazione e povertà, arretramento dello stato di diritto.
Ma per combattere i populismi non si può certo attendere il loro fallimento annunciato. Esclusione, insicurezza e perdita d’identità sono le tre mammelle del populismo. La stagnazione economica e il declassamento di interi settori della popolazione stanno minando la democrazia. È indispensabile rilanciare una crescita inclusiva che comprenda le infrastrutture, gli alloggi, la salute, e soprattutto la scuola e la formazione, che restano gli strumenti più validi per promuovere l’occupazione e preparare cittadini responsabili. Dovremo immaginare un nuovo contratto sociale tra lo Stato, le imprese e gli individui. La sicurezza, condizione prima della libertà e garanzia della pace civile, deve fondarsi su strategie globali per mobilitare, oltre alle politiche pubbliche, anche le imprese e i cittadini. Infine, la chiave di volta resta la solidità dello Stato di diritto, che va promossa attraverso il miglioramento della rappresentatività della classe politica e della qualità del dibattito pubblico.
Dopo la Brexit e l’elezione di Trump, l’Europa si trova in prima linea nella resistenza al populismo. Il miglior modo per batterlo è proseguire la costruzione dell’Unione Europea. L’Europa deve prendere in mano il proprio destino. Nella battaglia tra democrazia e populismo, il referendum italiano, le prossime elezioni presidenziali francesi e quelle legislative in Germania rivestiranno un’importanza cruciale. Sulla Francia pesa una responsabilità particolare: le presidenziali del 2017 non saranno solo l’ultima chance per un risanamento pacifico, ma costituiranno anche un’occasione per arginare l’ondata populista, scegliendo la via del riformismo e della ragione contro le passioni violente e il regresso.
L’autore è un giornalista di “ Le Figaro” © LENA, Leading European Newspaper Alliance ( Traduzione di Elisabetta Horvat)
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