martedì 1 novembre 2016

Il terrore della stampa italiana per l'autogol di Hillary

Al complottismo dei tifosi di Trump segue ora il complottismo dei tifosi di Clinton [SGA].

La previsione dello storico che dal 1984 non sbaglia: vince Donald
di Andrea Marinelli Corriere 1.11.16
Nessuno sa cosa diranno le urne l’8 novembre, ma c’è un professore che ha predetto tutte le elezioni americane dal 1984 e che non ha dubbi: vincerà Donald Trump. Allan Lichtman, 69 anni, insegna storia alla American University di Washington e le sue previsioni sono basate su un sistema di 13 domande vero/falso elaborato studiando ogni elezione a partire dal 1860: non ha mai fallito e quest’anno indica che a vincere sarà un candidato repubblicano, spiega al Corriere . Il metodo, che si fonda sulla convinzione che le elezioni siano innanzitutto una valutazione dell’operato del partito in carica, prende in considerazione la situazione economica, le riforme, l’instabilità sociale ed eventuali scandali: ogni risposta «vero» è un punto a favore del partito in carica, ma se almeno sei delle risposte sono false, a vincere le elezioni sarà il partito sfidante. «Quest’anno Trump ha reso la previsione molto più complicata del solito, ma secondo il sistema vincerà», spiega Lichtman, elettore registrato repubblicano. «I democratici sono andati male alle elezioni di metà mandato, il presidente in carica non è in gara, non ci sono state grandi riforme come quella sanitaria effettuata nei primi 4 anni di Obama, non ci sono stati importanti successi in politica estera e Clinton non ha il carisma del predecessore». A questi 5 punti, se ne aggiunge uno: «Il fattore terzo partito, ovvero Gary Johnson». Secondo il sistema, infatti, se può portare a casa almeno il 5% dei voti, il partito in carica viene sconfitto. E nei sondaggi Johnson naviga attorno a quella percentuale. «Questa sarebbe la sesta e decisiva risposta falsa». Tuttavia, sostiene Lichtman, l’atipicità di Trump potrebbe contribuire «a rompere i pattern della storia» e a trovare il baco di un metodo finora infallibile: «Il sistema indica una generica vittoria repubblicana», ma il tycoon «potrebbe andare contro i pronostici nonostante la storia sia dalla sua parte». 

Comey, il nemico a capo dell’Fbi che dà la caccia ai coniugi Clinton 
FEDERICO RAMPINI Rep 31 10 2016
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK.
Repubblicano, allievo di Rudolph Giuliani e più volte “persecutore” dei Clinton. È facile scivolare nella dietrologia su James Comey: l’amico del giaguaro. Il potentissimo capo dell’Fbi è nell’occhio del ciclone. Ha disobbedito al governo da cui dipende, e dal quale fu nominato. Riaprendo un’inchiesta (già chiusa a luglio) su Hillary Clinton a pochi giorni dal voto ha commesso un atto che la candidata definisce «senza precedenti, profondamente inquietante». Anche Loretta Lynch, la ministra della Giustizia da cui l’Fbi dipende — salvo l’autonomia nella conduzione delle indagini — è “furiosa” contro Comey. Accusato dalle più alte sfere dell’Amministrazione Obama di prevaricazione, strappo alle regole, infrazione di un protocollo che impone all’Fbi un dovere di riservatezza e di discrezione in prossimità delle scadenze elettorali. Per causa sua l’America chiude questa pazza campagna elettorale sfiorando una crisi istituzionale ai massimi livelli.
Dunque, chi è l’uomo che improvvisamente i democratici sospettano di fare il gioco del nemico? Quali motivazioni spingono il regista di questo clamoroso colpo di scena che può destabilizzare le previsioni sull’8 novembre? Comey non è un superpoliziotto di formazione, bensì un magistrato. Si è fatto le ossa da giovane nell’antimafia con l’inchiesta sul clan newyorchese dei Gambino, uno dei suoi primi incarichi. Per due anni lavora alle dipendenze di Rudolph Giuliani, oggi uno dei maggiori sostenitori di Donald Trump: Comey lo ebbe come capo all’epoca della Mafia Commission dal 1987 al 1989, quando Giuliani dirigeva la Procura nel Southern District di New York. Oggi 55enne, Comey è sempre stato repubblicano, ha versato fondi per John McCain e Mitt Romney, salvo dichiararsi “indipendente” solo di recente, dopo la nomina al vertice dell’Fbi da parte di un presidente democratico.
Il suo primo incarico di rilevo politico nazionale arriva nel 1996, e subito “incrocia” le vicende dei Clinton in modo ostile: è lui uno dei consulenti giuridici per la commissione d’inchiesta del Senato (a maggioranza repubblicana) che cerca d’incastrare i coniugi Clinton sul presunto scandalo Whitewater. La pista si rivela una bufala, ma presto i repubblicani troveranno un’alternativa più fruttuosa grazie a Monica Lewinsky. È ancora Comey, dopo avere ereditato la procura del Southern District of New York che era stata di Giuliani, a condurre un’altra indagine contro Bill Clinton, nel 2002, sul controverso perdono presidenziale al finanziere Marc Rich. Anche quella finisce nel nulla.
George W. Bush lo nomina viceministro della Giustizia, incarico che ricopre dal 2003 al 2005. Sono anni delicati perché segnati dalla massima espansione dello spionaggio anti- terrorismo post-11 settembre, dai poteri sempre più vasti della Homeland Security al gigantismo della Nsa, dalle polemiche su Abu Ghraib a quelle su Guantanamo, con un ruolo di punta del dicastero della Giustizia per “legittimare” le azioni del governo. È in quel periodo che Comey si conquista le credenziali di “colomba” che lo sdoganano fra i democratici: in un caso importante lui si rifiuta di autorizzare i programmi di spionaggio elettronico della Nsa. Quando lascia l’amministrazione Bush non lo fa per dissensi politici: lo attende un incarico ben più remunerativo nel complesso militar-industriale, diventa vicepresidente e rappresentante legale della Lockheed Martin, il numero uno nelle forniture di armi al Pentagono. Obama lo nomina alla guida dell’Fbi nel maggio 2013. In quel ruolo non è la prima volta che lui “rema contro” l’esecutivo che lo ha prescelto. Dopo gli scontri razziali di Ferguson e la nascita del movimento BlackLivesMatter lui prende le distanze dallo stesso Obama, sostiene che le critiche legano le mani alla polizia e la rendono meno efficace nella prevenzione del crimine.
La sua decisione di riaprire l’email-gate è tanto più irrituale, perché 48 ore dopo l’annuncio si è scoperto che l’Fbi non ha neppure ottenuto un mandato giudiziario per esaminare quelle email (contenute nel computer dell’ex marito della consigliera di Hillary). Dunque lui stesso non sa cosa c’è dentro, eppure ha creato un caos politico inaudito. La spiegazione più razionale? Comey si è convinto che anche se vince la Clinton i repubblicani conserveranno la maggioranza alla Camera e da lì lanceranno inchieste parlamentari a non finire. Non vuole finirci lui, su quella graticola.
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Emailgate, rivolta dei democratici contro l’Fbi 

“Nasconde informazioni esplosive su Trump e Putin”. Il tycoon rimonta, ma la rivale è avanti nel voto anticipato

ALBERTO FLORES D’ARCAIS Rep 1 11 2016
NEW YORK. A una settimana esatta dal voto la “guerra elettorale” tra Hillary Clinton e Donald Trump (e più in generale tra democratici e repubblicani) ha raggiunto lo zenit: con accuse feroci, insinuazioni personali, sondaggi incerti e la minaccia di WikiLeaks che annuncia a giorni “nuove e scottanti” rivelazioni.
Dopo la rinnovata indagine dell’Fbi — che ha ridato vigore alla campagna di The Donald e costretto sulla difensiva quella di Hillary — l’ex First Lady ieri ha battuto in lungo e in largo l’Ohio, uno dei “campi di battaglia” decisivi, ribadendo: «Guardino le email, il caso non c’è». Non era con lei Huma Abedin, la sua assistente che per via delle email trovate su computer e smartphone dell’ex marito Anthony Wiener (coinvolto in uno scandalo di sexting) è la causa indiretta di questa inaspettata “October Surprise” che rischia di farle perdere la Casa Bianca.
I grandi nomi del partito democratico sono scesi tutti al suo fianco. Accusano l’Fbi di scorrettezza e “giustizia a orologeria”, con maggior vigore dopo che si è saputo che il Bureau era a conoscenza di quelle email già da settembre e che nel gennaio scorso l’Fbi aveva provato (senza successo) a convincere il ministero di Giustizia ad aprire un’inchiesta sulla fondazione della famiglia Clinton. Per il popolare senatore del Nevada Harry Reid (capogruppo al Senato) il direttore dell’Fbi Comey avrebbe inoltre nascosto «informazioni esplosive sui legami stretti del candidato repubblicano e dei suoi consiglieri con il governo della Russia di Putin» e, secondo l’ex ministro della Giustizia Eric Holder, il direttore del Bureau ha «involontariamente e negativamente influenzato la fiducia dei cittadini, sia verso il Dipartimento di Giustizia sia verso l’Fbi». Con Barack Obama che, pur dicendosi «certo che Comey non abbia voluto influenzare il voto» e rifiutandosi di criticarlo e di difenderlo, ha fatto il suo debutto su Snapchat (l’app più popolare tra i giovani Usa) con un’intervistata di sostegno a Hillary, nel tentativo lastminute di convincere i Millennial ancora indecisi a recarsi alle urne (e votare Clinton).
Dai sondaggi arrivano segnali contraddittori, Trump guadagna nel consenso popolare, è in recupero o in testa in Stati che sembravano certi per Hillary (come la Florida) ma resta indietro tra chi ha già votato (cifra che ha superato ieri i 21 milioni). Una tendenza, quella alla rimonta da parte di Trump, che si stava delineando prima della nuova indagine Fbi.
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“Effetto Fbi”, la rimonta di Donald 

Il repubblicano recupera dopo la nuova indagine dei federali sulle email di Hillary Secondo i sondaggi Trump sarebbe avanti di 4 punti in Florida, uno degli Stati chiave 

Francesco Semprini Busiarda 1 11 2016
Dagli addetti ai lavori è stato già soprannominato «effetto Fbi», in gergo il colpo di scena con cui sembrano essere state mutate le dinamiche di queste elezioni presidenziali. Perché l’avvio di una nuova indagine da parte dei federali sul controverso utilizzo della posta elettronica da parte di Hillary Clinton durante le sue funzioni di segretario di Stato (e da parte del suo entourage) si legge chiaro nei numeri dei rilevamenti demoscopici. 
Come quello diffuso ieri da Politico/Morning Consult, ed effettuato nel fine settimana dopo le rivelazioni del capo dell’Fbi James Comey, che conferma il testa a testa tra Hillary Clinton e Donald Trump a 8 giorni dal voto per la Casa Bianca. La candidata democratica in un corsa a due mantiene un lieve vantaggio di tre punti col 46% delle preferenze, contro il 43% dell’avversario. Clinton è avanti di 3 punti (46 a 43) anche nella corsa a 4, col candidato libertario Gary Johnson al 7% e la candidata verde Jill Stein al 5%. C’è poi quello di domenica di Abc/Washington Post che vede il tycoon newyorchese incalzare la rivale democratica a un solo punto di distacco, 45% a 46%. 
Ciò che però impensierisce di più lo staff della ex First lady è il sondaggio sulla Florida diffuso domenica mattina dal New York Times, stato cruciale per la conquista della Casa Bianca che attribuisce a Trump un vantaggio di 4 punti. A ridimensionare le distanze è il rilevamento Nbc-Wall street Journal di ieri, sempre sul «Sunshine state» che parla di un sostanziale testa a testa. Il punto è che emerge una veloce ripresa del candidato del Grand Old Party in uno Stato «indeciso» per antonomasia, e probabilmente non solo in esso. Negli altri «swing state» come il Colorado e il Nevada il «voto anticipato» potrebbe aver dato una mano alla candidata democratica, dal momento che a esprimere la loro preferenza sono stati soprattutto gli aventi diritto iscritti alle liste del partito democratico.
E il fatto che abbiano votato prima della nuova inchiesta dell’Fbi mette Hillary al riparo da eventuali ripensamenti dell’ultimo minuto. Sono sino a oggi 21 milioni gli americani che si sono già espressi, ma le loro preferenze saranno conteggiato assieme a quelle dell’Election day solo l’8 novembre. Tuttavia come dicevamo si tratta per lo più di elettori Dem, anche se in alcune realtà si iniziano a registrare defezioni. Come in Carolina del nord, dove il voto anticipato degli afro-americani (e quindi tendenzialmente visino all’Asinello) è stato ben inferiore a quello del 2012. 
Ci sono poi altri Stati chiave come Pennsylvania e Ohio, tendenzialmente democratici ma dove la retorica di Trump ha trovato terreno fertile tra le tute blu dell’industria pesante colpita da una crisi imputata agli accordi di libero scambio e alle accondiscendenti politiche global di Washington. Insomma il momento è senza dubbio di Donald, il quale con il suo consueto fare irriverente ringrazia: «Grazie Huma! Grazie Huma! Ben fatto Huma! Ben fatto Anthony Weiner!», dice il tycoon facendo riferimento alla collaboratrice della Clinton, Huma Abedin, e al marito attorno ai quali ruota la riapertura dell’inchiesta sull’«emailgate». Hillary da parte sua si difende mostrando toni sprezzanti, ma che tradiscono timori profondi: «Il caso non c’è, guardino le mail, com’è giusto che sia, ma la gran parte delle persone su questa vicenda si è fatta un’idea tempo fa. Ciò che interessa è eleggere il prossimo presidente degli Stati Uniti».  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


Il repubblicano piace anche ai Millennials Sempre più scettici e delusi dalla politica 

Solo il 54% segue con interesse le elezioni presidenziali 

Busiarda 1 11 2016
Sarà l’effetto della nuova inchiesta sulle email di Hillary Clinton, ma Donald Trump sembra recuperare consensi anche tra i Millennials, ovvero la fascia di elettori sino a oggi a lui più ostile. I sondaggi parlano chiaro, il sostegno degli americani tra i 18 e 35 anni nei confronti della democratica si è assottigliato del 6%. Hillary è comunque di gran lunga la preferita tra gli elettori più giovani, ma l’indagine dell’Fbi e la diffusione di informazioni riservate da parte di Wikileaks sulle simpatie tra la ex first lady e le banche d’affari hanno rilanciato il consenso del tycoon anche tra gli under 35. «Voto Trump perché è una persona che non deve nulla a nessuno - dice Patrick Self, 21 anni, studente e attivista della Pennsylvania -. Sono sicuro che farà ripartire l’industria mineraria del carbone in questa zona, riporterà posti di lavoro in America e riformerà la sanità. In un paio di anni i costi delle spese mediche si raddoppieranno per colpa dell’Obamacare, quella legge non funziona e va cancellata». Sono molti i ragazzi della Rust Belt, la regione dell’industria pesante Usa in crisi da decenni a pensarla come Patrick. «Siamo un bel po’, non ci piace Obama e tanto meno la Clinton, vogliamo un cambiamento in politica, e pensiamo che Trump sia la persona giusta, sarà un successo». 
I Millennials o «Generazione Y» sono gli elettori nati dal 1981 in poi, studenti e professionisti con una spiccata empatia per con la comunicazione, i media e le tecnologie digitali. Mostrano segni di aumento della natalità tanto da essere definiti i nuovi «baby boomers», la generazione nata durante il boom economico. Oltre le grandi città prediligono realtà più a dimensione d’uomo, come Denver per i suoi costi contenuti, i redditi mediamente elevati e il suo Dna tecnologico. Nel 2008 votarono per Barack Obama, oggi però pur rimanendo attenti alla tematiche sociali appaiono politicamente scettici e distaccati delle logiche di palazzo. Ed è appunto questo l’elemento che emerge in maniera netta dalla partita per la Casa Bianca. Quando proprio da Denver partì l’avventura presidenziale di Obama con l’incoronazione alla convention democratica, i Millennials che seguivano la corsa per la Casa Bianca con passione erano il 74%, oggi la quota è drammaticamente scesa al 54%. 
Alle primarie molti tra gli under 35 avevano trovato una punto di riferimento nel movimento anti-sistema del senatore socialdemocratico Bernie Sanders. Era il cosiddetto popolo sanderista, messo fuori gioco dal partito democratico per blindare la candidatura della Clinton. I più sono ora disposti a turarsi il naso e votare per Hillary pur di non vedere Trump. Altri non si preoccupano della dispersione del voto e inseguono la terza via, soprattutto quella del candidato libertario Gary Johnson, ma anche quella «verde» di Jill Stein.
«Queste elezioni sono uno spettacolo indegno, sembra tutta una commedia e questo è curioso perché dovrebbe trattarsi di una cosa seria: crea molte preoccupazione e incertezze su come andrà a finire - racconta Anna Kalish giovane direttore vendite di New York -. Non sono una fan di nessuno dei quattro candidati, repubblicani, democratici o chi sta in mezzo. Però sembra che dobbiamo decidere il meno diavolo tra tutti loro, e faremo così». Delusi, scettici e sempre più distaccati dalla politica di palazzo, per certi versi non immuni a spinte populistiche anti-sistema e anti-globalizzanti. Questa è la fotografia dei Millennials che emerge da Usa 2016, col rischio che chiunque sia il verdetto delle urne, l’8 novembre, il distacco tra i giovani americani e chi li governa diventi ancora più profondo e insanabile. 
[F.Sem.]

Il popolo di d Hillary 
Paolo Mastrolilli Giovanna Pancheri Busiarda 31 10 2016
Donne, giovani, neri, ispanici, minoranze. Sono loro i protagonisti della «Fight Song», la «Canzone della battaglia», inno ufficiale della campagna presidenziale democratica. Loro sono il popolo che ha portato Barack Obama alla Casa Bianca nel 2008. Loro sono la coalizione che Hillary Clinton coltiva per conquistare la Casa Bianca. Sulla strada però Hillary ora si trova lo scoglio del «mailgate» che ogni giorno regala nuove puntate. Ieri il Wall Street Journal ha rivelato che sono 650mila quelle contenute nel laptop dell’ex marito di Huma Abedin (assistente di Hillary) che l’Fbi dovrà vagliare. L’esistenza di questo materiale era nota già a inizio ottobre agli agenti che hanno aspettato, rivelano fonti al Washington Post, fino a venerdì per informare il direttore dell’Fbi Comey.
Hillary tira dritto, coltiva i suoi elettori e prova a sfondare nei territori di Trump. Jason Klein, direttore della comunicazione della Main East High School, il liceo che Clinton frequentava a Chicago, la descrive come «studentessa eccellente e leader. È stata rappresentante di classe, membro del consiglio degli studenti, vinse il Primo Premio in scienze sociali». Klein aggiunge che anche da First Lady non ha mai dimenticato la sua comunità e ora la candidatura viene vissuta nella scuola, dagli studenti, come un motivo di orgoglio e di speranza. Soprattutto per le ragazze, che guardando al suo percorso si convincono di poter raggiungere obbiettivi che prima non pensavano essere alla loro portata. Tra armadietti chiusi con i lucchetti, corridoi grigi e azzurri, in questo imponente edificio dei primi anni del dopoguerra, sui banchi rivolti non verso la lavagna, ma uno di fronte all’altro, una giovane Hillary, forse, già sognava di poter rompere quel «soffitto di cristallo» e diventare la prima donna Presidente degli Stati Uniti. 
La Clinton è avanti su Donald Trump in media di 13 punti tra l’elettorato femminile, che a livello nazionale è più ampio di quello maschile. «Il fatto che sia una donna sta già facendo la differenza. Penso al problema delle molestie sessuali di cui non si è mai parlato prima. Le persone della mia generazione neanche le chiamavano molestie» spiega Margareth, entusiasta sessantenne durante un comizio della candidata democratica in North Carolina. Il «Fattore donne» lo ritroviamo nei piccoli centri degli Swing States come nelle grandi città. «Hillary si è sempre impegnata nei movimenti femministi» afferma Trudy, che incrociamo a pochi metri dalla casa di Barack Obama a Chicago. «Lei è dalla parte delle donne nelle politiche sull’istruzione, l’infanzia e la salute» le fa eco Ruth, che vive nel Bronx. Ma la sensazione diffusa, parlando con le donne di Hillary, è che più che votare per lei, votino anzitutto contro di lui. Le dichiarazioni sessiste e le accuse di molestie ai danni di Trump hanno offeso, smosso le coscienze e motivato la maggioranza delle elettrici ad andare a punirlo alle urne. 
L’odio nei confronti di Trump coalizza un altro bacino elettorale molto incisivo: la comunità nera. Come chiarisce una figura storica dell’attivismo afroamericano, Jesse Jackson: «Abbiamo bisogno di qualcuno che combatta per la giustizia razziale, l’uguaglianza, i sussidi. Qualcuno che abbia una visione. Non di un pazzo, che sta ai margini e che sarebbe un incubo per l’America». Jackson è amaramente consapevole che, seppure negli ultimi otto anni per la prima volta ci sia stata una First Family nera, il disagio della comunità resta elevato. Bernie Sanders lo denunciava nelle primarie: «Il 51% degli afroamericani tra i 17 e i 20 anni è disoccupato». A questo si aggiunge un conflitto razziale che si è acuito negli ultimi anni, come ha urlato durante tutta la campagna elettorale il movimento «Black lives matter». Rabbia e insoddisfazione che sembrano premiare la Clinton, che ha tra i neri oltre il 90% dei consensi. «Tutti quelli che conosco – racconta Jason da New York – votano per i democratici. Sono gli unici che possono portare soluzioni per il nostro mondo». Il giovane E.J. rincara da Chicago: «Io voto per lei per quello che ha già fatto in passato, e che farà in futuro per i neri». 
Ma le proteste, e a volte le violenze degli ultimi mesi, sono anche il sintomo di una generalizzata disillusione nella comunità che potrebbe spingere molti a restare a casa l’8 novembre. In controtendenza con quanto avvenuto nel 2012 quando, per la prima volta, la partecipazione al voto tra i neri è stata più importante di quella tra i bianchi. Allora però, si trattava di riconfermare il primo presidente nero della storia. E anche se Martin Luther King diceva che «il voto è la prima pietra su cui si fonda l’azione politica», quella dell’affluenza resta un’incognita pericolosa sul cammino di Hillary. Non solo tra i neri. 
Negli Usa ci sono circa 27 milioni di ispanici con diritto di voto, e gli analisti si aspettano che più di 13 milioni andranno alle urne. Un incremento del 17% rispetto al 2012, che sta spostando Stati repubblicani come Nevada, Colorado, Arizona, e in parte anche il Texas, verso i democratici. Secondo i sondaggi, in questo gruppo Clinton ha un vantaggio di circa il 50% su Trump. Molti ispanici votano automaticamente per il Partito democratico, perché è quello che difende di più gli immigrati e promette di integrare i circa 12 milioni di illegali: «Hillary – dice Juan, cameriere di un fast food a Las Vegas – è la candidata migliore per la nostra gente». 
I repubblicani hanno cercato di cambiare la tendenza, puntando sul fatto che gli ispanici sono conservatori sulle politiche sociali e per la famiglia, ma l’avvento di Trump ha vanificato questi sforzi: «Il suo stupido muro lungo il confine col Messico – dice Manuel in un casinò di Las Vegas – non serve a nulla e offende tutti». Hillary vincerà il voto ispanico, ma se risulterà determinante dipenderà dall’affluenza.
Un discorso simile vale per la comunità gay, alleata di Obama. Per ascoltarla siamo andati allo Stonewall Inn del Greenwich Village, dove negli anni Sessanta cominciarono le rivolte degli omosessuali. «Odio Trump, è il peggio che ci possa capitare», dice l’attivista Deborah Taylor. Hillary però genera scetticismo fra i gay, perché era contro i matrimoni gay: «Questa elezione – commenta Natalie – è come scegliere tra un padre alcolizzato e una madre drogata».
La componente della coalizione di Obama che ha creato più problemi a Hillary sono stati i giovani, che alle primarie hanno preferito Sanders, accusandola di essere strumento dell’establishment. Però davanti alla minaccia di Trump e all’accordo con Bernie per l’università gratuita, molti si sono rassegnati alla Clinton. Secondo l’ultimo sondaggio «GenForward» della University of Chicago, Hillary ha il 60% dei consensi tra i ragazzi di età compresa fra 18 e 30 anni. 
Per vincere l’8 novembre Hillary dovrà tenere insieme questa coalizione composta da donne, minoranze, giovani, sperando che la paura di Donald li spinga ad andare alle urne. 
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C’è una metà dell’America che trema a votare una donna 

L’ex First lady spacca il Paese e fatica a conquistare i cuori 

Gianni Riotta Busiarda 31 1 2016
A Elliott County, Est Kentucky, 7648 abitanti, non troppi di più di quando venne fondata, nel 1869 da 4433 anime, non si beve bourbon whiskey, la contea è proibizionista assoluta. In America ormai il 14% dei cittadini è nato all’estero, con punte del 40% a Los Angeles e 36% a New York, ma Elliott County è «nata in America» al 100%, i residenti tutti eredi di irlandesi e scozzesi arrivati con il pioniere Daniel Boone nel 1775. Gente tosta, che da un secolo e mezzo vota i democratici, resistendo fedele alle sirene repubblicane. Eppure, tra quelle boscaglie iper democratiche Hillary Rodham Clinton ha perso contro il socialista Bernie Sanders, alle primarie, 53% a 36%. Perché Hillary Clinton sta creando una coalizione politica che spacca gli elettori, dentro e fuori i partiti. Guardate la mappa di New York, Stato democratico, martedì 8 sarà tutta colorata in rosso per Trump, con tre soli punti blu, le città di New York, Rochester e Buffalo, a dare la maggioranza a Hillary.
Con lei donne, sindacati, studenti, impiegati, ceti urbani cosmopoliti, tecnocrati, «chi ha il passaporto vota Clinton, chi ha la patente vota Trump» sorride uno studioso di Big Data. Con la new economy, Hillary schiera le minoranze, afroamericani e ispanici. Al Javits Center, orrendo scatolone di vetro sul fiume Hudson dove aspetterà i risultati, a Hillary basterà contare il 40% del voto bianco e il 60% del voto di minoranze e sarà eletta. Trump ha raggranellato in Florida, dove è in sottile vantaggio, l’11% tra i neri e il 30% tra gli ispanici: gli inorriditi media liberal gli danno del «razzista, misogino, stupratore, fascista», non spiegando però come mai un terzo dei latino americani, contro cui invoca il muro anti-messicani, lo voterà.
La spiegazione è che Hillary non piace ai campagnoli di Elliott, come ai tradizionalisti metropolitani di Miami. Nei campus delle università non vedrete un manifestino per lei, un docente di studi afroamericani mi spiega «Non voto Hillary, è neoliberale, come Obama che non ha fatto nulla per i neri poveri». Ma una professoressa, femminista storica, mi tira per un braccio dentro il suo studio «Tengo il poster di Hillary nascosto dietro la porta. Sai perché? Perché il grande segreto 2016 è che siamo a mezzo passo dall’eleggere la prima donna presidente dal 1776, rompendo la più feroce segregazione della storia dell’umanità, e di che si parla? Di mail, polmonite, Putin, Wikileaks! Hillary bugiarda, Hillary da liberista a protezionista, Hillary che si sposta a sinistra, Scandalo, Vergogna. Lo facesse un uomo direbbero che volpe, machiavellico, un leader. Trump ha la maggioranza tra i maschi perché l’America ha eletto un afroamericano nel 2008, ma nel 2016 le trema la mano a votare per una donna».
Il doppio standard maschile pesa come un macigno. Hillary è stata una pessima candidata, vero. Ma, come sempre, First Lady in Arkansas e a Washington, senatrice di New York, segretario di Stato, le è proibito mostrare le sue emozioni. Tradita dal marito dovette giustificarlo, investita dalla destra per la sua fallita riforma sanitaria 1994 (ma forse il testo di Hillary è migliore del pasticciaccio Obamacare, i cui costi salgono ora del 25%) e per il raid terrorista a Bengasi, battuta dall’Obama candidato e zittita dal presidente su Egitto, Libia, Siria e Russia, malgrado avesse ragione, Hillary indossa ovunque una maschera impenetrabile, tailleur pantaloni, make up, sorriso. La «donna» Hillary Rodham Clinton, che lesse 43 biografie di First Lady (43!) per prepararsi, che il giorno in cui Bill Clinton scampa all’impeachment per Monica tiene una riunione per programmare la corsa al Senato, che scrive un best seller sulla pedagogia «perché nessuno mi chiamava al telefono», e che a Pechino esclama «I diritti delle donne sono diritti umani!», è nascosta dietro la maschera del «battere Trump», che i repubblicani si accingono a mettere sotto inchiesta nel 2017.
«Non esiste una formula, o almeno io non la conosco, per essere oggi donna di successo, soddisfatta. Sarebbe più facile avere un modello, come le nostre mamme e nonne. Ma non è più così: per fortuna» scrive la giovane Hillary che, anni dopo, matura, confessa all’amica Diane Blair: «Noi donne siamo come i canarini in gabbia che i minatori tengono per scoprire le fughe di gas. Ogni tanto battiamo le ali un po’ più forte, cinguettando su quel che vediamo intorno, felici se magari ci ascoltano fuori dalla gabbia». Una gabbia bisecolare che Hillary Rodham Clinton vuole infine spalancare, ma chi vuol tenerla chiusa userà ogni mezzo per impedirglielo.
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Philadelphia, la delusa Gli operai afroamericani sono finiti sulla strada “Ma ora tutti con Clinton” 

FEDERICO RAMPINI Rep 1 11 2016
PHILADELPHIA «AMERICA, Thirld World Country!» Non è Donald Trump ad avere inventato l’espressione. Ma da quando è lui a urlarla nei comizi, piace a molti elettori patriottici e sciovinisti che un tempo l’avrebbero presa come un’offesa. L’America una nazione da Terzo mondo? Vedere per credere. Un viaggio da New York a Philadelphia basta e avanza. Parto dalla Penn Station di New York, e potrebbe essere la stazione ferroviaria di Mumbai: sporca, caotica, male illuminata, un antro squallido. Salgo sul treno Acela, che qui spacciano per alta velocità ma di alto ha solo le tariffe. Tragitto scomodo, lungo e rumoroso, su un ferrovecchio che sbatacchia i passeggeri ad ogni curva. Infine l’arrivo a destinazione. La stazione di Philadelphia almeno ha una parvenza di solennità, è un monumento in finto stile neoclassico di fine Ottocento, reliquia di un’era di trionfi industriali per questa città. Ma appena metto il naso fuori m’imbatto in una processione di mendicanti. Benvenuto a Calcutta. Homeless a non finire, più numerosi che a New York. Third World Country: dallo stato penoso delle infrastrutture, alla miseria nelle strade del centro. Trump coglie nel segno.
Quando parla di Philadelphia, il candidato repubblicano punta il dito accusatore per un’altra ragione. «Ho ricevuto segnalazioni tremende, voti rubati, brogli a ripetizione. Tutti sanno di cosa sto parlando». Le leggende metropolitane sull’elezione truccata si aggrappano a pochi episodi. Nel 2008, prima vittoria di Barack Obama, qualcuno avvistò due militanti delle New Black Panthers a un seggio di questa città, e fu subito allarme “intimidazione”. Nel 2012, seconda vittoria di Obama, ai repubblicani parve sospetto che su 59 circoscrizioni non saltasse fuori neppure una – dico una – scheda elettorale con la croce su Mitt Romney. Infine è noto che MoveOn, l’ala radicale e movimentista del partito democratico che sostenne Bernie Sanders, sta tempestando simpatizzanti e conoscenti perché l’8 novembre saltino sugli autobus in partenza verso Philadelphia: “Get-Out-the-Vote-Road Trip to Pennsylvania!” È l’operazione porta-a-porta, per assicurare che proprio tutti vadano a votare per Hillary Clinton quel giorno, nessuno resti a casa. Niente brogli, niente morti che votano, la realtà è questa: Philadelphia con oltre 1,5 milioni di abitanti è un immenso serbatoio di voti democratici, soprattutto grazie alla comunità afroamericana (42% della popolazione urbana). Questa metropoli è cruciale per compensare altre zone industriali della Pennsylvania dove la classe operaia bianca voterà Trump. Con 20 “grandi elettori”, la Pennsylvania è uno Stato-chiave, se scivolasse verso il repubblicano potrebbe cambiare gli equilibri nazionali. Perché resti a sinistra, i neri devono votare in massa. Lo faranno anche senza candidato afroamericano alla Casa Bianca?
«Abbiamo 250.000 persone che vivono sotto la soglia della povertà – dice Malcom Kenyatta, giovane attivista nero – questa è la più povera delle grandi città americane». I dati del censimento sono perfino più drammatici, oscillano da 400.000 persone sotto la soglia di povertà “ufficiale” a 184.000 sotto la “profonda miseria” cioè meno di diecimila dollari di reddito annuo. Kenyatta è un militante democratico e appoggia Hillary. Da mesi bussa alle porte degli elettori neri per mobilitarli contro Trump. E tuttavia lo spettacolo di questa metropoli può dare ragione proprio al candidato repubblicano, quando parla di «una condizione nera peggiorata sotto Obama». A parte il presidente, Philadelphia ha un sindaco democratico e la Pennsylvania ha un governatore democratico. È un monocolore. Da sempre: 70 anni di dittatura della sinistra. In città gli elettori iscritti come democratici sopravanzano i repubblicani sette a uno. In consiglio comunale su 17 membri eletti 14 sono del partito di Obama e Clinton. Con quale effetto? Assenza di alternanza e debolezza dell’opposizione hanno coinciso con un dilagare della corruzione. «Negli ultimi 15 anni – rileva il sito locale BillyPenn.com nell’inchiesta One Party Town – almeno 40 politici locali sono stati condannati, per esempio il senatore Vince Fumo riconosciuto colpevole di 137 reati di corruzione, o nove giudici che vendevano le indulgenze sulle contravvenzioni. Quasi tutti democratici».
La Pennsylvania è uno degli epicentri del Secolo Americano: sesto Stato più popoloso e uno dei membri fondatori dell’Unione, culla della Costituzione, regno delle grandi dinastie siderurgiche come i Carnegie, Mellon, Frick. Oggi soffre la deindustrializzazione, le delocalizzazioni in Cina denunciate da Trump. E tra le vittime non c’è solo il “maschio bianco di mezza età” che si agita nei comizi della destra. Philadelphia è stata una roccaforte di classe operaia nera che doveva il suo benessere ai posti di lavoro ben remunerati pre-globalizzazione. La ong afroamericana Opportunities Industrialization Center nel suo studio Black Work Matters denuncia «la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro nel manifatturiero, sostituiti da posti meno pagati nei servizi. Le comunità afroamericane sono le maggiori vittime». Tra una settimana la vittoria di Hillary dipenderà da un atto di fede di queste comunità. Dovranno tornare alle urne in massa, a votare democratico. Come hanno fatto spesso: con così scarsi risultati.
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Effetto emailgate: Hillary perde terreno e Trump si avvicina
Stati uniti. Polemiche e retroscena sulla lettera del direttore Fbi: emergono divergenze su come gestire le indagini fra gli agenti e i superiori di Luca Celada il manifesto 1.11.16
LOS ANGELES A una settimana dal voto l’America continua allibita a contemplare il colpo di scena che ha gettato ancora più scompiglio nelle presidenziali del 2016. L’annuncio del direttore Fbi James Comey sulle nuove email legate a Clinton, rischiano di stravolgere le già incerte dinamiche di queste elezioni.
È del tutto possibile – infatti – che possano portare un palazzinaro da reality tv – che fino a un anno fa era una nota di colore in calce ad una insolita campagna – a un passo dallo studio ovale.
Sebbene non vi siano ancora dati che riflettano del tutto l’effetto emailgate, Trump registra un netto miglioramento nei sondaggi. Nazionalmente i due candidati sono più o meno pari. Nelle analisi stato per stato di Nate Silver (quelle che contano nel sistema maggioritario che assegna i voti elettorali) Clinton avrebbe ancora il 78% di probabilità di prevalere contro il 22% di Trump.
Questo però in un anno in cui i sondaggi si sono rivelati spesso poco affidabili, in cui un numero molto maggiore di repubblicani rispetto ai democratici ha partecipato alle primarie e con ampie riserve di incertezza.
L’annuncio di Comey sui «possibili nuovi elementi» relativi alle email di Hillary è lungi da un avviso di garanzia e proprio per questo senza precedenti per un agenzia che mantiene sempre il massimo riserbo su indagini in corso. Fino a ieri non c’era nemmeno un mandato legale per esaminare l’archivio di posta elettronica rinvenuto sul computer di Huma Abedin, braccio destro di Hillary, nel corso di indagini sul «sexting» del suo ex marito Anthony Weiner. L’autorizzazione a procedere è stata concessa all’Fbi solo domenica sera e gli agenti avrebbero cominciato solo ora ad esaminare le mail (forse 350.000). Potrebbero passare settimane prima di avere un idea di che si tratti. In assenza di nuovi e concreti elementi che gli elettori possano valutare prima delle elezioni di martedì prossimo, rimane il danno politico provocato dalle dichiarazioni di Comey ed è su di lui che si accentra l’attenzione (e almeno una querela, sporta da Richard Painter, ex avvocato della Casa bianca).
In America dove uno statuto, lo Hatch Act, vieta esplicitamente ai membri dell’esecutivo di influenzare il processo politico, l’annuncio di un’indagine preliminare alla vigilia di una presidenziale ha provocato enorme scalpore. Ieri una dozzina di ex procuratori federali, un gruppo bi-partisan composto da esponenti repubblicani oltre che dall’ex ministro della giustizia di Obama, Eric Holder, hanno firmato una petizione dichiarandosi «perplessi e stupefatti» dell’iniziativa di Comey più affine alla «trama di un reality che al protocollo giudiziario».
Ancora più aspri sono stati i toni della lettera spedita direttamente a Comey in cui Harry Reid, capogruppo democratico del senato, accusa il direttore Fbi di aver «assai probabilmente» violato la legge Hatch. Reid, che nella lettera si dichiara «pentito di avere a suo tempo favorito» la nomina di Comey, va oltre e lo accusa di colpevole faziosità in quanto Comey stesso «sarebbe a conoscenza di elementi dannosi sui rapporti fra Trump e Putin» che invece tiene nascosti. Dal caso cominciano anche a trapelare i retroscena di una october surprise che rappresenta una ingerenza politica che non si vedeva dai tempi di J. Edgar Hoover. Intanto sembra che l’esistenza delle nuove mail sul computer di Weiner/Abedin fosse nota agli agenti federali già da settimane anche se non sono chiare le meccaniche che hanno portato alla rivelazione di Comey. Parte del ritardo sembra dovuto alla gestione parallela delle indagini su Hillary e su Weiner da parte di diverse giurisidizioni all’interno del bureau. Sembra anche che esistessero forti divergenze di opinione su come gestire le indagini fra agenti e i superiori.
Sempre più confermati infine i diverbi fra Fbi, ministero di giustizia (contrario a rendere note le nuove mail) e dipartimento di stato. Solo un paio di settimane fa nuovi documenti avevano rivelato forte attrito fa quest’ultimo dicastero ed Fbi in occasione delle prime indagini su emailgate. Le dinamiche che hanno infine portato alla clamorosa decisione di Comey sembrano quindi sufficienti ad alimentare anni di dietrologie. Dallo stesso Comey per ora c’è solo la giustificazione di una «precisazione dovuta» al congresso. Poco per uno scandalo pilotato che potrebbe bastare ad influire sui sottili margini nella manciata di stati che decideranno il prossimo presidente.

Sondaggi e voto anticipato. I numeri più recenti della campagna
Hillary sembra tenere e passa al contrattacco di Mario Platero Il Sole 1.11.16
 E allora? Hillary Clinton ce la farà lo stesso fra 7 giorni, quando gli elettori sceglieranno il nuovo Presidente degli Usa? O lasorpresa d’ottobre, l’intervento a gamba tesa di venerdì di James Comey e dell’Fbi consentirà a Donald Trump di ribaltare il tavolo e vincere la Casa Bianca? Ancora ieri questo era l’interrogativo sulla bocca di tutti. In effetti le distanze fra i due candidati si sono accorciate, la sorpresa di ottobre ha avuto il suo impatto, ma Hillary ha ancora oggi le maggiori probabilità di vincere la Casa Bianca. Il rischio? Entrare in caduta libera. In pochi giorni Hillary è passata da una probabilità di vittoria dell’85% al 77,8% e Trump è passato dal 14% al 22,2%. Cosa succederà se in sei giorni si dovesse arrivare diciamo al 40% per Trump e al 58% per Hillary? A quel punto le cose diventerebbero davvero incerte. Ma le carte in movimento, con rinnovata energia ciascuno dei dei due candidati sta provando a contenere la crisi nel caso di Hillary e a cavalcarla nel caso di Trump. Per Hillary c’è solo una possibilità: il contrattacco, su ogni fronte, incluso quello che riguarda possibili rapporti ancora sconosciuti fra Donald Trump e il Cremlino. All’Fbi intanto è partita frenetica una corsa contro il tempo per cominciare a studiare le nuove email: sono solo doppioni o si tratta di materiale scottante? Che le verifiche finiscano prima dell’8 novembre è quasi impossibile.
Per il candidato repubblicano invece le cose si mettono meglio. L’unica possibilità, non più remota, è quella di risalire la china in stati chiave dove si trova in svantaggio. Per questo ieri era a Grand Rapids in Michigan. In teoria Hillary ha il 49,1% di preferenze in Michigan contro il 43,8% per Trump. In questa situazione Hillary ha l’82,1% di probabilità di vincere lo stato e i 16 voti elettorali contro il 17,9% di Donald Trump. Ma basterebbe uno spostamento minimo nei sondaggi per invertire questa situazione e i 16 grandi elettori del Michigan oggi in conto Hillary passerebbero a Trump.
Anche sul fronte dei grandi elettori Hillary sembra in testa: oggi dovrebbe avere una maggioranza di 317 grandi elettori contro i 219 di Donald Trump e per vincere ne bastano 270. Ma in pochi giorni Hillary ha già perso 15 voti elettorali. Se ne perdesse altri 30 cosa non impossibile si tornerebbe nell’incertezza più assoluta. E così ieri Hillary dalla Kent University in Ohio ha usato la provocazione del senatore Harry Reid capo (uscente) della minoranza al Senato secondo cui l’Fbi ha prove «di un rapporto stretto fra Trump e il Cremlino ma non le rivela»
È dunque l’Fbi a tornare al centro dell’equazione.
Ha fatto bene o male James Comey a diffondere la notizia secondo cui la sua agenzia aveva trovato nuove email di Hillary Clinton e dunque stave conducendo un’inchiesta per verificarne l’importanza? La cacofonia di esperti, ex segretari alla Giustizia è assordante. Molti dicono che Comey ha fatto il suo dovere. Di certo si è saputo che ha agito contro il parere del Dipartimento di Giustizia, si è detto che ha abusato dei suoi poteri e che potrebbe essere a sua volta perseguibile per aver violato il Hatch Act sulle “turbative elettorali”.
Ma il grande pubblico non segue questi dettagli vuole le risposte. E risposte sulle email prima dell’8 novembre le avremo difficilmente anche se da ieri con grande rapidità si è cominciato a passare al vaglio decine di migliaia di email. Ma a conferma che per Trump potrebbe essere ormai troppo tardi sfruttare l’assist dall’Fbi abbiamo avuto alcuni dati preliminari del voto anticipato. In Florida ad esempio il 20% della popolazione ha già depositato la scheda elettorale e sembra che Hillary sia comodamente in vantaggio su Trump. Complessivamente 22,5 milioni di americani hanno già votato e in generale Hillary sembra aver fatto meglio. E quei voti non saranno ricontati o rimessi in ballo per una sorpresa in arrivo dall’Fbi .

«Alternative Right», la nuova destra che corre con Trump
Stati Uniti. La campagna del tycoon, molto attiva sui social, ha più volte fatto eco alle posizioni dell’Alt-Right, segnate da una aperta islamofobia, dall’elogio dei ruoli di genere tradizionali, dalla denuncia della minaccia che graverebbe sulla civiltà occidentale anche per effetto dei flussi migratori e che arriva, nelle sue punte più estreme, a parlare di un «genocidio dei bianchi», oltre a criticare pesantemente il politicamente corretto di Guido Caldiron il manifesto 1.11.16
Quale che sia l’esito del voto dell’8 novembre, la candidatura di Donald Trump un primo risultato lo ha già prodotto: quello di far emergere le contraddizioni che albergano nel campo repubblicano e di offrire visibilità alla nuova destra statunitense. Più per opportunismo che per convinzione ideologica, il miliardario newyorkese ha infatti pescato a più riprese tra le parole d’ordine di quel circuito estremista, composto prevalentemente da blog, testate online e sedicenti think-tank che da alcuni anni va sotto il nome di Alternative-Right.
Una tendenza che rappresenta per molti versi la più importante corrente politico-culturale emersa ai margini dello schieramento conservatore dopo il ridimensionamento dei neocon che avevano influenzato la presidenza di George W. Bush e la guerra globale. Per quanto legata soprattutto ad un circuito di giovani frequentatori della rete, l’Alt-Right si situa in realtà ad un crocevia ideale tra le tendenze del cosiddetto paleoconservatismo che, messo in minoranza nei vertici del Partito Repubblicano fin dalla sfortunata corsa presidenziale del senatore dell’Arizona Barry Goldwater nel 1964, ha continuato ad alimentare una parte della base del Grand Old Party fino ad oggi, e le tendenze identitarie, xenofobe e neoreazionarie emerse soprattutto in Europa nel corso degli ultimi decenni.
Se Goldwater incarnava, in un clima ancora caratterizzato prima di tutto dall’anticomunismo, una posizione di difesa della supremazia bianca nel pieno dell’era dei diritti civili, ostile all’immigrazione e al libero scambio, per molti versi affine a quanto affermato ora da Trump, tra gli adepti della «destra alternativa» circolano abitualmente le opere degli autori che più hanno influenzato le ultime generazioni del radicalismo di destra a partire dal Vecchio Continente: dai protagonisti della Nouvelle Droite transalpina Guillaume Faye e Alain de Benoist, fino al russo Alexander Dugin, ideologo dell’eurasiatismo e già consigliere di Putin.
Prima di emergere come un’area a sé stante, ma non estranea agli ambienti repubblicani, il circuito degli eredi di Goldawater si è a lungo riconosciuto nella figura di Pat Buchanan, candidato alle primarie del Gop negli anni Novanta in contrapposizione, su una linea isolazionista in politica estera, neonativista in materia di immigrazione e pronta ad inseguire ogni sorta di tesi complottista che si trattasse dei processi di globalizzazione come dell’11 settembre, con l’establishment del partito all’epoca guidato da Bush padre, già capo della Cia.
Sarà proprio una delle figure di punta degli ambienti paleoconservatori, l’universitario Paul Gottfried a parlare per la prima volta nel 2008, non a caso lo stesso anno della morte di William F. Buckley, il fondatore della National Review e a lungo sorta di bussola intellettuale della destra statunitense in grado di mantenere un equilibrio tra le sue diverse componenti, della nascita di una «alternative right» in grado di assicurare il predominio alla tendenza più squisitamente nazionalista di questo ambiente. La vittoria di Trump alle primarie repubblicane va inserita anche in questo contesto.
La campagna del tycoon, molto attiva sui social, ha più volte fatto eco alle posizioni dell’Alt-Right, segnate da una aperta islamofobia, dall’elogio dei ruoli di genere tradizionali, dalla denuncia della minaccia che graverebbe sulla civiltà occidentale anche per effetto dei flussi migratori e che arriva, nelle sue punte più estreme, a parlare di un «genocidio dei bianchi», oltre a criticare pesantemente il politicamente corretto.
Trump ha scelto Stephen Bannon, già direttore del sito-faro di questa tendenza, il Breitbart News, come proprio stratega in quest’ultima fase della corsa alla Casa Bianca. Allo stesso modo, le figure più note della «destra alternativa», dal blogger Milo Yiannopoulos allo scrittore Richard Spencer, fino ai giornalisti Steve Sailer e Jared Taylor, hanno schierato le forze di cui dispongono in rete e sui social, in grado di raggiungere un pubblico vastissimo in cui coabitano elettori repubblicani e suprematisti bianchi, a favore di The Donald con la promessa che, in ogni caso, «nulla resterà come prima dopo queste elezioni».

Elezioni Usa La «nebulosa» estremista che vota Trump
di Marco Valsania Il Sole 1.11.16
«Siamo al momento decisivo. Me lo sento, se non eleggiamo Trump, se non ci facciamo ascoltare, ci sarà un collasso finanziario, una guerra mondiale, un terzo della popolazione verrà uccisa».
La battaglia tra Donald Trump – l’allarme apocalittico è di un suo sostenitore – e Hillary Clinton è porta a porta e senza risparmio di colpi. In gioco la cattura degli elettori nelle regioni incerte. Già 22 milioni hanno scelto, un quarto del totale in Stati cruciali quali Colorado, Florida e Nevada. Un corpo a corpo che mobilita gli eserciti più fedeli ai candidati. E se l’armata di Hillary ha già dato prova di sé, quella di Trump ha contorni inediti, labili e controversi, supplendo alla cautela dell’apparato conservatore con gli entusiasmi della nuova destra e il disagio o la rabbia di ceti popolari bianchi. Sarà dalla tenuta e ampliamento o meno di questa tumultuosa coalizione, rinvigorita oggi dagli scandali di Hillary, che dipenderà qualunque riscossa di Trump ai seggi.
Lo spettro dei disastri in caso di sconfitta di Trump è stato evocato di recente da Alex Jones, texano 42enne, gran teorico di complotti e tribuno di una nebulosa estremista definita Alt Right, la destra alternativa e radicale americana. Una nebulosa che, per scelta o per caso, ha trovato voce nella campagna di Trump. Quello stesso spettro della terza guerra mondiale è stato citato dal magnate immobiliare se venisse eletta Clinton. Al movimento possono essere ascritti altre crociate diffuse tra i sostenitori di Trump: dai “birthers”, che sospettano Barack Obama non sia americano, all’intransigenza pro-armi, fino a chi crede che il massacro nella scuola di Newtown sia stato una messa in scena dei nemici del Secondo emendamento. È un crogiuolo di tematiche che ha aiutato Trump a rivolgersi a quella che ha identificato come la sua vera base elettorale, la “working class” bianca, i ceti medi e bassi, spesso emarginati dalla politica oltre che dall’economia e da decenni in fuga ormai dai democratici. Negli anni 60 era il partito di Hillary a ottenere il 55% dei loro consensi, poi crollati al 35%, risaliti al 41% con Bill Clinton e nuovamente scesi al 36% con Obama nel 2012. L’esito di sommovimenti sociali e politici: i democratici che sposano diritti delle minoranze e coalizioni multiculturali; i repubblicani che si fanno difensori di valori tradizionali; l’erosione del sindacato; e ciò che leader della sinistra come Robert Reich e Thomas Frank chiamano il “tradimento” dell’adesione a dottrine di liberalizzazione combinata con l’incapacità di parlarne la lingua. Trump si è gettato in questo vuoto, anche se è un paladino discutibile. Tra i suoi limiti c’è proprio l’abbraccio soffocante della destra radicale. Trump, fin dall’inizio, ha faticato a sconfessare simili compagni di strada, compreso David Duke, l’ex leader del Ku Klux Klan. Atteggiamenti che minacciano di alienare almeno una parte di questo stesso elettorato popolare. In particolare le donne stanno prendendo le distanze: Trump domina Clinton di ben 43 punti tra gli uomini bianchi senza laurea, ma nell’identico elettorato femminile, il 55% di questi potenziali votanti, Hillary corre quasi alla pari.
La Alt Right è fatta di anonime “sturmtruppen” e chat digitali come anche di leader di gruppi neonazisti, think tank anti-semiti e filosofi della discriminazione scientifica. Il Breitbart News Network non ne è immune: l’ex presidente Steve Bannon, oggi chief executive della campagna di Trump, aveva definito la sua rete come la vera “piattaforma” dell’Alt Right. E il suo technology editor Milo Yiannopoulos – 33enne britannico, gay dichiarato e gusto per lo shock – ha composto quest’anno l’articolo che ha “sdoganato” la destra alternativa, ispirata più dalla sfida all’establishment e alla “correttezza politica” che a ideologie. Ma i critici segnalano fenomeni ben più oscuri. Gli attacchi antisemiti che invocano il nome di Trump sono in brusco aumento: 800 giornalisti sono stati oggetto di persecuzioni online, con minacce o il volto giustapposto a vittime dei campi di concentramento. Trump non ha creato questa miscela che minaccia sconquassi nelle urne. È stata piuttosto la crisi del partito repubblicano a dare spazio a Trump e alla Alt Right nel nome di un nuovo populismo di destra. Da sempre il populismo americano ha mostrato anime progressiste e oscurantiste alle quali attingere. Nel primo caso, a fine ‘800, il People’s Party dei piccoli agricoltori, seguito dal sindacato della confederazione Afl durante il New Deal. Una tradizione che spesso ha fatto da filtro a spinte più radicali di rivolta dal basso verso l’alto, con apici recenti nella candidatura del leader dei diritti civili Jesse Jackson nel 1988 e quest’anno del “socialdemocratico” Bernie Sanders. Diverso è il populismo conservatore, illustrato da John Judis nella Populist Explosion, che all’estremo idealizza un popolo bianco usurpato da una malsana alleanza tra elite e masse tacciate di inferiorità, dagli immigrati a minoranze etniche e religiose. Si insedia nel Sud con il governatore democratico dell’Alabama George Wallace (“segregazione oggi, domani e sempre”) e approda ai repubblicani che conquistano la regione con la regia della “strategia meridionale” di Richard Nixon. I progenitori più diretti di Trump sono leader repubblicani degli anni Novanta quali Pat Buchanan, il primo a proporre a un muro contro immigrati. Un decennio più tardi esplodono i Tea Party, commistione di valori religiosi e sociali ultra-conservatori, esprimendo la candidata alla vicepresidenza Sarah Palin.
Trump sta scrivendo un nuovo capitolo di questa storia appoggiandosi – anche – agli arsenali di una Alt Right che oggi può vantare persino un’ala di sicurezza nazionale, incarnata dall’ex generale e direttore dei servizi segreti delle Forze Armate Michael Flynn. Una destra che fa ampio uso dei nuovi strumenti di social media, inclusi siti quali Reddit e Twitter. Ma i cui ideali sono spesso antichi. Ci sono gli “scienziati”, che riconducono al Dna le differenze razziali e celebrano la superiorità dell’identità bianca. I Neoreazionari e Archeofuturisti, ispirati dall’ordine del mondo che fu. Nonché nazionalisti bianchi e seguaci della “manosphere”, che idealizza il Maschio Alfa. Il loro punto di raccolta si trova in Jared Taylor e Richard Spencer, fondatori del National Policy Institute. Spencer organizza conferenze a Washington, l’ultima in marzo dedicata alla nuova Identity Politics della destra. Ma giacca e cravatta non possono esorcizzare le identità più inquietanti, l’antisemitismo dell’ex professore universitario Kevin McDonald o il neonazismo del Daily Stormer di Andrew Anglin. Per non citare i cosiddetti 1488ers, 14 come le parole dello slogan «Dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo e un futuro per i bambini bianchi»; 88 come due volte l’ottava lettera dell’alfabeto – H – per Heil Hitler. 

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