mercoledì 16 novembre 2016

Scuola: il darwinismo sociale autolesionistico dei raccomandati


Competizione sfrenata in ogni campo, anche quando la posta in palio è risibile e persino in quell'ambito che per statuto ontologico (ma anche dal punto di vista di una sana razionalità strumentale) dovrebbe essere il più lontano dall'utilità immediata: quello della scuola e dell'educazione.
Il renzismo ha molta immaginazione e interpreta se stesso come una grande - improbabile - modernizzazione.
E perciò ha questa fissa del "merito" e della valutazione, anche se poi l'incompetenza tecnica media e l'approssimazione culturale complessiva dei suoi adepti dovrebbe consigliare a questi ultimi, piuttosto, di buttarla in caciara e confondere le acque appena possibile, invece di rischiare la pelle evocando il darwinismo sociale [SGA].

“Ecco perché con la cultura si mangia” In un libro il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco rovescia il più classico dei luoghi comuniIGNAZIO VISCO Rep 16 11 2016
POCHI anni fa in un saggio di ampia portata ( Mass Flourishing — How Grassroots Innovation Created Jobs, Challenge, and Change, Princeton University Press, 2013), già divenuto oggetto di un approfondito dibattito quando non di ispirazione, Edmund Phelps, premio Nobel per l’economia nel 2006, affrontava un tema cruciale: da che dipende il rallentamento delle economie che si osserva ormai da più di un decennio, e verso dove siamo indirizzati?
Domande, queste, che si intrecciano con la discussione, spostatasi ormai dall’accademia alle stanze della politica, su che fare per contrastare la “stagnazione secolare” che discende secondo alcuni dalle crescenti difficoltà di trasformare in investimenti il risparmio che si genera nell’economia, e secondo altri, non necessariamente in alternativa, dalla tendenziale minor crescita della produttività dopo decenni di straordinario sviluppo tecnologico e organizzativo.
SEGUE A PAGINA 37

AL DI LÀ di spiegazioni contingenti — crisi finanziaria globale, difficoltà dei paesi emergenti, invecchiamento della popolazione — e in contrasto forse con le richieste di accrescere con forza lo stimolo della domanda pubblica nell’economia, Phelps concludeva con alcune notevoli affermazioni: il progresso conseguito negli ultimi due secoli da masse crescenti di persone è il risultato di un diffuso e crescente dinamismo di fondo derivato dall’affermarsi, dal “fiorire”, di valori quali il bisogno di creare, la propensione a esplorare, la ricerca di lavori più appaganti, il desiderio di affrontare nuove sfide e di avere successo; questo dinamismo si è andato affievolendo insieme con l’affermarsi di un “corporativismo” volto nel migliore dei casi, quando non a difendere posizioni di rendita, a sostenere gli “esclusi” e i più deboli con strumenti di ridistribuzione o di contrasto alla povertà destinati a perpetuare lo status quo, anziché a creare nuove occasioni di sviluppo; questa tendenza, ormai visibile secondo Phelps negli Stati Uniti, è da tempo prevalente nell’Europa continentale, in particolare in Italia, con una crescita dell’economia e una creazione di nuovi posti di lavoro dipendenti non da innovazioni interne all’area ma dal dinamismo esterno, anch’esso, come detto, ora in rallentamento; occorre quindi ristabilire a tutti i livelli — di legislazione e di governo, di regolazione di mercati e intermediari, di conduzione delle imprese — l’apertura all’innovazione, la disponibilità a guardare oltre il breve termine, l’affermarsi, diremmo, di una “classe dirigente” consapevole e preparata, aperta a coltivare risorse quali “creatività, curiosità e vitalità”, a ricercare l’equità con l’inclusione più che con la ridistribuzione.
Insomma, un “vaste programme”, con fondamentali riferimenti culturali: dalla vitalità di un Omero o di un Cellini al sogno e all’immaginazione del Don Quixote di Miguel Cervantes e dell’Hamlet e del King Lear di Shakespeare; dalle “passioni” e dall’enfasi sulla crescita della conoscenza nella società di David Hume all’“Il faut cultiver notre jardin” nel Candide di Voltaire; dal “life, liberty and pursuit of happiness” di Thomas Jefferson all’importanza del “divenire” sull’”essere” di intellettuali pur così diversi come Montaigne, Ibsen, Kierkegaard, Nietzsche o Henri Bergson, fino al modernismo di un Wilde, un Verdi e un Mascagni, e molto altro. [...] Il capitale umano non potrà infatti più coincidere, se mai l’ha fatto, con il bagaglio conoscitivo delle persone; la produttività di chi lavora non sarà più necessariamente legata a conoscenze tradizionali acquisite una volta per tutte nella scuola e nell’università e applicate in modo standard nel corso della vita lavorativa. Assumeranno sempre più importanza le “competenze”: la capacità di mobilitare in maniera integrata risorse interne (saperi, saper fare, atteggiamenti) ed esterne, per far fronte in modo efficace a situazioni spesso inedite, non di routine. Sempre più importanti saranno l’esercizio del pensiero critico, l’attitudine a risolvere i problemi, la creatività, la disponibilità positiva nei confronti dell’innovazione, la capacità di comunicare in modo efficace, l’apertura alla collaborazione. Insomma, i valori messi in luce da Phelps.
Servirà più cultura, e bisognerà superare una buona volta e definitivamente la barriera che da noi separa la cosiddetta cultura “umanistica”, da valorizzare, da quella “tecnico-scientifica”, su cui investire. Al termine “cultura”, dalle molte sfaccettature e spesso generatore di equivoci (ma ricordiamo quanto bassa è da noi la “spesa culturale” — nella definizione, pur limitata, di spesa in libri non scolastici, giornali e riviste, cinema, concerti, teatri, musei — con una caduta da 30 a 25 euro mensili tra il 1997 e il 2011, a fronte di un aumento di oltre il 20 per cento della spesa media complessiva), io preferisco il termine, in un’accezione ampia inclusiva delle nuove competenze, di “conoscenza”. E se oltre i fatti sono importanti i valori va sottolineato con forza che oltre a un impatto positivo sulla crescita economica ne possono derivare contributi fondamentali per il rafforzamento del senso civico e la comprensione dell’importanza del rispetto delle regole e degli altri, per l’affermazione del diritto contro l’accettazione passiva di livelli di corruzione inaccettabili e dannosi, per non parlare di intollerabili abusi e di pericolosi atteggiamenti nei confronti della criminalità organizzata.
Ma bisogna essere consapevoli che non si tratta solo di chiedere allo Stato di fare la sua parte, e quindi “di più”. Si tratta di maturare questa consapevolezza a livello collettivo, individui e imprese, giovani e anziani, dipendenti e non. Perché investire in cultura, in “conoscenza”, è la risposta migliore che possiamo dare alle difficoltà di oggi e all’incertezza del futuro, consapevoli che finirà per ripagarci, con gli interessi. Perché, come scriveva ormai quasi tre secoli fa Benjamin Franklin nel suo Almanacco, “An investment in knowledge pays the best interest”, il rendimento dell’investimento in conoscenza è più alto di quello di ogni altro investimento.
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