mercoledì 16 novembre 2016

Alla Busiarda il premio settimanale per le quotidiane diffamazioni della Russia





Da mosca le prove di un nuovo ordine internazionale 
Cesare Martinetti  Busiarda 16 11 2016
È bastata una settimana a Vladimir Putin per prendere le misure del nuovo mondo che si annuncia con Donald Trump alla Casa Bianca. Non sappiamo cosa sia siano detti i due leader nel primo, non breve, colloquio telefonico. Ma sta di fatto che ieri mattina da Mosca sono arrivate due notizie: il potente ministro dello Sviluppo economico Alekseij Uliukaev era stato arrestato mentre incassava una super tangente intanto ad Aleppo l’aviazione russa aveva intensificato i raid aerei come non accadeva da giorni. Due avvenimenti senza alcun rapporto l’uno con l’altro se non che sembrano entrambi segni premonitori di una nuova stagione nell’ordine internazionale.
Non ci sono commenti americani, né ci potrebbero essere dal momento che la politica vive a Washington in quel periodo di sospensione che divide il voto nazionale dalla vera e propria elezione del nuovo presidente che avverrà nel Congresso a gennaio. C’è un leader in funzione che non è più tale e un nuovo che non lo è ancora. Ma il «cambio» che segna l’esito di queste elezioni è così marcato che rende febbrili le reazioni ad ogni minimo segnale che esce dall’entourage di Trump. È per questo che la telefonata con Putin, immediatamente divulgata, si può considerare il primo gesto di politica estera del futuro presidente.
Anche i russi, naturalmente, l’hanno interpretato come tale. Il portavoce del Cremlino ha subito sottolineato il comune impegno nella lotta «contro il terrorismo» che tradotto dal codice significa via libera a quella che ieri è poi stata definita dal ministro della Difesa Sergej Shojgu una «vasta operazione militare in Siria». Va da sé in appoggio alle truppe di Assad. 
Un sincronismo troppo perfetto che può avere due significati. O l’azione è stata concordata tra i due leader o è Mosca che ha preso l’iniziativa a poche ore dal colloquio tra i due presidenti per accreditare l’inizio di una nuova stagione nei rapporti Usa-Russia. Difficilmente sapremo la verità, ma un fatto è chiaro: Putin agisce con rinnovata determinazione. In Medioriente e in casa. Da questo punto di vista è persino più interessante l’arresto del ministro Uliukaev, un potentissimo del regime, avvenuto in circostanze romanzesche. Agenti dell’Fsb (quello che una volta chiamavamo Kgb) dopo averlo controllato e intercettato per mesi si sono camuffati da faccendieri tangentisti e l’hanno messo in trappola. L’agenzia governativa Ria-Novosti non ha trattenuto l’entusiasmo: «Preso con le mani nel sacco». Lo sfondo è una di quelle operazione finanziarie con cifre da capogiro: 5,2 miliardi di dollari per l’acquisizione del sesto produttore nazionale di petrolio, la Bachneft, da parte del colosso statale Rossneft. 
Al di là del merito, il timbro politico dell’avvenimento è enorme. Per quanto il portavoce del Cremlino Peskov si mostrasse sorpreso dalla notizia, ieri mattina, nessuno a Mosca dubita che un ministro del peso di Uliukaev possa essere arrestato senza che il presidente ne sia informato. Non accadeva dai tempi di Stalin. I cremlinologi ci spiegano che si tratta di una nuova edizione dell’eterna lotta tra falchi conservatori e i moderati, tra i quali figurava l’arrestato. È come se l’arrivo al potere di Donald Trump si stia trasmettendo come un’onda di energia sulle destre di tutto il mondo. È presto per dirlo. Quel che sembra certo è che per ora, a Mosca, al centro del gioco c’è Vladimir Putin.
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Resa dei conti dentro la Duma I falchi di Putin sfidano l’ala liberale 
Con l’economia in crisi lotta di potere tra riformatori e conservatori 

Anna Zafesova Busiarda 16 11 2016
«Una tangente da amministratore di campagna, non da ministro»: la valutazione di Anton Pominov, responsabile di Transparency International Russia, spiega perché a Mosca nessuno crede che l’arresto del ministro dell’Economia Alexey Uliukaev per una mazzetta da 2 milioni di dollari sia l’inizio di una «mani pulite» russa. In un Paese dove la corruzione non solo è endemica, ma è il collante stesso del patto di consenso del potere con la classe dirigente, si viene arrestati per tangenti soltanto nell’ambito delle lotte di potere. E lo scontro che si intuisce dietro l’incredibile spettacolo di un ministro in carica, arrestato nella notte e portato dopo l’interrogatorio in tribunale - non accadeva nemmeno ai tempi di Stalin - deve essere di portata mai vista. Per di più nel momento in cui Putin mostra i muscoli anche sul fronte estero con la nuova offensiva in Siria.
Al Cremlino dello Zar coabitano da sempre, in una perenne guerra, due fazioni, riformatori e conservatori, falchi e colombe, nazionalisti e liberali, chi vuole la cooperazione con l’Occidente e chi sogna di sfidarlo. E faceva parte delle regole del gioco imposte dal presidente che a nessuna delle due veniva mai permesso di prevalere troppo. Così come faceva parte del codice d’onore del putinismo evitare ai fedelissimi l’onta di licenziamenti e arresti, anche per non screditare l’autorità del potere. 
Entrambe queste regole sono state fatte saltare nel caso di Uliukaev, esponente di spicco di quei tecnici liberali che da sempre amministrano l’economia russa, al governo e alla Banca centrale. Sono il volto «civile» del regime, quelli che vanno a parlare, in buon inglese, a Washington e Davos, rassicurano gli investitori internazionali, quelli grazie ai quali l’economia russa non è ancora finita come il Venezuela di Chavez. Con grande pragmatismo Putin non ha mai permesso che finissero in mano ai «siloviki», gli esponenti degli apparati repressivi, lasciando ai loro sogni di grandezza imperiale la politica interna, e parzialmente quella estera.
Ora questo equilibrio è stato rotto, e i falchi stanno ricompattando le fila: il caso Uliukaev è in mano all’inquirente che aveva arrestato l’oppositore Alexey Navalny e a uno dei giudici del «caso Magnitsky», l’avvocato morto in carcere dopo aver denunciato la corruzione dei funzionari russi, e l’ex capo dell’Fsb Nikolay Kovaliov esulta per l’arresto del ministro, colpevole secondo lui innanzitutto di aver scritto una poesia nella quale dice a suo figlio di emigrare dalla Russia. 
La Duma è in fermento, e in tanti hanno già auspicato una svolta dal rigore e dal mercato allo statalismo e al protezionismo. Il governo di Dmitry Medvedev appare fragile, gli imprenditori nel panico, gli investitori internazionali preoccupati. Ma se il mandante dell’operazione è Igor Sechin, il presidente di Rosneft e leader dei falchi, l’impatto d’immagine non fa parte delle sue preoccupazioni, come aveva già dimostrato facendo precipitare la Borsa di Mosca con l’arresto di Mikhail Khodorkovsky, nel 2003. La Borsa ci mise anni a riprendersi, ma intanto la Rosneft di Sechin aveva ingoiato la Yukos dell’oligarca, diventando la maggiore compagnia petrolifera russa.
Con la crisi la guerra tra i potentati economici dei clan putiniani non fa che inasprirsi, e con l’approssimarsi delle elezioni presidenziali del 2018 la lotta per il potere interno diventa prioritaria rispetto alle necessità di immagine all’estero. L’arresto di Uliukaev potrebbe essere la prima cannonata della campagna elettorale, in un momento in cui parte dell’élite russa è convinta di non dover più cercare consensi in Occidente, perché sta per crollare, o comunque non sarà più quell’Occidente a chiedere alla Russia democrazia e stato di diritto.
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Mosca lancia l’attacco finale a Idlib e Aleppo 
Giordano Stabile  Busiarda 16 11 2016
Con il presumibile ok del presidente eletto Donald Trump, Vladimir Putin lancia l’assalto finale ad Aleppo e Idlib e punta a chiudere la partita siriana entro gennaio. L’offensiva interna, che ha visto ieri l’arresto del ministro Alexei Ulykayev, fa così il paio con quella sul fronte esterno. 
I massicci bombardamenti sono cominciati nella notte fra lunedì e martedì. Artiglieria, missili da crociera Kalibr lanciati dalle fregate russe nel Mediterraneo, cacciabombardieri in azione dalle basi vicino a Tartus e Lattakia e, per la prima volta nella storia, Mig-29 decollati dalla portaerei Admiral Kuznetsov, ammiraglia della flotta di Mosca.
I tempi scelti dal Cremlino tengono assieme circostanze politiche e strategiche. 
L’esercito siriano, con l’appoggio di milizie sciite libanesi e irachene, ha appena stroncato la controffensiva lanciata a fine ottobre dai ribelli, che avevano tentato di aprire una breccia nell’assedio e portare soccorso ad Aleppo Est. I gruppi jihadisti hanno subito perdite pesanti. In più, Ahrar al-Sham e Al-Zinki, le formazioni più combattive, se la sono presa con i ribelli moderati del Free syrian army (Fsa), accusati di «vigliaccheria e corruzione», e li hanno attaccati a Nord di Aleppo.
Sono gli stessi gruppi che controllano Aleppo Est e gran parte delle provincia di Idlib. La guerra intestina è destinata a indebolirli. Le tensioni fra salafiti jihadisti e combattenti «laici» sono esplose anche per la sconfitta di Hillary Clinton alle presidenziali Usa. L’ipotesi di una no-fly-zone in grado di bloccare i raid russi è tramontata, e i gruppi estremisti non trovano più ragioni nell’alleanza con i moderati che ora non riescono neanche a garantire l’appoggio incondizionato dell’America alla «rivoluzione siriana».
Per Damasco e Mosca sono invece maturi per cogliere il frutto-Aleppo, la vittoria che stroncherebbe le ultime velleità dei ribelli nella Siria occidentale. La lunga navigazione, con qualche problema tecnico, della Kuznetsov dal Mar Artico al Mediterraneo ha permesso al Cremlino di schierare tutta la potenza di fuoco. Ma ancor più importanti sono i missili Kalibr della moderna fregata Admiral Grigorovich. Versione russa dei Tomahawk, i Kalibr sono precisi e devastanti più delle bombe degli aerei.
Sotto assedio da tre mesi, a corto di munizioni e con scorte alimentari e di gasolio per appena due settimane, i combattenti di Aleppo Est sono al limite della resistenza. Fonti militari siriane rivelano che i comandi hanno posto come «deadline» per la fine dell’operazione la prima metà di gennaio. A farne le spese sono però anche i civili, oltre 200 mila, intrappolati assieme ai ribelli. Fra lunedì e ieri i raid hanno colpito altri «tre ospedali», ha denunciato l’Osservatorio siriano per i diritti umani, vicino all’opposizione.
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Grillini da Putin a caccia di voti 

Il senatore Petrocelli e quattro deputati in Russia fanno campagna per il No al referendum Comizio tra gli italiani nella sede dell’agenzia d’informazione statale: “Ora via le sanzioni” 

Ilario Lombardo  Busiarda 16 11 2016
La suoneria del telefono di Vito Petrocelli è inconfondibile: l’inno russo-sovietico. Risate intorno. Lo squillo di una passione sempre più travolgente. Petrocelli è il più noto della truppa del M5S che conta altri quattro deputati, Giuseppe Brescia, Michele Dell’Orco, Mirella Liuzzi, Paola Carinelli, sbarcati a Mosca ufficialmente per una tappa a sostegno del No al referendum tra gli italiani all’estero. In realtà, il viaggio è anche l’occasione per nuove relazioni e per sondare gli umori della comunità italiana che, delusa dalle sanzioni contro Vladimir Putin, perché gli affari vanno male, è proiettata a fare leva sul M5S per liquidarle. Il No al referendum, in questa prospettiva, è vissuta come un’opportunità. Fu proprio Petrocelli a rivelare a «La Stampa» che dieci imprese dell’agroalimentare si erano rivolte al M5S «per riavere la Russia come partner». 
Dell’intera comitiva, il senatore è l’unico a occuparsi di esteri e di Russia in particolare e nel 2016 con il resto del M5S è tornato con forza a chiedere la fine delle sanzioni e la ridefinizione della presenza dell’Italia nella Nato, altra mossa che Putin gradirebbe. Che il Cremlino supporti tutto ciò è ovvio. E così per i grillini è stata messa a disposizione la sede di Ria Novosti, agenzia di Stato della Russia, per una conferenza con la stampa accreditata. L’unica testata in lingua italiana invitata e presente però è stata Sputniknews, ex La Voce della Russia, mezzo di chiara propaganda filo-Putin, parte del network internazionale di Rbth (Russia oggi). Tra i titoli di ieri: «Usa, c’è Soros dietro le proteste contro Trump», e ancora «Dalle Marche appello a Juncker, basta sanzioni a Putin».
A organizzare la serata al Loft Forfor, in un quartiere semicentrale della capitale, è stato Giovanni Savino, professore all’ Accademia presidenziale russa dell’economia nazionale e della pubblica amministrazione. Savino è l’animatore del comitato locale per il No e proprio ieri, racconta, dopo che si è diffusa la notizia sul M5S, è stato contattato dall’ex deputato leghista, Claudio D’Amico, altro putiniano d’Italia, per organizzare un incontro simile con Matteo Salvini che sarà a Mosca venerdì. Scontata la risposta di Savino sulle sanzioni. «Gli italiani qui sono tutti contro». E in effetti, basta ascoltare la chiacchierata con i deputati. Andrea Castellan, general manager di Cannon Eurasia, fornitore di impianti industriali vicino al Cremlino, riesuma il complotto del finanziere George Soros, (un must in Russia dov’è odiatissimo) che «assieme alla Troika, a Obama e all’Ue sono per il Sì al referendum…». Applausi degli ospiti, una cinquantina sui 200 attesi. Per il No, e la fine delle sanzioni, è anche Giovanni Stornante, consulente per business e export nell’Est Europa e presidente dell’Associazione italiani a Mosca. Molti parlano con il tono degli esuli traditi dalla patria. «Fino a otto mesi fa il M5S non veniva quasi cercato dagli interlocutori internazionali. Il nostro principio in politica estera? Saremo amici degli interessi degli italiani» spiega Petrocelli. Cosa state facendo sulle sanzioni? Chiedono Alessandro De Tuglie e Pierpaolo Mattiozzi: «Con il gruppo M5S a Bruxelles premiamo sull’Europarlamento per toglierle, ma solo il 23% dei deputati europei è con noi». De Tuglie con la sua società, la Leonardo Audit, è advisor della Camera di Commercio italo-russa: «Purtroppo ammetto che noi che facciamo consulenza strategica stiamo guadagnando dai fallimenti di molte aziende italiane con affari in Russia» spiega. Tra quelle che hanno perso fatturato c’è la Saipem, colosso dell’energia controllato da Eni. Mattiozzi è l’ingegnere responsabile a Mosca: «Con le sanzioni abbiamo perso miliardi per progetti che stavamo concludendo. In realtà in Italia sono tutti contro le sanzioni, ma i 5 Stelle lo dicono. L’errore è stato rimanere in Europa». 

Quel flirt tra il Cremlino e i pentastellati Malumore del governo italiano con Mosca 

Ma Di Maio e Di Battista restano a casa per scelta di Grillo 

Busiarda
Non ci sono volti noti ed è stato tenuto sotto silenzio il più possibile. Eppure la tappa a Mosca del World Tour targato 5 Stelle, tra tutte, è quella che suscita maggiore curiosità e interesse. Sentimenti che a Palazzo Chigi si mescolano al rammarico: per quello che sta succedendo, per quello che potrebbe succedere. 
Fonti diplomatiche, infatti, confermano a «La Stampa» che attraverso un canale informale il governo italiano ha fatto arrivare al governo russo tutto il proprio disappunto per il flirt con il M5S e l’insistenza di omaggi e inviti rivolti agli esponenti pentastellati. Ovviamente dentro Palazzo Chigi abita il Pd di Matteo Renzi, preoccupato della saldatura di quella che dopo la vittoria di Donald Trump è stata definita l’Internazionale populista, di cui il M5S ambisce a essere la sponda italiana. L’invito della comunità degli italiani di Mosca, con tanto di eco della conferenza stampa nella sede dell’agenzia governativa russa, è un sponsor di Stato per il No che non può non infastidire Renzi. Il referendum costituzionale italiano è atteso da tutti i governi come il voto inglese sull’Ue e le elezioni americane. La vittoria del No, dopo Brexit e il trionfo di Trump, sarebbe il colpo fatale ai partiti tradizionali (il Pd, in particolare, l’unico di sinistra ancora in piedi e in salute) dell’establishment europeo che ha irrigidito i rapporti con Putin. Logico che, in un modo o nell’altro, il Cremlino stia facendo capire da che parte della contesa italiana si sia posizionato. Tanto più che tra i portabandiera del No c’è il caro amico e l’unico vero interlocutore dello zar Putin, Silvio Berlusconi, il quale in un modo o nell’altro vuole continuare a dire la sua nello scacchiere internazionale e a sedere al banchetto dei potenti. 
La calata pentastellata su una Mosca imbiancata dalla prima neve avviene in condizioni internazionali completamente diverse da quelle che la gran parte dell’Europa, grillini compresi, immaginava fino a una settimana fa. Negli Stati Uniti ha vinto Trump, e Putin gioisce. Il M5S da spettatore interessato, con in tasca il sogno di andare al governo, partecipa a suo modo a queste triangolazioni geopolitiche. Non è da leggere come un caso, però, l’assenza a Mosca dei big 5 Stelle. A partire da Alessandro Di Battista, Carlo Sibilia e Manlio Di Stefano, il terzetto che professa più di ogni altro il verbo filo-Putin e accredita il M5S come protagonista italiano del revival populista. Invitati e omaggiati dai media e dal partito del presidente Russia Unita (Di Stefano unico italiano presente al congresso lo scorso giugno), i tre sono assertori della necessità di togliere le sanzioni a Mosca e di ripensare la presenza dell’Italia nella Nato. Non c’è neanche Luigi Di Maio, che a luglio, accompagnato da Di Stefano in Medio Oriente, inciampò in un incidente diplomatico con Israele. Appunto: la tappa in Russia con Di Maio, Di Battista, Sibilia o Di Stefano, a due settimane dal voto, e con il clima internazionale che si respira, si sarebbe potuto trasformare in un boomerang, soprattutto se i deputati fossero scivolati in qualche dichiarazione non proprio accomodante. È uno scenario che avevano ben presente dentro il M5S prima di dare il via libera. E la decisione di non inviare nessuno dei grillini più influenti, anche per evitare la sensazione dell’ennesima investitura di Di Maio, ha avuto il beneplacito di Beppe Grillo. Il vicepresidente della Camera ieri era a Bruxelles, oggi sarà a Parigi, domani a Berlino. Mosca è stata evitata con cura. La manovra 5 Stelle a favore del Cremlino prosegue ma, per ora, lontano dai riflettori. Un conto è Di Battista che il giorno della vittoria di Trump gioisce in Transatlantico pensando subito alla pace con Putin. «I diritti civili? E allora l’Arabia Saudita e l’Egitto…». Un altro è sostenere tutto ciò alle telecamere che si sarebbero accese davanti alla Piazza Rossa. 
[i.lomb.]



Petrolio e tangenti lotta tra clan a Mosca arrestato un ministro 
Aleksej Uljukaiev incastrato per una mazzetta dal colosso di Stato Rosneft in mano ai fedelissimi del Cremlino

FRANCESCO MIMMO Rep
«UN EPISODIO esemplare della lotta alla corruzione», che non risparmia i potenti. Una storia di tangenti e petrolio. O un regolamento di conti all’ombra del Cremlino. L’arresto del ministro dello Sviluppo russo Aleksej Uljukaiev è probabilmente tutto questo insieme. Ma certamente è un terremoto: mai un politico di così alto rango era stato arrestato in Russia dopo il collasso dell’Urss, nel ’91. Uljukaiev è stato preso in flagrante, nel cuore della notte, mentre cercava di incassare una mazzetta di due milioni di dollari dalla Rosneft, il colosso di Stato del petrolio. Il ministro avrebbe estorto quel denaro, secondo le accuse, in cambio di un parere positivo del governo all’acquisto di un’altra società petrolifera. Ma il suo arresto è da inquadrare in uno scontro tra due élite che si spartiscono il potere a Mosca. E potrebbe essere solo l’inizio di una nuova campagna di epurazioni.
All’alba di ieri i media russi già davano conto dell’operazione condotta direttamente dai servizi russi, l’Fsb, presentandola con enfasi come un successo della lotta alla corruzione. Poi, in abito blu, Uljukaiev è comparso davanti a un giudice a Mosca, dichiarandosi innocente ma promettendo collaborazione. Rischia 15 anni di carcere. Per ora è stato sottoposto a due mesi di arresti domiciliari. E poi rimosso dall’incarico di governo.
L’operazione finita sotto inchiesta è la cessione (per 4,8 miliardi di dollari) della Bashneft a Rosneft. L’accordo si è chiuso il 6 ottobre, ma non erano mancati i dubbi. Da parte di Putin, in primis, che però non si era mai formalmente opposto. E da parte dello stesso ministro che aveva inizialmente dato un parere negativo. Uljukaiev è un politico “liberal”, in passato considerato più vicino all’attuale premier Medvedev (che lo aveva nominato ministro nel 2013) che a Putin. Già vice della Banca centrale russa, era stato uno degli artefici del primo pacchetto di riforme economiche della Russia postcomunista. Ironia della sorte, proprio ieri si festeggiava il 25esimo anniversario di quelle misure. E forse è anche questa eredità che pesa sul ministro, in uno scontro in corso — registrato dall’opposizione e da molti osservatori internazionali — nella cerchia ristretta degli uomini più vicini al Cremlino. Uno scontro che trova proprio nelle liberalizzazioni il campo di battaglia. Crisi economica, greggio ai minimi e sanzioni internazionali pesano sui conti pubblici russi. Uljukaiev era tra i principali sostenitori di un consistente pacchetto di privatizzazioni, vendendo anche a investitori occidentali. E da ministro sarebbe stato proprio lui a guidare il piano. Per la stessa Rosneft gigante petrolifero da 54 miliardi di fatturato, si era parlato della cessione a privati di una quota, progetto poi accantonato viste le condizioni di mercato non favorevoli. Ma forse anche per l’opposizione dei “falchi” nazionalisti, gli uomini della squadra di Putin che vengono dal Kgb, più inclini a mantenere i principali asset economici nelle mani dello Stato.
Per la Bashneft, invece, il piano era andato in porto. Seppur con condizioni particolari, visto che si tratta di un’industria statale passata sotto il controllo di un’altra compagnia pubblica. Proprio questa era l’obiezione sollevata dal ministro. Che poi, però, aveva cambiato idea. Come mai? «Chiedere una tangente a Rosneft — segnala il partito di opposizione Jabloko — è come estorcere denaro direttamente a Putin». Il numero uno di Rosneft Igor Sechin (uno che si è meritato il soprannome di Dart Fener) è da sempre considerato il braccio destro di Putin, già dai tempi del Kgb. Difficile che Uljukaiev non lo sapesse.
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