domenica 18 dicembre 2016

Il calciatore nel pallone

Il magico mondo dei circenses 

Sport. Intervista a Felice Accame docente a Coverciano: spiaga perché i calciatori non scioperano mai 

Pasquale Coccia Alias Manifesto 17.12.2016, 23:21 
Il 2 dicembre del 1972 i calciatori francesi fermarono il campionato con uno sciopero dal quale nacque la «Carta dei diritti dei calciatori». Oggi perché i calciatori non scioperano mai? Qual è il potere contrattuale del sindacato calciatori? Ne parliamo con Felice Accame coordinatore del Centro Studi del settore tecnico della Federcalcio e docente di Teoria della comunicazione presso la Scuola allenatori di Coverciano. Accame ha pubblicato L’analisi della partita di calcio, Prima del risultato e recentemente Il sistema estetico e la funzione politica della gerarchia in cui è evoluto (Mimesis Edizioni). 

Perché i calciatori non si ribellano mai al sistema sportivo? 

L’Associazione italiana calciatori ( Aic), il sindacato dei calciatori, nasce in un anno cruciale come il ’68, è stata presieduta fino al 2011 da Sergio Campana, poi da Damiano Tommasi. La consapevolezza del sindacato calciatori fin dagli inizi fu che il sistema calcio era bacato, i tentativi di proposte, la minaccia di uno sciopero, sono sempre stati uniformati a questo criterio: cerchiamo di rispettare tutte le categorie che operano professionalmente nel calcio. Inizialmente si trattava di porre fine alla pietosa bugia del semiprofessionismo, una volta risolto il problema, si è posto la necessità di difendere gli interessi di tutte le categorie professionistiche. L’impegno del sindacato calciatori inizialmente era circoscritto ai calciatori della serie A, poi si è allargato a tutte le categorie professionali. 

I calciatori italiani hanno mai scioperato? 

Nel 1996 e nel 2001, sono stati scioperi di poco conto, nel primo hanno ritardato l’inizio delle partite di qualche minuto, nel secondo l’inizio del campionato è slittato di una settimana. Nel 1996 le ragioni dello sciopero erano costituite da un pacchetto vario, una riguardava la limitazione del numero di calciatori extraeuropei in ogni squadra, la rivendicazione fondamentale era che gli atleti potessero eleggere i loro rappresentanti al Coni. Lo sciopero del ’96 è stato il preambolo della legge Melandri, approvata nel 1999, anno in cui gli atleti hanno eletto i loro rappresentanti all’interno del consiglio federale. Lo sciopero del 2011 era legato al contratto collettivo con la Lega Calcio, che è ancora sul tavolo, perché sia i calciatori, sia gli allenatori, sia i direttori sportivi, oggi non hanno il contratto collettivo. 

Come è possibile? 

È evidente che la Lega Calcio di serie A può organizzare lo spettacolo calcistico ignorando completamente il problema del contratto. L’ingresso nelle stanze del potere della rappresentanza dei calciatori, comporta il consociativismo. Il ragionamento che è sempre stato fatto è quello relativo al deterrente zero: la partita di calcio, per regolamento, può svolgersi anche se non c’è l’allenatore in panchina, non può svolgersi senza i giocatori, però tra i calciatori ci sono quelli che percepiscono dodici milioni di euro netti e quelli che hanno il rimborso spese perché fanno parte della squadra Primavera. 

Senza i calciatori in campo non si giocherebbe 

È vero, però i calciatori sono lontani da qualsiasi consapevolezza politica che concerne il loro ruolo, nel momento in cui lo sport smette di essere tale e diventa spettacolo, la persona cambia ruolo nell’immaginario collettivo e nell’autopercezione di sé. Il calciatore viene totalmente estraniato dalla vita sociale e politica, viene elevato in un sistema di privilegiati, il quale si regge sul tacito consenso che tutti i suoi membri siano depoliticizzati, siano amputati in determinati tipi di scelte, di partecipazione, di cognizione, di consapevolezza, pertanto diventano neutrali, super partes, diventano i circenses. È facile immaginare uno sciopero corporativo legato agli interessi individuali, ma siccome non ci sono interessi corporativi individuali concentrabili, perché i calciatori sono sistemati molto asimmetricamente, è difficilissimo trovare chi va contro gli interessi di Iguain o del giocatore che gioca sul prato, sono professionisti entrambi ma vanno incontro a problematiche diverse, perciò sarà molto difficile che si riesca ad avere uno sciopero corporativo che li unisca. A maggior ragione che ci sia una consapevolezza relativa al sistema, come lo sciopero del ’68, in cui il calciatore si dava una sorta di parvenza di salvatore del sistema sportivo. Oggi questa parvenza non la vedo, non sento parlare di un’azione sindacale che vada a favore della coerenza del sistema all’interno della quale i suoi aderenti agiscono. Mi sembra totalmente improponibile uno sciopero di solidarietà, se i calciatori sono completamente separati dal resto della società, se sono totalmente depoliticizzati, ne devono capitare di cose al mondo perché un calciatore possa dire a noi questa cosa non va bene, anzi tutto il mondo dello spettacolo calcistico è chiamato a porre una pezza sopra, come ha fatto ai campionati mondiali in Argentina nel ’78 nei confronti della dittatura di Videla. I calciatori sono chiamati a tacitare, a calmierare quello che potrebbe essere in ebollizione, ma mai in nessun caso possono essere i protagonisti agenti di un’ebollizione, perché uno sciopero di solidarietà nei confronti di qualsiasi categoria, significherebbe essere consapevoli dei ruoli sociali, dei rapporti, di una serie di interconnessioni a livello societario, impossibile per colui che per principio è alienato.
Si parla di un super campionato europeo. Aumenterà il divario tra i pochi privilegiati e la massa dei calciatori?
Alle partite con minori spettatori, il sistema reagisce con l’idea di selezionare lo spettacolo calcistico ai massimi livelli, portandolo completamente fuori dall’organismo collettivo del calcio, istituendo una sorta di supercampionato europeo, che prenda il posto della Champions League e che faccia dimenticare i campionati locali, i quali da un punto di vista televisivo funzionano poco e male. Questa prospettiva, che la struttura capitalistica delle società di calcio prevede ampiamente, è da prendere seriamente in considerazione, contro la quale però non si muove nessuno. È vero che sarebbe possibile vedere i segni di questa soluzione, che però va contro gli interessi dei grandi network televisivi e di questa sorta di multinazionali che sono diventate le squadre di calcio, d’altra parte il rapporto tra le multinazionali del calcio e le strutture ufficiali del potere calcistico, assomiglia sempre più al rapporto tra la rappresentanza politica del nostro paese e le reali sedi dove vengono prese le decisioni. 

Il ruolo dell’Associazione italiana calciatori è ridotto ai minimi termini? 

Il problema qui è più grave, perché la legge Melandri implica la compartecipazione al potere, il consociativismo, il gioco della maggioranza e dell’opposizione non paga granché, nel momento in cui la rappresentanza politica è eterna, sappiamo che il consociativismo al massimo della democrazia significa do ut des. Finora non abbiamo visto da parte del sindacato calciatori uno scontro caratterizzato dal coraggio di opporsi, di proporre un’alternativa a un’altra, la Lega Calcio di serie A si può permettere di non rinnovare il contratto collettivo di lavoro a categorie fondamentali del gioco del calcio, perché non esiste un potere in grado di imporglielo. C’è una contraddizione di fondo del sistema sportivo, alla stessa stregua di come è svuotato di potere il parlamento è svuotato di potere la struttura di governo della Federcalcio. È un problema che la stessa Federcalcio, in nome degli interessi propri, dovrebbe risolvere. Penso che siano tanti i protagonisti di alto livello di questa istituzione consapevoli della situazione, l’analisi è condivisa da molti, sulle soluzioni non se ne parla minimamente e le cose vanno avanti secondo la logica del grande capitale calcistico, oggi sempre meno calcistico perché non sappiamo dove comincia e dove finisce.

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