domenica 18 dicembre 2016
L'idolo n° 2 degli anticapitalisti eurasiatisti italiani "oltre destra e sinistra"
Fare la pace con la Russia per fare la guerra con la Cina: l'idolo n°
2 dei sovranisti eurasiatisti italiani "oltre destra e sinistra"
comincia a rivelare la sua strategia.
Non l'atteggiamento verso
la Russia ma quello verso la Cina è decisivo oggi nel comprendere le
dinamiche internazionali. E' la questione cinese che funziona da cartina
di tornasole politica.
E' facile difendere la Russia di Putin
anche da posizioni di estrema destra "eurasiatista", che confondono
anti-imperialismo e geopolitica del multipolarismo dei Grandi Spazi,
autonomia e autarchia panrussa, critica del postmoderno e critica della
democrazia moderna.
Assai più difficile per certe aree solidarizzare con i comunisti asiatici [SGA].
“Ci difenderà dalla Cina” Taiwan scommette sulla rivoluzione Trump
Clima di euforia dopo la telefonata Washington-Taipei Ma c’è chi ha paura: sfidare Xi può innescare una guerra
Cecilia Attanasio Ghezzi Busiarda 17 12 2016
La sorpresa. E poi una sorta di soddisfazione per essere tornati al centro delle cronache mondiali.
Sono questi i sentimenti che legano gli oltre 23 milioni di taiwanesi in queste settimane. Ma per il resto si discute su tutto.
«Non è certo la prima volta che il presidente di Taiwan telefona a quello degli Stati Uniti d’America, la novità è che quest’ultimo ha deciso di rispondere e, soprattutto, di renderlo pubblico. Donald Trump ha osato sfidare Xi Jinping, di questo non possiamo che essere felici».
Siamo in una delle aree residenziali di Taipei dove il mercato immobiliare vale di più, Szu-chien Hsu ci accoglie negli uffici della Fondazione taiwanese per la democrazia che presiede. È un think thank il cui budget annuale, circa cinque milioni di dollari per il 2017, viene sottoposto al vaglio del Parlamento e al ministero degli Esteri. Hsu misura le parole come un politico navigato ma una cosa è certa, da quando ha preso questo incarico non può più mettere piede nella Repubblica popolare. «Non è Taiwan che ha provocato e assolutamente non deve reagire, qui la partita è tra i due paesi che si contendono la leadership mondiale». Ma ovviamente, «se le cose dovessero mettersi male, difenderemo la nostra democrazia con qualsiasi mezzo. Chi vorrebbe essere un cittadino della Repubblica popolare nell’era di Xi Jinping? Quello che sta succedendo ad Hong Kong è sotto gli occhi del mondo».
Taiwan e la Cina hanno una tra le relazioni internazionali più complicate del mondo. L’isola fu posta sotto il controllo della Repubblica cinese di Chang Kai-shek quando il Giappone perse la Seconda guerra mondiale e fu qui che il Generalissimo si rifugiò con le sue truppe solo quattro anni dopo, quando perse la guerra civile contro l’Esercito di liberazione di Mao Zedong. Sperava di riconquistare la terraferma con l’appoggio degli Stati Uniti, ma le cose andarono diversamente. Nel 1971 l’Onu trasferirì il seggio della Repubblica cinese, ovvero Taiwan, alla Repubblica popolare e da allora un numero sempre crescente di Paesi ha riconosciuto quest’ultima a scapito della prima. Le «due Cine» nel frattempo hanno percorso cammini completamente separati.
I cinesi di Taiwan hanno mantenuto un legame con la cultura della Cina imperiale che non è stato spezzato da nessun «Balzo in avanti» o Rivoluzione culturale. L’esempio più evidente è la scrittura, molto più simile al cinese classico che a quella «semplificata» dalla Cina comunista per permettere l’alfabetizzazione del maggior numero di persone possibile. Forte di questa «superiorità» e non dovendosi confrontare con «le masse» della Cina continentale, a Taiwan sono passati a un sistema di governo democratico alla fine degli Anni Ottanta. Nel frattempo la loro «identità cinese» si è sempre più diluita in una contemporanea e globalizzata «taiwanesità». Nessuno che abbia meno di trent’anni ormai può immaginare un futuro alle dipendenze della Cina. A complicare il quadro c’è l’interdipendenza economica: due terzi degli investimenti esteri di Taiwan vanno alla Repubblica popolare che è anche il suo principale partner commerciale. Ma nonostante tutto questo, a sessant’anni dalla separazione, formalmente Pechino considera ancora l’isola una «provincia ribelle» e Taipei continua a pensare la terraferma come «un territorio della Repubblica cinese esterno all’area di Taiwan».
«Abbiamo conosciuto la faccia più crudele della diplomazia internazionale. E il principio “una sola Cina” è il mito fondativo della nostra agonia. Un’ipocrisia organizzata che semplicemente posticipa lo scontro militare. Per quarant’anni nessuno ha avuto il coraggio di metterlo in discussione. Poi è arrivato Trump». Yi Yuan è professore di relazioni internazionali all’università Chengchi. Ci accoglie nel suo studio caricato a molla. Sa bene che il presidente eletto è imprevedibile e che non è detto che manterrà il punto una volta insediatosi, ma è anche convinto che innervosire Pechino sia l’unica occasione per l’isola di «riformulare una nuova identità collettiva» perché «ormai sono solo 22 gli Stati che ci riconoscono come nazione e, francamente, non credo che lo faranno ancora a lungo. Allora che faremo? Rinunceremo a esistere?» La sua è una domanda retorica. A oggi Taiwan mantiene i rapporti con tutte le nazioni che non lo riconoscono attraverso «rappresentanze diplomatiche» che svolgono a tutti gli effetti le funzioni di ambasciata ed è presente come «economia» in organismi internazionali come il Wto e l’Apec.
Di tutt’altro avviso è il professor Tang Shaocheng, presidente dell’Associazione per i rapporti economici e culturali sullo stretto. Ci mostra al computer le foto dell’esercitazione militare svolta la settimana scorsa dall’esercito cinese. «Con le portaerei hanno dimostrato di poter attaccare Taiwan su tutti i lati, non solo da ovest. È un messaggio chiaro per gli Stati Uniti: siamo cresciuti e siamo pronti allo scontro. Fatevi pure avanti». Per questo, secondo il professore, bisogna mantenere lo status quo, «perché in questo gioco tra giganti l’unica a pagarne seriamente le conseguenze sarà Taiwan».
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