sabato 10 dicembre 2016

Le mani di Repubblica sul centenario dell'Ottobre russo. Ezio Mauro contende a Paolo Mieli la palma di Nostro Toynbee: fu Rasputin a portare al potere Lenin


1) Rasputin Il monaco nero e l’Apocalisse della Santa RussiaIl 16 dicembre del 1916, avvelenato e trafitto dai proiettili, moriva a San Pietroburgo l’uomo che si vantava di tenere “l’Impero nelle mani” Da questo delitto, il primo atto che porterà a Lenin e alla Rivoluzione, incomincia il viaggio di Ezio Mauro che proseguirà per tutto il 1917EZIO MAURO Rep 9 12 2016
SAN PIETROBURGO Cent’anni dopo, c’è un mazzo di garofani rossi nel punto dove tutto è incominciato. Proprio qui. Salì la scala a chiocciola rovesciandosi sulla ringhiera, con la pallottola nel costato, poi si fermò sul pianerottolo. Spalancò la porta con un urlo da animale e si lanciò fuori barcollando e premendosi il petto, correndo curvo nei due gradi e mezzo notturni del cortile deserto. Chissà cosa riuscì a vedere nel buio, nell’agonia, nel palazzo che dormiva, nello splendore morente della Russia imperiale. L’ultima forza vitale lo portò verso il cancello, giù in fondo, mentre gridava il nome del suo assassino. Due spari a vuoto, due rivoltellate, lo fecero oscillare di terrore poi un colpo preciso alla schiena sembrò paralizzarlo, immobile, e subito dopo un colpo alla testa lo gettò a terra con la braccia spalancate e le mani che afferravano la neve di Pietrogrado, quel sabato16 dicembre del 1916.
Nessuno sapeva che l’impero aveva le ore contate nella sua capitale eppure tutti gli spettri del caos si radunarono proprio qui, nel palazzo principesco, mentre cominciava lentamente a schiarire tra la nebbia che saliva dalla Mojka e sembrava come sempre fabbricata direttamente dal canale. Alla stessa ora, oggi, “Piter” è addormentata e silenziosa come allora, non c’è più il poliziotto Vlasjuk nella garitta che corre al primo sparo coi suoi stivali di feltro, dalle finestrelle del seminterrato non si allarga più nel cortile la musica americana di Yankee Doodle suonata dal grammofono dell’inganno, se n’è andato il profumo di marsala e madera della festa omicida. Soprattutto da cent’anni non c’è più Grigorij Efimovic Rasputin, il “santo diavolo”, lo “starez di Dio”, il “monaco nero” che è venuto a morire qui insieme con la dinastia imperiale, assassinato tra un sabato e una domenica nella notte sospesa sulla rivoluzione, in agguato alle porte della città magica.
Quel delitto è l’antecedente di ogni cosa perché è una vendetta e una ribellione ma anche un esercizio mistico, una specie di colpo di Stato, un sacrificio politico. È una predizione, un’evocazione, una rappresentazione. C’è una dinastia reale estenuata dall’autocrazia impotente dello Zar Nicolaj II e dalla nevrastenia religiosa della zarina, che separano la Corona dal Paese e la Corte dal suo tempo, togliendole ogni autonomia fino allo smarrimento. C’è la tempesta politica prossima ventura che si annuncia e ribolle nelle fabbriche e al fronte, pronta a ideologizzare l’anima russa appassionata, confiscandola. E c’è lui, il contadino siberiano semi-analfabeta, uomo di Dio nell’anima e peccatore nel corpo, sedicente guaritore e sicuramente incantatore, capace di coniugare fede lussuria e profezia nel fanatismo settario dei monaci “flagellanti”. Ma pronto soprattutto a raccogliere nelle sue grandi mani spalancate e negli occhi color dei fiori di lino l’angoscia da fine-di-mondo che pesava sui sovrani e sull’impero, intercettando il sentimento dell’apocalisse e trasformandolo in tecnica di regno e di governo.
Quando entrò nel palazzo degli imperatori Rasputin aveva 36 anni, la barba arruffata, i capelli lunghi, sporchi e scuri, pantaloni e stivali da contadino, giubba di tela legata con un cordone. Ma la fama del taumaturgo gli aprì le porte di una reggia abituata a trasformare la fede in superstizione devota, in un Paese in cui spesso le chiese nascono sui siti degli idoli pagani e San Basilio sorge nel luogo dove regnava Perùn terribile, dio del fulmine e del tuono. La Corte è il punto di congiunzione dei misteri e delle premonizioni che li anticipano nell’angoscia, perché è il luogo dove regna questa sospensione magica e sacra della realtà, nell’attesa di un vaticinio perenne, soprattutto da quando Alix, l’imperatrice Aleksandra Fedorovna, non riesce a dare alla Russia un pretendente maschio ma solo femmine, quattro, Olga, Tatjana, Marija e Anastasija.
Ecco allora che arrivano nell’appartamento della zarina l’idiota beato Mitja, chiaroveggente scalzo, Matrjona profetessa stracciona, Darja santa pazza e bestemmiatrice, il curatore tibetano Badmajeff, monsieur Philippe occultista cristiano che quando si mette il cappello diventa invisibile, ma produce solo una gravidanza isterica, nonostante regali alla zarina un’icona coi campanelli che suonano quando si avvicina uno spirito maligno. Solo dopo un pellegrinaggio di tutta la famiglia col treno imperiale all’eremo di Sarov per pregare davanti alle reliquie di San Serafim, lunedì 30 luglio 1904 all’1,15 del pomeriggio nasce Aleksej, lo zarevic, erede al trono dei Romanov.
Col parto atteso da tutta la Russia Alix ha salvato la dinastia ma ha condannato suo figlio, perché gli ha trasmesso l’emofilia tedesca di famiglia, allora incurabile, tanto che la malattia dello zarevic viene subito circondata da un segreto di Stato malinconico e cupo protetto dal marinaio Derevenko che lo segue ad ogni passo per prevenire cadute, urti, ematomi e lividi capaci di degenerare. Finché Rasputin nell’autunno del 1907 entra nella stanza del bambino imperiale senza luce elettrica, si inginocchia come in chiesa sotto i lumi delle icone, accarezza la mano del piccolo zarevic, lo calma raccontandogli la storia siberiana del cavallo gobbo e del cavaliere senza gambe e infine annuncia ai sovrani che crescendo Aleksej guarirà completamente, vincendo la malattia. Per la prima volta Alix, l’imperatrice, si inchina a baciare la mano del santo contadino.
«Ho fatto la conoscenza d’un Uomo di Dio, di nome Grigorij, della provincia di Tobolsk», scriverà lo Zar il giorno dopo, ed è la prima traccia di un affidamento al taumaturgo delle due anime regnanti ma smarrite, e di un impossessamento graduale ma impetuoso di una sovranità esausta da parte del monaco, che in pochi anni dalle faccende familiari passerà alle questioni religiose, agli affari di Stato, alle vicende diplomatiche, alle scelte di guerra, alle nomine dei vescovi e dei ministri. Salito al trono senza essere preparato, il sovrano regna senza passione («gli manca qualcosa nel ventre», dice l’aristocrazia pietroburghese) rifiutando i riti di Corte, cercando rifugio e sollievo solo nella famiglia che vive ormai quasi sempre nel palazzo Aleksandr a Zarskoe Selo, dove Alix e Nikolaj erano rimasti soli per la prima volta dopo le nozze, dove lei ogni sera nel budoir tra i fiori freschi avvertiva il suo arrivo nel corridoio quando il lampadario incominciava a tintinnare.
Nel castello rimbalzano le voci dei miracoli dello starez nei villaggi e nei campi, durante il pellegrinaggio che lo ha portato a Pietrogrado: ha espulso il diavolo da una monaca, ha guarito le mandrie, ha sospeso la pioggia per tre mesi. La zarina ha bisogno di sentirlo vicino, di chiamarlo quando il figlio sta male, di affidargli l’angoscia per un destino che sta declinando, di decifrare la catastrofe sconosciuta che li sta sovrastando. Quando lo Zar diventa comandante in capo dell’esercito in guerra con la Germania, lei gli affida una striscia di stoffa che l’uomo di Dio ha impregnato col suo fluido. Quando Nikolaj deve avere un colloquio delicato, gli ricorda di passarsi tra i capelli, prima, il pettine che gli ha regalato Rasputin. E attorno al castello crescono i sospetti, le invidie, le maldicenze, soprattutto adesso che lo Zar sta al quartier generale militare di Mogilev e gli affari di Stato finiscono nella stanza della zarina, con il parere, i veti e il visto di padre Grigorij.
«Tra queste dita — si vantava Rasputin — io tengo l’impero russo». E aveva ragione. Come in una corte stregata, un monaco analfabeta dall’istinto animale decideva di cambiare il capo del governo, di sostituire il ministro dell’Interno, di nominare il direttore della polizia, di selezionare i candidati alle cariche pubbliche scrutandoli negli occhi, di suggerire le scelte dello Zar: «Quest’uomo è amato da Dio, puoi procedere». «Fermati e caccialo, sento puzza di diavolo». Con il deperimento della sovranità regale, i rovesci dell’esercito in guerra, una serie di governi che procedevano come nella favola russa il cigno, il gambero e il luccio — l’uno verso l’alto, uno indietro, uno verso il fondo — la capacità di scelta e di decisione del monaco di Dio diventava l’unica certezza. Ecco perché ogni mattina, tornando da messa ad Afonskoje Podvorje il contadino trovava l’anticamera piena di soldati, ragazze, banchieri, politici, infermi venuti fin qui in via Gorochovaja 64, passati davanti al gabbiotto della portiera Gurolevna con le spie dell’Okhrana attorno al samovar di stagno nero, saliti al secondo piano per bussare alla porta dell’interno 20 (rossa oggi come allora) con una supplica, una raccomandazione, una benedizione, la speranza di un incontro mistico e sessuale, di una guarigione.
Alle 10 suonava il telefono che troneggiava nell’ingresso come nelle case dei ricchi (numero 646/46) e c’era una lunga conversazione col palazzo imperiale. Intanto il monaco distribuiva biscotti neri che le donne portavano via come reliquie sante nei fazzoletti di seta, insieme con la biancheria di padre Grigorij che volevano lavare personalmente, e lui le baciava tre volte sulla bocca. Poi si chiudeva con una di loro nello studio, sul divano di ferro con la spalliera sfondata e coperto da una pelliccia di volpe, davanti a una sola finestra, un tavolo con due sedie, le lampadki accese sotto le icone. Qui prendeva un bigliettino con la croce dal mucchio già pronto sulla scrivania («Fate quel che vi chiede, Cristo è risorto ») e lo consegnava alla supplicante come passepartout nel potere, in cambio di baci, carezze, sesso, denaro: o anche gratuitamente. Alle visitatrici dava appuntamento per domani, per il pomeriggio, per la sera, nelle salette riservate dell’hotel Astoria, di Villa Rodè, del Donon o di Jar o di Strelna dove la notte finiva all’alba con orge, bevute e le romanze cantate dagli zingari, immancabili. Ubriaco, ballava e raccontava la sua intimità con i sovrani, svelando quel potere arcano, superstizioso e materiale che lo faceva definire dal popolo “lo zar sopra lo Zar”.
Ciò che restava del potere istituzionale finì per ribellarsi. La famiglia Romanov era passata in pellegrinaggio da Nikolaj chiedendo inutilmente di liberare la Corona dall’umiliazione di Rasputin, la sorella della zarina, Ella, fu accompagnata in silenzio alla carrozza per aver osato criticare il Santo. Ma ormai lo scandalo di una reggia plagiata e sottomessa divampava ben oltre la corte. Disegni osceni della sovrana con Rasputin, chiacchiere, allusioni inquietano l’Imperatrice Madre. Fino al primo giorno di ottobre, quando alla Duma va in scena l’indicibile: «Il nome della zarina viene ripetuto sempre più spesso insieme a quello di delinquenti che la accompagnano — accusa il deputato d’opposizione Pavel Miljukov — Che cos’è, stupidità o tradimento? » Ancora più pesante l’attacco del deputato Puriskevic, monarchico, il 19 novembre: «Porto ai piedi del trono l’amarezza delle masse russe e dei soldati al fronte per i ministri diventati marionette in mano a Rasputin e all’Imperatrice, che è rimasta tedesca sul trono russo, estranea al Paese e al popolo».
Frastornato, braccato, il contadino prova a rassicurare lo Zar con un biglietto: «Dio vi darà forza, vostra è la vittoria, vostra la nave, nessuno ha il potere di salire a bordo». Ma lo Zar sente la pressione esterna, e anche quella interna alla famiglia dove il “Nostro Amico”, come lui e Alix lo chiamano, pesa sempre di più. «Tutti ti ingannano — gli dice in quel mese il Granduca Nikolaj Michailovic — anche tua moglie ti ama appassionatamente ma sbaglia per i perfidi inganni di chi la circonda, e quel che esce dalle sue labbra è frutto di un’abile mistificazione, non di verità». Il 10 novembre l’Imperatore vede il suo nuovo primo ministro, Aleksej Trepov, fischiato dalla Duma in piedi. Decide di sacrificare l’odiato ministro dell’Interno Protopopov, protetto da Rasputin. Scrive alla moglie che il cambiamento è ormai indispensabile: «Solo ti prego di non coinvolgere il Nostro Amico. La responsabilità è mia e desidero essere libero nella mia scelta». Ma Alix resiste, a difesa della santità dell’Intermediario e del suo cerchio ristretto di potere: «Ricorda ancora una volta che hai bisogno dell’acume, delle preghiere e dei consigli del Nostro Amico. Ah caro, prego con fervore Dio perché ti illumini e ti faccia capire che lui è la nostra salvezza». Il ministro resterà al suo posto, nelle mani del contadino.
Ma ormai circolano piani governativi, ecclesiastici, parlamentari con un unico obiettivo: uccidere Rasputin per salvare la Russia. Strangolarlo o avvelenarlo? Rapirlo e poi pugnalarlo in auto? Assalirlo a casa di una delle sue amanti? Narcotizzarlo, sopprimerlo e seppellirlo nella neve? Usare le rivoltelle di mariti gelosi e farli irrompere in casa, com’è già avvenuto? Intanto il colonnello Komissarov porta sul tavolo del ministro cinque diverse polveri velenose e ne sceglie una letale, dopo averla sperimentata su un gatto. La corda che lega insieme Zar, governo, Dio e il monaco è tesa fino all’inverosimile, sta per spezzarsi. «Finché vivrò io, vivrà anche la famiglia imperiale — prova a esorcizzare la catastrofe Rasputin, e non si accorge che è una profezia — Ma con la mia fine perirà anch’essa». E il nodo si scioglie a metà novembre, quando proprio dall’interno della famiglia imperiale nasce il progetto di morte che diventa realtà. È infatti un principe- conte direttamente imparentato con lo Zar la mente dell’assassinio. Feliks Jusupov aveva trent’anni, secondo la zarina assomigliava a un bellissimo paggio, discendeva da dignitari del Khan Tamerlano e dal camerlengo di Pietro il Grande, ma soprattutto aveva sposato Irina Aleksandrovna, nipote dello Zar. L’aristocrazia frustrata dal monaco-contadino, il suo successo in società, la vergogna delle sue orge sessuali, il pervertimento della fede cristiana, la sottomissione indecente degli Imperatori, tutto si congiungeva per Felix in un piano eroico di ribellione, vendetta e riscatto: bisognava eliminare Rasputin. Il principe cercò il nemico pubblico dello starez, il deputato Periskevic, che lo odiava per non essere diventato ministro e lo aveva attaccato alla Duma. Trovarono facilmente un’intesa, e il parlamentare arruolò il medico polacco Lazovert e l’ufficiale di cavalleria Suchotin. Il principe portò nell’operazione il suo migliore amico, il Granduca Dmitrij Pavlovic, luogotenente nel terzo reggimento di cavalleria della Guardia, in modo di garantire all’intero complotto quella speciale immunità che discendeva dai membri della Casa imperiale, svincolati dalla giustizia ordinaria, soggetti solo allo Zar.
Andarono in giro per Pietroburgo di notte e di mattino, cercando un luogo per gettare poi il corpo facendolo scomparire, trasformarono lo scantinato di palazzo Jusupov — che ancora oggi ha lo stesso pavimento di pietra, il soffitto a volta, due finestrelle basse — in una sala da pranzo con lanterne dai vetri colorati, un tavolo e un armadio intarsiato (con gioco di specchi, colonne, cassetti segreti) e un salotto con tappeti persiani, ricche tende e una pelle d’orso. Coi guanti di caucciù il dottore fece in polvere il cianuro di potassio e infarcì i petit four rosa, poi versò da una fiala il veleno in due calici di vino su quattro. Feliks aveva da tempo avvicinato Rasputin, fingendo di avere dolori al petto e lasciandosi imporre le mani, e soprattutto gli disse che sua moglie Irina — probabilmente la donna più bella di tutta la capitale — voleva finalmente conoscerlo. Tutto era ormai pronto. A mezzanotte del 16 dicembre il dottor Lazovert si vestì da chaffeur e portò il principe imbacuccato in una lunga pelliccia di renna e un berretto nero a prendere il santo contadino. Salì al buio dalla scala di servizio, lo trovò vestito con una camicia di seta azzurra con disegni di fiordalisi, probabilmente regalo della zarina. Scesero nel buio e Rasputin si appoggiò al braccio del suo assassino. Alle loro spalle, nello stipite della porta del monaco divino adesso è infilato un ritratto della famiglia imperiale, incrociando quei destini lungo tutto il secolo.
Irina era rimasta in Crimea, terrorizzata dal piano che la voleva come esca. Mentre il principe Feliks e lo starez scendevano dalla scala a chiocciola nello scantinato, i quattro complici al primo piano azionarono il grammofono parlando a voce alta, fingendo la coda di una festa con gli invitati che stavano per andarsene. Aspettando Irina, Grigorij prese dal vassoio del principe i pasticcini avvelenati, bevve due coppe di madera col cianuro. Forse le dosi erano sbagliate, forse i tempi erano calcolati male. Terrorizzato, Feliks lo guardava bere e mangiare senza crollare, cominciava a credere nelle leggende stregonesche, non riusciva a reggere lo sguardo del Santo e trovò una scusa per salire al piano di sopra. Prese la rivoltella del Granduca e scese tenendola dietro la schiena. «Sto guardando questo strano armadio», stava dicendo Rasputin in piedi di spalle. «Faresti meglio a guardare il crocefisso e dire una preghiera», gli rispose il principe puntando l’arma. Il contadino si voltò, in tempo per urlare mentre Jusupov sparava e poi cadde a terra sulla pelliccia d’orso.
Scesero tutti, guardarono il vero padrone di Pietrogrado che agonizzava, spensero la luce e chiusero la porta a chiave. Ma poi il principe scese di nuovo, tastò il polso al monaco e con orrore vide aprirsi l’occhio sinistro, quindi il destro, fissi su di lui. E improvvisamente Rasputin balzò in piedi con la bava alla bocca cercando di afferrare il suo assassino per la gola, fino a quando strappò una spallina dalla giacca del principe, cadde a terra, si trascinò carponi sulla scala a chiocciola rantolando. Feliks gridò chiedendo aiuto, tutti uscirono, Puriskevic esplose i primi due colpi fallendo il bersaglio, poi due proiettili (forse del Granduca, esperto di armi) centrarono lo starec alla schiena e alla testa. Incredibilmente, Rasputin era ancora vivo e allora il principe lo colpì più volte con uno sfollagente pesante, in una furia parossistica che sembrava riunire sul cadavere tutte le maledizioni di tutti i nemici per anni impotenti del monaco santo.
Lo avvolsero in un telo, legato con la fune, lo caricarono sulla limousine Delaunay-Belleville del Granduca, a ogni curva il cadavere sembrava sobbalzare e uno di loro si sedette sopra fino al ponte Petrovskij (ancora oggi poco illuminato e deserto a quell’ora) dove lo gettarono in un buco aperto nel ghiaccio, insieme con uno stivale che si era sfilato dal corpo in macchina. Lo trovarono tre giorni dopo. Prima una sovrascarpa, che le figlie dello starec riconobbero. Poi il cadavere gonfio con la camicia ghiacciata nella Malaja Nevka, le mani gelate verso il cielo. Ci fu un funerale segreto davanti alla famiglia imperiale, con la bara di zinco sepolta nella crociera della chiesa in costruzione a Zarskoe Selo, dedicata a San Serafim che aveva previsto sangue e disgrazie per l’inizio del secolo russo. Oggi una croce di legno ricorda il posto, una piccola custodia di ferro piegato a mano ripara dalla neve i lumini che sembrano ardere da allora. «Che cosa posso fare? Solo pregare e pregare — dirà la zarina al marito — Anche il Nostro caro Amico dall’aldilà prega per te. Quindi è ancora più vicino a noi. E tuttavia che voglia ho di sentire la sua voce rasserenante e incoraggiante…». La sentirà in sogno con l’ultima terribile profezia: «Vi bruceranno sul rogo».
La storia e la leggenda si contendono il finale. Finché il capitano Klimov dopo la rivoluzione porta i suoi uomini nella cappella: scoperchiano la tomba, aprono la bara cercando preziosi, trovano un’icona con la firma della zarina e delle principesse e la mandano al Soviet della capitale. Poi il cadavere di Rasputin con le braccia in conserta viene trasportato in treno a Pietrogrado, camuffato nell’imballaggio da pianoforte. Un camion porta la bara sulla carrozzabile fuori città, nei boschi tra Lesnoe e Peskarjova lo posano su una catasta di legna, lo cospargono di benzina e lo bruciano tra le sette e le nove, disperdendo le ceneri nella neve e nel vento.
Ho cercato il posto del fuoco, dove l’onnipotenza del monaco diventa cenere della rivoluzione. Non riuscivo a trovarlo, la campagna russa incolta sembra tutta uguale, sul limitare indistinto del bosco che mi avevano indicato veniva il buio, interrotto dal bianco delle betulle. Poi è passato un contadino seduto sul bordo di un carro tirato da una coppia di buoi che tornavano a casa. Si è tolto il cappello, ha fatto tre volte il segno della croce. Lui sapeva, cent’anni dopo. Il santo diavolo era lì per sempre, come la Russia eterna. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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2) Aspettando il giorno del giudizio Così la sacra “Piter”, divisa e ignara, si prepara all’arrivo del febbraio rossoEZIO MAURO Rep 13 1 2017
A pranzo si era mostrato come sempre allo Yacht Club sulla Morskaja e i nobili soci sussurravano che mentre si sedeva al tavolo d’angolo era «pallido come la morte». Ma quello era un recinto aristocratico protetto. Questa, adesso, era la vera prova. Si avvicinò alla balconata drappeggiata del palco mentre l’orchestra accordava gli strumenti e in quel tempo sospeso tra la musica e la rivoluzione la folla in platea lo vide, si alzò in piedi e gli indirizzò un lunghissimo applauso, pensando così di liberare finalmente i nechistiki, gli spiriti maligni, nel cielo freddo di Pietrogrado.
Fu il primo atto del nuovo spettacolo che stava per andare in scena nella capitale infiammando la Russia, quell’applauso eversivo a un attentato imperiale che decapitava il cerchio più ristretto di comando attorno allo Zar, ribellandosi all’autocrate. Altri spiriti stavano per scendere sul “secolo di ferro”, liberandolo per subito imprigionarlo, o forse Kikimora, il mostro maligno del sottosuolo, si preparava a saltare sul campanile della Trinità come nelle fiabe che terrorizzavano i bambini. Attirate dal fragore dell’applauso le ballerine del Mikhajlovskij che corsero a sbirciare dal sipario verso la platea furono le prime a rovesciare inconsapevolmente la prospettiva: guardando dal palco la città come il vero grande scenario dove da quel momento in poi incominciava la rappresentazione dell’impensabile e saliva in cartellone l’impossibile. Quasi che “Piter”, costruita sott’acqua come una moderna Atlantide, avesse allineato per due secoli i suoi palazzi di granito, i suoi canali ghiacciati, i suoi ponti ad arco come una gigantesca fata morgana, in attesa di dissolvere tra pochi giorni il miraggio per diventare il gran teatro di un esperimento mai visto di sovvertimento universale. Fiacre, carrozze francesi col tetto di cuoio, mantici scuri e bardature fiammanti, slitte a due posti trainate dai cavalli Orlov aspettavano davanti al teatro in piazza delle Arti, lasciando solchi di gelo smaltato. Qualcuno si fece ancora portare al Circolo Inglese per finire la serata, o a provare la zuppa di gamberi nelle capanne sulla Neva, o fin su alle isole per il caviale di Felicien, o al match di lotta del circo Cinizelli per poi passare all’alba alla sauna di via Konjushennaja, oppure nei saloni dell’Astoria dove si inseguivano al suono del foxtrot ufficiali abituati a vivere di notte, vedove di guerra, crocerossine, prostitute e contesse che conversavano in francese. Tutti correvano, nell’ansia elettrica della città eccitata e snervata dal sentimento oscuro della fine e senza saperlo vivevano l’ultimo viaggio dell’aristocrazia che aveva appena gettato fiori sul palco del balletto, come se nulla fosse: nell’omaggio finale alla musica, alla grazia, alla bellezza e infine soprattutto alla città dei miracoli che radunava le sue meraviglie e poi come nei sogni trasformava ogni cosa in nebbia, acqua e fumo. Sotto l’immobile cupola d’oro di Sant’Isacco e la torre dell’Ammiragliato, davanti alle guglie della fortezza Pietro e Paolo, dietro i recinti di mattone rosso che sono rimasti intatti attorno alle fabbriche di Vyborg, cent’anni fa Pietrogrado, man mano che si lasciava alle spalle il dicembre di Rasputin e si inoltrava nel gennaio del 1917, era la città dei due mondi. Viveva contemporaneamente gli ultimi bagliori moribondi della Corte imperiale più ricca del mondo e l’incubazione di un esperimento rivoluzionario che sarebbe durato settant’anni, fermando il secolo per deviarne l’intero cammino. Il Palazzo reale, ignaro e irresponsabile, fu il simbolo rovesciato per le due correnti che s’incrociavano nelle ore decisive della capitale, l’autocrazia morente e la marea popolare montante. La liturgia imperiale rinsecchiva nell’angoscia della guerra con la Germania, dopo l’offensiva tedesca, la tragica ritirata russa e per la prima volta a Natale non c’era stato lo scambio tradizionale dei doni tra i Romanov, un clan di sessanta persone tra Granduchi, Principi e Principesse, disciplinati a fatica negli appetiti e negli appannaggi dal ministro di Corte Fredericks, che la famiglia imperiale chiamava «our old man».
In realtà i Granduchi formano ormai una specie di partito della sopravvivenza monarchica, deciso a tutto, incalzato rovinosamente dall’apocalisse. «Io e il mio portinaio vediamo perfettamente che la Russia sta perdendo tutto, nel Paese e al fronte — dice il Granduca Kirill Vladimirovic — Soltanto la famiglia imperiale non lo vede». E suo cugino Nikolaj Mikhailovic aggiunge: «L’omicidio di Rasputin è una mezza misura, bisogna togliere di mezzo l’Imperatrice. Mi balenano in mente idee omicide, non del tutto chiare ma logicamente necessarie…. Mi gira la testa… Che tempi, che maledizione si è abbattuta sulla Russia».
Due esponenti dell’opposizione alla Duma incontrano il Granduca in treno e nel viaggio parlano apertamente di zaricidio. «A poco a poco si è formato un vuoto intorno ai sovrani — aveva rivelato già mesi prima l’ex ministro degli Esteri Sazonov — nessuna voce da fuori penetra ormai nella loro casa». E i sovrani, sempre più rinchiusi a Zarskoe Selo, rispondevano odiando la città delle congiure, capitale degli intrighi. «Io sono sul trono da più di vent’anni — dirà in quei giorni la Zarina —, conosco tutta la Russia e so che il popolo ama la nostra famiglia. Chi è contro di noi? Pietrogrado: un piccolo gruppo di aristocratici che giocano al bridge e non capiscono niente». Erano gli Imperatori che non capivano più la loro città.
Solo tre anni prima l’avevano vista inginocchiarsi a terra davanti alla loro apparizione al balcone del Palazzo d’Inverno per la dichiarazione di guerra alla Germania, cantando Bozhe, Zarja khrani, «Dio salvi lo Zar, forte e maestoso, che per la nostra gloria, regna sui nemici atterriti». Vent’anni prima, nel pieno della potenza autocratica, avevano celebrato a Mosca l’incoronazione con un banchetto da settemila invitati. Appena quattro anni prima, il 21 febbraio del 1913, tutte le campane della Russia suonarono insieme dalle otto di mattina per accompagnare a mezzogiorno il cocchio scoperto su cui Nikolaj II e lo zarevic Aleksej arrivavano alla cattedrale Kazan per celebrare i fasti della dinastia, nel trecentesimo anniversario del giorno in cui nel 1613 i bojari proclamarono Zar il primo Romanov, Mikhail. Nel rito solenne del Te Deum, con cento soldati in alta uniforme sul sagrato, pronti a sguainare le sciabole della fedeltà imperiale nel saluto d’onore, si stava in realtà consumando ogni sovranità e qualsiasi potere, realizzando la profezia di Gogol, per cui «a San Pietroburgo tutto è inganno », perché la città «mente a ogni ora, ma più che mai quando la notte cala sopra di essa come una massa densa». E il primo inganno — perenne — è la neve, che oggi come sempre sui ponti della Mojka cancella ogni traccia e altera i profili, lasciando tutto intatto come in quei giorni, un secolo fa.
Quel vuoto isterico, eccitato, instabile, fu riempito dall’irrazionale come accade quando tutto vacilla, domina la precarietà e in una città condannata al mito eterno della cosmogonia inizia il crepuscolo, quel sumerki in cui la realtà del giorno perde via via i contorni, il buio fatica a scendere e tutto rimane in attesa, incerto, indefinito ma plausibile. Ballavano i tavolini a Corte, a casa delle “montenegrine”, le due principesse Militsa e Anastasija. Bussavano gli spiriti nei salotti della capitale, tra i marmi del conte Sheremetev, negli stucchi dorati della contessa Golovkin, mentre nei circoli prosperavano gli “innocenti”, intermediari col soprannaturale, i magnetizzatori, gli illuminati. Massonerie che volevano la Costituzione e società segrete improvvisate crescevano ovunque, accanto al potere, mescolando affari, esoterismo, sesso. Così che oggi basta salire da soli di notte le scale di ghisa circolari e silenziose della “Rotonda” di via Gorokhovaja — i “gradini satanici” — per immaginare ad ogni pianerottolo i riti e i bordelli che si nascondevano allora dietro quelle porte, e quindi guardar giù dall’alto nel precipizio del vortice centrale fino alla fossa rinchiusa sopra la testa del demonio: che a Pietrogrado, secondo Dostoevskij, si presenta sempre con i capelli lunghi appena brizzolati, la giacca marrone, la sciarpa larga e logora, un cappello di pelo bianco perennemente fuori stagione.

L’isterismo spirituale nascondeva alleanze di potere, copriva rituali politici di bassa lega nobilitandoli nella preghiera e nascondendoli nell’arcano. A Zarskoe Selo, nel Palazzo Imperiale l’intesa tra il prefetto di polizia, il capitano Nilov, il generale addetto ai cavalli, il maresciallo di Corte formò una rete segreta all’ombra del trono per indirizzare iniziaticamente il potere, la segretissima “Camera Stellata”. Tutta la città parlava delle simpatie tedesche del “Partito Occulto”, vicino alla Corona. Addirittura, col pieno consenso della Zarina veniva continuamente evocato lo spirito immortale di Rasputin, celebrando un sacro “mistero” dietro il portale sbarrato della cappella di palazzo Aleksandr, con tre ministri in catena, le donne che pregavano invocando il Santo fino al momento culminante dell’”angoscia”, quando il ministro dell’Interno Protopopov lo vedeva, lassù nel punto più alto della cupola affrescata, e si faceva dettare gli affari di Stato direttamente dall’oltretomba.

Si capisce che fuori, nella città reale, ogni cosa stesse scappando di mano ad un potere cieco. Tutto precipitava, e non si sapeva verso che cosa. Marx era arrivato nella capitale a cavallo del secolo con la prima edizione del Capitale tradotta in lingua straniera (tremila copie, subito esaurite), con gli opuscoli rivoluzionari diffusi nei circoli operai e passati clandestinamente da una cella all’altra tra i detenuti politici della Fortezza Pietro e Paolo. In quel momento, infatti, quando tutto stava per finire e un altro mondo stava per cominciare, i capi rivoluzionari erano in esilio come Lenin a Zurigo e Trotzkij a New York, in prigione come Dzerzhinskij, il futuro capo della Ceka — l’antenata del Kgb —, al confino o deportati sotto sorveglianza dell’Okhrana, la polizia segreta zarista che aveva ereditato metodi e poteri speciali dalla famosa “Terza sezione”, e con il suo “Ufficio nero” controllava anche la corrispondenza dei sovversivi. Da qualche tempo sorvegliava con preoccupazione anche le scuole, in particolare i 90 istituti superiori dove c’erano manifestazioni quotidiane di protesta, nate per ragioni studentesche ma diventate ormai apertamente antigovernative: in una Russia in cui nei primi anni del secolo quattro ministri dello Zar erano morti in attentati progettati ed eseguiti da studenti.
Ma era nelle fabbriche e nelle famiglie che cresceva il malcontento, senza sapere che sarebbe diventato rivoluzione. Già i moti del 1905 erano nati dentro le officine Putilov, con gli operai metalmeccanici che chiedevano la giornata di otto ore e l’aumento del salario minimo. Adesso bisognava fare i conti con un costo della vita triplicato e con un salario operaio che era meno della metà rispetto alle fabbriche inglesi. Ma nessun conto si poteva fare con quello che non c’era: il pane e i generi alimentari di immediata necessità. Prima di Natale manca lo zucchero e le grandi aziende Ivanov e Markov a Mosca chiudono il loro mercato all’ingrosso nel Proezd Lubjanskij che rifornisce tutto il Paese. Il prezzo del tram rincara, senza una spiegazione. Il burro a Pietrogrado sparisce di colpo, poi ricompare all’improvviso a prezzi impossibili, e la gente lo compra comunque, spaventata all’idea di non trovarlo più domani. Psicosi e speculazione si danno il cambio nei mercati, nelle vetrine vuote, ovunque ci sia qualcosa da vendere e da comprare per trasformarlo in un pranzo o una cena.
Ma bisogna attraversare i ponti che hanno ancora l’aquila bicipite sui lampioni in ferro battuto, camminare in senso contrario alla folla rivoluzionaria e andare a cercare il punto d’origine di tutto, nei quartieri operai di Vyborg e di Narva. Qui non ci sono più i forni del pane, ma guardandosi intorno tra le ciminiere si rivede lo stesso fumo di cent’anni fa, quando per i lavoratori delle officine c’era il divieto di tenere riunioni, l’impossibilità di cambiare fabbrica, la proibizione di organizzare mense. Prima, il 9 gennaio, gli operai scelgono l’occasione dell’anniversario della “Domenica di sangue” del 1905 e scendono in sciopero. Poi il pensiero europeo di Marx si realizza nelle strade di Pietrogrado, per la materialità della crisi, la vastità dell’emergenza, il clamore della sua evidenza, senza uno schema ideologico. Scende la temperatura, si allarga il gelo, circola la voce che ci sarà un razionamento dei pochi prodotti nei negozi. Si formano code di donne, di vecchie, di uomini inferociti. Si allungano di notte. Si gonfiano di rabbia col freddo. Qualcuno spacca le vetrine, forza le porte nel buio, ci sono i saccheggi disperati del nulla.
Manca soltanto il detonatore, che sta arrivando. Ma nell’attesa la protesta sta già cambiando direzione, sa dove vuole andare e si rivolge subito contro l’Imperatore, “Zar Golod”, lo “Zar Fame”, colpevole di tutto, la penuria, le code, l’avvilimento e il furore delle famiglie senza cibo e senza diritti, tradite da un potere lontano, separato, inconsapevole perché incosciente, che nella miseria delle tavole vuote perde ogni maestà, qualsiasi sacralità, tutta la potestà imperiale, distrugge perfino l’antica devozione contadina per il “piccolo padre”. L’Okhrana con i suoi agenti infilati nelle code vede arrivare il crollo, invia rapporti sempre più allarmati al governo. «Le donne sfinite dalla fame dei figli e dalle attese interminabili davanti ai negozi sono oggi forse più pronte alla rivoluzione dei loro uomini», dice una relazione di gennaio 1917. Nel febbraio 1914 Petr Durnovo, il ministro degli Interni conservatore, aveva già previsto tragicamente ogni cosa in un memorandum quasi profetico all’Imperatore: «Tutto avrà inizio con l’accusa al governo di essere la causa di ogni male. Si scatenerà una violenta campagna antigovernativa con agitazioni rivoluzionarie in tutta la Russia e parole d’ordine socialiste capaci di sollevare la masse, come la spartizione delle terre e di tutti i beni privati. Le forze armate sconfitte saranno troppo demoralizzate per difendere la legalità e l’ordine. Le istituzioni parlamentari e i partiti, mancando di ogni ascendente sul popolo, saranno impotenti ad arginare la marea popolare da loro stessi provocata e la Russia sprofonderà nella più disperata anarchia».

Chi riceveva i rapporti segreti, chi leggeva i memorandum? Il governo sottovaluta, lascia che lo Zar parta per il quartier generale di Mogilev, dopo che a Zarskoe Selo è rimasto nei suoi appartamenti, dietro la porta chiusa su cui vigilano le quattro guardie abissine coi i turbanti candidi, col divieto di parlare e dopo mezzanotte anche di starnutire. La guerra aveva fatto saltare la fiera di beneficienza nella Sala della Nobiltà, ma i pranzi nel Palazzo Imperiale (quattro piatti a colazione, cinque a cena) venivano sempre preparati per dieci persone, pronti per ospiti improvvisi, come se nel villaggio dell’imperatore tutto fosse normale. In sordina, dopo Natale erano iniziate anche le danze (agli ufficiali era proibito il tango se indossavano l’uniforme), con il famoso “ballo bianco” per le ragazze senza fidanzato, e si pensava già al carnevale, ignorando che non ci sarebbe più stato.

Ma la Corte appare immemore, ipnotizzata dalla precognizione indecifrabile della sua rovina e incapace di trasformare il presagio in politica. La cerchia più larga attorno alla Corona è ancora più avvinghiata al rituali, per paura di perderli. Pochi giorni prima che la scintilla rivoluzionaria si accenda nelle strade di Pietroburgo, la ballerina Mathilde Ksesinskaja — ex fiamma di Nikolaj II quando era un giovane ufficiale della Guardia — apre casa per una cena con 24 ospiti con i piatti di Limoges, il servizio da pesce dorato, myosotis e merletti intrecciati al centro del tavolo, accanto a fiori artificiali in pietre preziose e un piccolo albero di Natale dorato addobbato di diamanti.

Così scivolava “Piter” verso il Febbraio della storia, in una corsa inevitabile come quella delle acque della Neva. Come annota in quei giorni Zinaida Gippius nel suo diario azzurro, «non accade nulla fuori da Pietroburgo, tutto ha inizio qui e da qui si diffonde, solo qui si può sapere, vedere, capire». La città dai tre nomi, scrive Aleksej Tolstoj, vive quelle ore dentro una continua notte da sonnambuli, «fosforescente ed eccitata», «folle e voluttuosa con le sue trojke, i suoi duelli all’alba, le parate davanti a un imperatore con gli occhi bizantini»: accanto alla disperazione delle file per il pane, alla rabbia popolare che scopre se stessa, forte, autonoma, consapevole e cosciente, in un Paese costruito per un potere solo, assoluto e proprietario più ancora che sovrano. Le due anime travagliate formano insieme Pietrogrado, splendida e terribile nella brace ardente di quei giorni, ultima capitale dell’Impero zarista, prima capitale della rivoluzione, eterna capitale simbolica di ogni fine e di tutti gli inizi. Ma adesso, nella sospensione del destino, “Piter” è il personaggio centrale di tutto, scena e attore, protagonista e fondale, come se la città tutta insieme salisse i 13 gradini della scala di Raskolnikov nel vicolo Stoljarnyj per incontrare il suo delitto e il suo castigo, inaugurando la “grande epoca”.
Di notte, cent’anni dopo, tutto sembra com’era, in questa composizione intatta di storia e di luce, di marmi e di fato, di ghiaccio e memoria. Cammino da un ponte all’altro sui canali fino al fiume Prjazhka cercando una finestra. Quella al numero 57 di ulitza Dekabristov dove il poeta Aleksandr Blok passava ore al buio, in quelle notti, guardando il “freddo violetto” di Pietrogrado: e oltre la finestra, «la Russia che vola chissà dove, nell’abisso azzurro- blu dei tempi». 2. Continua
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3) Febbraio di rabbia e fuocoLe operaie, i cosacchi e il primo Soviet Così a Pietrogrado nasce il nuovo mondoEZIO MAURO Rep 3/2/2017
SAN PIETROBURGO Cerco proprio qui l’iskra, la scintilla che ha acceso l’incendio del Febbraio, divampato da questo cortile di filatoio in tutta la Russia, cent’anni fa. Quel giorno, le ragazze avevano ancora in testa il fazzoletto del lavoro, le donne anziane alzavano lo scialle di lana fin sul capo e tiravano fuori dai cappotti la borsa del “non si sa mai” con cui erano uscite di casa al mattino, sperando di riempirla al ritorno con qualcosa da mangiare, qualsiasi cosa. Poiché in Russia la coda chiama coda, è un allarme e una calamita, molte si fermarono al primo assembramento davanti a un negozio di alimentari e verdura, dov’erano finite le patate e qualcuno chiedeva alla folla in attesa se almeno era ricomparso lo zucchero.
Quasi tutte andarono più avanti, cercando nel grande viale il forno più vicino, perché in fabbrica si era sparsa la voce che il generale Chabalov, comandante della regione, il mattino dopo avrebbe fatto scattare il razionamento del pane e della farina. Ore in coda al buio sul marciapiede, nel gelo, tra le voci più incontrollabili, come quella del burro salito a 4,3 rubli al chilo vicino al giardino Botanico, dello sciacallo sgozzato sulla Ligovskaja perché vendeva un litro di petrolio a 5 rubli, del pane nero di segale che prima costava 17 kopeki al chilo e proprio quel pomeriggio era comparso a qualsiasi prezzo solo nel quartiere Vasilevsky, per sparire subito, come dovunque in città.
La rabbia, il timore e la fatica di quella notte entreranno in fabbrica, il mattino dopo. Le donne che portano il peso del lavoro, della famiglia e del cibo che manca si ricordano che il 23 febbraio russo corrisponde all’8 marzo del calendario occidentale, il giorno della loro festa rovesciata in disgrazia. Decidono che non ne possono più dopo un giorno e una notte passati a inseguire il fantasma del pane russo, con la crosta scura e screpolata di farina che nei racconti di Nina Berberova ricorda il volto rugoso delle vecchie. Staccano gli impianti, chiamano allo sciopero gli uomini delle officine Putilov che da settimane chiedono un aumento di salario che non arriva. Escono sulla strada, girano l’angolo e quando sboccano sul Prospekt Sampsonievskij non sanno che proprio lì — a pochi metri da dove oggi c’è la concessionaria Bentley — si stanno affacciando sulla prima ora della rivoluzione. Il giorno del destino fu scelto per caso, senza sapere che sarebbe stato l’ultimo giovedì dell’impero. Le donne puntavano soltanto a raggiungere il centro, non a entrare nella storia. Pensavano di arrivare sul Nevskij per sfilare con la loro protesta davanti ai negozi di lusso e ai palazzi principeschi, salire fino alla cattedrale di Kazan per dire a Dio e allo Zar che volevano il pane, com’era scritto sugli striscioni improvvisati in cui si riconosceva un’intera città eccitata da un caos ipnotico e tutto un Paese stremato da una guerra che aveva mobilitato 12 milioni di uomini per perderne 1 milione e 800 mila in un solo anno. Dovunque, alle operaie in strada si aggiungono gli studenti, gli uomini delle fonderie di Vyborg senza lavoro per la serrata, le madri di famiglia che reclamano cibo, i passanti infuriati con gli speculatori.
La paura spinge la polizia a sbarrare i negozi man mano che si avvicina la protesta ma invece di svuotarsi, il cuore della capitale si riempie. I dimostranti diventano migliaia, urlano contro il governo, camminano tra gli applausi ma quando lasciano il quartiere operaio per entrare in centro, trovano il ponte Litejnyj chiuso con le barriere dei gendarmi e i “faraoni” — i poliziotti — schierati con la baionetta innestata. Soprattutto, vedono i cosacchi, le truppe zariste scelte per ogni repressione, alti sui loro cavalli del Don, con in testa la nera papakha in pelle d’agnello e soprattutto con le cartucciere minacciose cucite a tracolla sui caftani rossi. Una vicenda storica durata trecento anni rimane per un lungo momento incerta tra il compiersi e il disfarsi, e non c’era luogo più adatto per questa sospensione della storia che un ponte di Pietrogrado, la città protesa “come un’aquila” sulla Russia — diceva Pietro il Grande — anch’essa ponte tra Mosca e l’Europa.
Quando il corteo avanza, suona la tromba militare sul Litejnyj che scavalca la Neva ghiacciata. Ma nonostante l’ordine i cosacchi non caricano, non alzano i frustini sulle donne in sciopero: si limitano a spingere i cavalli in mezzo alla folla che si apre e subito si richiude alle loro spalle, continua a camminare, arriva fino alla Duma e davanti al parlamento si ferma, quasi come se la rivoluzione sapesse che cosa voleva e cosa cercava, prima ancora di essere battezzata e riconosciuta.
In realtà il potere aveva un piano di contrasto, definito nei dettagli. Il gelo che paralizza i trasporti e blocca i rifornimenti, il malcontento nelle officine per gli arresti a fine gennaio di tutto il Gruppo Operaio per “associazione criminale mirante a creare una repubblica socialista”, la paura per le infiltrazioni dei bolscevichi nell’esercito, inquietano il governo del principe Golizyn e spingono lo Zar a dare poteri speciali al generale Chabalov aumentando la guarnigione fino a 160mila unità. Con il ministro degli Interni Protopopov che in quei giorni indossa addirittura l’uniforme di Capo della Gendarmeria e cova il piano segreto di soffiare sul fuoco della rabbia operaia per suscitare torbidi, soffocarli nel sangue e poi approfittare della crisi per arrivare ad una pace separata con la Germania.

Ma la ribellione di Pietrogrado prende un’altra strada, imprevedibile come i due sentimenti spontanei che si fronteggiano sui ponti della città. Non ci sono infatti due organizzazioni a confronto, con l’esercito da un lato e il mondo delle fabbriche dall’altro, ma due pezzi di popolo l’uno senza più appartenenza e l’altro ancora senza ideologia. Le operaie hanno deciso da sole di protestare in strada, scavalcando le formazioni rivoluzionarie che si troveranno a inseguire la rivolta dopo i primi giorni, non a guidarla: e i soldati sono in gran parte riservisti o giovani allievi che non hanno alcun addestramento anti-sommossa, temono di essere spediti al fronte, sanno presidiare un ponte ma non vogliono caricare la folla. La guerra e la lontananza della Corte, intanto, hanno logorato l’autorità di un sovrano freddo e distante fino a sembrare insensibile, consumando anche il giuramento militare di fedeltà all’Imperatore, soprattutto in una città vacillante dove tutto scorre nel moto dei canali e solo la pietra è immobile. Il sacro legame tra la Corona e la Russia si disgiunge nel sacrilegio, quando il potere lascia il popolo nella paura ancestrale della fame.
Providenie, la provvidenza russa, fa il resto, e il mattino dopo — il 24 — è un venerdì pieno di sole col termometro che si alza e assemblee spontanee nelle mille fabbriche della città, dove gli operai non entrano nemmeno nei reparti. Centocinquantamila si rimettono in marcia verso il centro di Pietrogrado, di nuovo con le donne in testa. Gli uomini hanno in mano spranghe di ferro, cacciaviti, chiavi inglesi, gli slogan diventano politici, chiedono libertà, qualcuno urla contro la guerra. A qualche decina di metri dal teatro Mariinskij, dove pochi giorni prima per salutare la missione alleata guidata da Lord Milner era risuonato per l’ultima volta l’inno imperiale, adesso molti cantano la Marsigliese che fa il suo ingresso in Russia, la terra del potere assoluto: «Rinunciamo al vecchio mondo, gettiamo la sua polvere ai nostri piedi, non adoriamo più il sacro vitello d’oro ».

Di fronte a una massa così imponente, dove spuntano le prime bandiere rosse, il potere organizza uno sbarramento rinforzato. Non si passa. Ma la spontaneità della protesta sfugge alle mappe militari. Uomini e donne scendono sul letto della Neva gelata, camminano sul fiume e si radunano in piazza Znamenskaja, di fronte alla stazione, da dove invadono le strade in tutte le direzioni. I soldati controllano la folla, parlano con le ragazze, non puntano le armi. Arriva la notizia che sono stati saccheggiati negozi, bloccati tram, rovesciate carrozze. La polizia a cavallo sguaina le sciabole, c’è qualche ferito, ma la giornata finisce tra comizi e arringhe improvvisate di un popolo di sudditi che trova la parola prima ancora della libertà, con i cosacchi che passano a due a due sui cavalli e accettano di bere dalla bottiglia offerta dai ribelli, circondati da cartelli che dicono “Basta col governo”, “Via Protopopov” e addirittura “Viva la Repubblica”.
Ormai la folla sta diventando un organismo collettivo, con decisioni comuni e un solo istinto. Quando scende il buio si ritrae, forse per timore di un attacco. E con la notte riappaiono i fantasmi, in una città senza elettricità ma comunque elettrica e già infuocata, senza trasporti ma riversata in strada, dove tutto sta accadendo e non si sa cosa sia. Tornano le paure, s’inseguono le voci. Dicono che gli infiltrati dell’Okhrana — la polizia segreta — vogliono disordini sanguinosi, raccontano di spie tedesche che manovrano per la pace, rivelano che bande di ladri camuffati da agenti organizzano false perquisizioni per sequestrare cibo e gioielli. Danno notizia di un assalto a un deposito di liquori a Vasilevskij Ostrov, del furto di mantelli nel guardaroba di un teatro del popolo, dell’assalto degli operai alla fabbrica del Litejnyj 3, dove hanno saccheggiato quel che hanno trovato. Poi, le leggende figlie di un’atmosfera surreale, come se si percepisse uno squarcio nell’epoca, un’incognita della storia in cui tutto può succedere perché nulla è impossibile e l’incredibile diventa il quotidiano. Ecco le croci bianche che qualcuno disegna di notte sui muri di qualche casa, come se volesse segnalare quelle famiglie. Ecco le “automobili nere” che compaiono senza targa e con le luci spente in via Povarskaja dove tre pistole escono dai finestrini per sparare nel buio, o in via Vozdvizhenka dove viene colpito un poliziotto e ferito lo studente Shapovalz. Poi si dileguano e corrono fino all’alba nelle chiacchiere e nell’insonnia di Pietrogrado.
Incredibilmente, l’Imperatore non crede alla febbre che brucia la capitale, anche se tutto intorno a lui barcolla. Sedici granduchi chiedono all’ex comandante in capo dell’esercito, Nikolaj Nikolaevic, di mettersi alla guida di un golpe, ma lui rifiuta. I rapporti di polizia sono sempre più allarmanti: «La rabbia cresce, gli umori inquietanti dei rivoluzionari clandestini arrivano al proletariato con la propaganda. Dopo le manifestazioni spontanee vedremo eccessi inesorabili, fino alla terribile rivoluzione ». Nella reggia di Zarskoe Selo tredici giorni prima del caos arriva il presidente della Duma, Mikhail Rodzjanko, con un appello disperato che sembra un ultimatum: «Bisogna cambiare tutto, le persone e il sistema di governo. È urgentissimo, non si può rimandare». Ma si accorge che lo Zar sta pensando di sciogliere la Duma (tanto che consegna al governo un ukaz già firmato, con la data in bianco) e capisce che tutto è finito: «Non passeranno tre settimane che scoppierà una rivoluzione tale da spazzare via ogni cosa. E voi non potrete più regnare».
Come se fosse il sovrano solitario di un regno impalpabile e parallelo, proprio a poche ore dall’inizio della fine lo Zar parte per il quartier generale di Mogilev, lasciando una capitale che sta divorando l’impero. «Hai un aspetto così stanco, così esaurito, Dio ti ha mandato una croce veramente terribile — gli dice il biglietto che trova in treno firmato da Alix, la Zarina — . Fa’ sentire il tuo pugno, l’amore non basta, devono imparare a temerti, mio piccolo Sole». «Stai tranquilla — risponderà Nikolaj — non lo dimentico, ma non è necessario mostrare continuamente i denti a tutti». È il 23 febbraio, quel giovedì fatale, e il diario dello Zar testimonia quel giorno la distanza non solo fisica, ma emotiva, culturale, politica, sentimentale dall’epicentro del cataclisma: «È stata una fredda giornata di sole…». Soltanto il giorno dopo Nikolaj II saprà della rivolta, derubricata dal telegramma della Zarina: «Mio preziosissimo amore, ieri ci sono stati dei disordini. Sull’isola Vasilevskij e sul Nevskij Prospekt dei poveri diavoli hanno assaltato un forno del pane. Hanno completamente raso al suolo il negozio di Filippov e contro di loro sono stati chiamati i cosacchi». Ancora un giorno, e un nuovo telegramma: «Mio caro, scioperi e disordini sono solo delle provocazioni. Si tratta solamente di teppisti, ragazzini e ragazzine che corrono gridando di non avere pane per creare agitazione, e di operai che impediscono ad altri di lavorare. Comunque se la Duma si comporterà bene, tutto pas- serà e tornerà la calma».

Quel giorno, sabato 25, a Piter i “disordini” mutano in rivoluzione, i “ragazzini” diventano insorti, le “provocazioni” si trasformano in politica, i “poveri diavoli” si accorgono all’improvviso che possono conquistare il potere, e incredibilmente lo vogliono. «Siamo davanti a una sollevazione popolare », dice il governatore della città, Balk. L’operaio Kajurov, che guida il Comitato di Vyborg, vede arrivare i bolschevichi, i socialrivoluzionari, e sente cambiare di tono gli slogan urlati da 240 mila dimostranti: «No alla guerra», «Abbasso l’autocrazia », «Via lo Zar». Presto la città è paralizzata, diventa puro paesaggio di quel che accadrà. Verso mezzogiorno per interrompere i comizi davanti alla cattedrale di Kazan la polizia apre il fuoco, ferisce un operaio, la folla risponde lanciando bottiglie, pezzi di ghiaccio, granate. Al ponte il capo della Polizia Salfeev spinge il cavallo a caricare la massa che avanza ma viene disarcionato, gettato a terra, colpito alla testa con un bastone finché gli sparano al petto. I cosacchi guardano senza intervenire. Gli operai corrono da loro, si calano il berretto, li chiamano “fratelli”, le donne urlano di togliere le baionette dai fucili. Tutti portano notizie confuse. Un corteo sta assaltando i negozi sul Gostinyj Dvor, dove un drappello di dragoni spara e abbatte tredici persone. In piazza Znamenskaja avviene la svolta: quando la polizia a cavallo punta le pistole, una sciabolata taglia di netto la testa a un “faraone”: i cosacchi sono passati con gli insorti, la sommossa è ormai rivoluzione.

Nella notte, un telegramma dello Zar a Chabalov ordina di «soffocare la rivolta entro domani». Ma al mattino di domenica, il 26, quando Protopopov porta un’icona sacra alla Duma chiedendo aiuto al cielo, è troppo tardi. La polizia prima dell’alba ha provato ad arrestare quasi cento attivisti rivoluzionari e tutto il Comitato bolscevico, ma la guida del movimento è ormai in mano agli operai di Vyborg. Quando arrivano verso il centro, trovano picchetti, sbarramenti, blindati, e soprattutto grappoli di mitragliatrici sulle scalinate, sui tetti, per controllare il Prospekt Nevskij e le vie di accesso. È chiaro che ormai lo scontro è militare. Il nemico è la polizia, ma la partita è in mano all’esercito. Cosa faranno i soldati? La folla avanza, i gendarmi aprono il fuoco sul Prospekt Vladimir, lungo il Gostinyj Dvor, in piazza Znamenskaja, ci sono almeno 40 morti e decine di feriti. La folla va davanti alle caserme dei reggimenti che hanno sparato, il Pavlovskij, il Volynskij. In migliaia urlano verso le finestre, tra il suono delle ambulanze di una città impazzita, mentre scende la notte sul quarto giorno. Una notte inverosimile, con la borghesia e i Gran Principi che riempiono il teatro Mariinskij per la prima (e ultima) di Maskarad, il “Ballo in maschera” di Lermontov, dove in scena si mette a morte la dorata nobiltà imperiale, che dai palchi applaude la profezia in musica, circondata da una piazza deserta e livida nel buio.
Quando gli operai arrivano nel quartiere militare, il lunedì mattina, le caserme si stanno già ammutinando. Prima si ribella la Quarta Compagnia del reggimento Pavlovskij, alle sette del mattino gli allievi del Volynskij uccidono il comandante, poi tocca al Litovsky e al Preobrazhensky saccheggiare l’armeria e portare fucili e pistole Browning agli insorti. La notizia della diserzione di massa corre per tutta Pietrogrado. Salta l’Arsenale, escono 40mila fucili. Si spara dovunque, colpi in strada, per aria, dalle finestre, contro i cecchini appostati sui campanili di via Sergievskaja. Brucia il Tribunale, s’incendia la sede della polizia segreta, salgono le bandiere rosse sul palazzo dei principi Jusupov e su quello del Granduca Kirill. Senza ufficiali — in fuga — le truppe seguono la folla che spalanca le prigioni tra gli applausi, poi la sopravanzano e la guidano verso l’unico e ultimo centro di autorità ancora in piedi: la Duma a palazzo Tauride.
Diventata rivoluzione, la rivolta quasi chiede di essere guidata, e al suo quinto giorno cerca il cuore politico della Russia. Lo trova, esangue e moribondo, oltre le sei colonne doriche di Tauride, il palazzo favoloso del principe Potëmkin, favorito di Caterina II. Ciò che resta della Duma, con lo scioglimento sospeso, sta boccheggiando in queste stanze, incapace anche di decidere una seduta pubblica d’emergenza. Il presidente Rodzjanko cerca ancora di convincere lo Zar, con due telegrammi disperati: «La capitale è in mano all’anarchia — scrive il 26 — il governo paralizzato, le polizie si sparano tra di loro, è necessario un nuovo governo con la fiducia, ogni ritardo significa la morte. Prego Iddio perché in quest’ora la responsabilità non ricada sul Sovrano». Inutilmente. Il giorno dopo l’ultimo messaggio all’Imperatore: «La situazione peggiora, bisogna adottare misure urgenti, domani è troppo tardi. È giunta l’ora estrema in cui si decide il destino della patria e della dinastia». Silenzio. Nell’ala grande del palazzo finalmente il Consiglio degli Anziani decide di far nascere un Comitato Provvisorio con pieni poteri, embrione di un primo timoroso governo non scelto dallo Zar, con tutti i partiti meno l’estrema destra, e fa entrare i soldati ribelli a presidiare la Duma dall’interno.
Ma intanto due dirigenti menscevichi appena liberati dalla prigione Kresty si incontrano a Tauride con i deputati del “Blocco Progressista”. Si fanno dare le chiavi della sala 13 e dell’ufficio 12, e qui nasce quella notte il Comitato Esecutivo del Soviet Operaio di Pietroburgo. Per un testa-coda della storia, il Soviet prende forma in un palazzo simbolo dell’assolutismo, dove il Principe si mostrò alla grande festa dell’aprile 1791 col vestito ricoperto di diamanti e una coiffure talmente addobbata che veniva sorretta dall’aiutante di campo. Ma adesso, nella Sala Caterina c’era di tutto. Soldati, armi, viveri, munizioni, cappotti, bende, medicinali, scarpe, divise, bombe a mano, mitragliatrici, persino una macchina da cucire. Curiosi, cittadini, operai, soprattutto soldati. Nello stesso palazzo si fronteggiano così i due nuovi poteri. Il Soviet, che controlla la guarnigione di Pietrogrado e chiede obbedienza a tutto l’esercito, cosciente della sua crescente autorità rivoluzionaria, e la Duma, che ha in mano la rete ferroviaria, quella telegrafica e l’esecutivo, ma sembra spaventata dalla sua stessa inedita autonomia post-zarista. A Tauride, in una confusione indescrivibile, arriva la notizia che anche il villaggio imperiale di Zarskoe Selo si schiera con la rivoluzione, e che la bandiera dello Zar è stata ammainata dal Palazzo d’Inverno, e al suo posto è salito un drappo rosso. Applausi, urla, pianti, spari in aria nel giardino d’inverno. Provo a rintracciare l’eco di queste voci, il fragore del 1917 sotto la cupola del palazzo, tra le 36 colonne che reggono l’enormità della sala Caterina. Non c’è più niente, solo i lampadari giganteschi costruiti in cartapesta dorata per sostenere quelle dimensioni senza peso, e le finestre da cui la folla si affacciava per vedere l’ultimo atto della rivoluzione, cent’anni fa. Qui venivano a sottomettersi in quei giorni i battaglioni imperiali ribelli, ad uno ad uno, qui venivano a costituirsi i ministri del governo zarista, uno dopo l’altro. Qui si presentò il deputato Miljukov, capo del partito dei Cadetti, alle tre del pomeriggio: «Solo pochi giorni fa il governo russo sembrava onnipotente, ora giace nel fango, per la più corta e la meno sanguinosa tra tutte le rivoluzioni della storia. Sostituiremo un nuovo potere democratico all’antico potere caduto. Nessuno ci ha scelti, se non la rivoluzione. Quando sarà il momento ce ne andremo grati. Quanto alla dinastia, l’antico despota rinuncerà benevolmente al trono oppure sarà rovesciato». Nella sala vuota, adesso, stanno montando un set televisivo, una ballerina prova da sola con la musica dello Schiaccianoci che esce dal telefono, immortale, e sembra dire che tutto è stato soltanto una parentesi, anche quel 3. Continua. Le puntate precedenti sono uscite il 9 dicembre 2016 e il 13 gennaio 2017

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4) L’ultimo treno dello Zar
Il primo giorno di marzo Nicola II è nella carrozza al binario dove abdicherà
EZIO MAURO Rep 1 3 2017
PSKOV L’ULTIMA reggia dell’ultimo Zar, nell’ultima notte, è quella carrozza salotto al centro del treno imperiale fermo nel freddo e nel buio del primo giorno di marzo 1917 sul binario di Pskov, dove giunge alla sua stazione finale la storia di una dinastia cominciata 300 anni prima. L’Imperatore della Russia è in viaggio dalle cinque del mattino dell’altroieri. Comandante in capo dell’Armata Imperiale al terzo anno di una guerra disastrosa era nella sua “ stavka”, il gran quartier generale dell’esercito a Mogilev, dove riceveva da giorni notizie allarmanti sui disordini in strada a Pietrogrado.
Quando lunedì un ufficiale cosacco gli ha fatto l’ultimo rapporto dalla capitale con l’incredibile notizia dei reparti dell’esercito scesi in piazza coi dimostranti (persino il fedelissimo reggimento Preobrazhenskij, che ha sempre avuto la sacra corona nelle insegne), ha deciso di tornare in famiglia e ha dato l’ordine di partire subito per la residenza imperiale di Zarskoe Selo, dov’erano i suoi. I ragazzi avevano la rosolia, tutti a letto, Alix l’imperatrice era preoccupata per lui, solo e lontano: «Tutto ci è avverso — scrive la Zarina in una lettera disperata al marito, portata per 274 chilometri da un corriere a cavallo — . E gli avvenimenti si sviluppano con una velocità folgorante».
La luce di due lampade è accesa nel vagone letto della Corona. Binari divelti, stazioni poco sicure, bande in movimento, voci confuse hanno consigliato al battaglione ferroviario un percorso alternativo per la sicurezza del Sovrano e del seguito che viaggia su un altro convoglio, il treno B. È un tragitto dall’impero al caos. Alle stazioni, dove arrivavano sempre i governatori locali per salutare lo Zar con l’inchino, adesso i ferrovieri non vogliono farlo proseguire, lo deviano da una destinazione all’altra e il conte Frederiks, ministro dell’imperial casa, gli racconta che è colpa di un ponte malandato e pericoloso. Infine si decide di cercare la protezione dello stato maggiore del fronte settentrionale, a Pskov, comandato dal generale Ruzskij. Arrivando, il treno si ferma per cautela al chilometro 1,8, quel punto della storia dove oggi — cent’anni dopo — tutto appare come allora, nel vuoto ingannevole della campagna. Non c’è una casa, solo le rotaie tra gli alberi e i cespugli. Forse Nikolaj II vide questa enorme garitta di legno vuota, con le finestre per controllare dall’alto, d’inverno, gli scambi e i binari che sembrano puntare infiniti verso la distesa di una Russia immutabile. Prima, quando la locomotiva si era fermata a Malaja-Viscera per far rifornimento d’acqua, lo Zar era sceso a passeggiare in uniforme, con il cappello a visiera e la fascia bianca sul petto. Per la prima volta non c’era nessuna Guardia d’onore. L’ultimo omaggio lo rendono ignari i contadini di Staraja Russa, che quando il treno rallenta passando alla stazione vedono lo Zar attraverso il finestrino, per un attimo, e si tolgono il cappello.
Adesso l’Imperatore guarda dal vetro gelato la stazione grigia di Pskov, le colonne e gli archi, e non sa ancora che questa sarà la sua ultima tappa reale, dopo 23 anni di trono. Fuori qualcuno ha acceso cinque fuochi sulla piattaforma, il riverbero rosso si mescola con la seta verde che ricopre le pareti del vagone. Gli ricorda il color malva del salotto dell’imperatrice, nel palazzo Aleksandr, i mazzi enormi di lillà nella sala d’angolo al Palazzo d’Inverno dove prima del ballo sfilavano marescialli di Corte e ciambellani decorati con la gran chiave d’oro, guardie a cavallo con l’aquila sul colbacco, lancieri in cremisi e ussari con gli alamari dorati, coppieri e gran scudieri, dignitari caucasici coi preziosi sul pugnale, in attesa che si aprisse la porta dei Romanov con l’annuncio di “Sua Maestà Imperiale”. Tutto questo finiva sul binario morto di una ferrovia che portava chissà dove nella notte russa, e in un vagone tre volte più piccolo del salotto di palissandro dove normalmente faceva colazione. Un divano, due poltrone, una sedia e una scrivania. Sopra, la penna con cui tra poche ore sottoscriverà l’atto di abdicazione firmando Nikolaj II, per grazia di Dio Autocrate di tutte le Russie.

Su quel treno finiva anche una tirannia, come la chiamavano i bolscevichi, certamente un potere assoluto, sordo e chiuso da tre secoli su se stesso, una dinastia che sposava con l’autocrazia più cieca la vocazione imperiale della Russia, un regno riluttante con un sovrano renitente fin dal primo giorno, spaventato com’era all’idea di una responsabilità a cui suo padre Alessandro III non l’aveva preparato e tuttavia convinto di essere strumento sacro di una missione divina. Finiva l’angoscia di una biografia reale terrorizzata da se stessa, dall’autoprofezia di sventura («sono nato nel giorno di Giobbe») ai segni nefasti che hanno accompagnato il regno, come la catena dell’Ordine di Sant’Andrea che gli scivola a terra proprio mentre suonano tutte insieme le campane delle centouno chiese di Mosca, quando sta per porsi in capo la corona, o come le porte chiuse del monastero della Trinità quando arrivano in visita i giovani nuovi sovrani, quasi che il beato Serghej, il santo più venerato di Russia, non li volesse accogliere.
Suggestione e realtà si uniscono infine in un destino funesto con la festa rituale dopo l’incoronazione, quando lo zar distribuisce alla popolazione doni, birra, dolci e pan pepato e la folla si accalca sul campo di Chodynka spingendosi fino a calpestarsi e soffocarsi, trasformando il battesimo imperiale in una tragedia sotto gli occhi di tutti. In un Paese in cui la tradizione dice che «lo Zar può essere soltanto sanguinario o insanguinato », il cammino reale di Nikolaj sembra segnato fin dall’inizio, anche perché incredibilmente la sera stessa il sovrano e la moglie partecipano al gran ballo in loro onore organizzato dall’ambasciatore francese, mentre la città conta 1.282 morti e più di diecimila feriti e i reali aprono le danze con la prima quadriglia. Finché, nove anni dopo, si arriva alla “Domenica di sangue”, il 23 gennaio 1905. Il pope Gapon guida migliaia di operai e contadini con le sacre icone e i ritratti dello Zar davanti al palazzo d’Inverno non per una ribellione ma per una supplica al Sovrano, chiedendo protezione per il popolo e denunciando le difficili condizioni in cui vive. Il pope garantisce che “batjuska” Nikolaj — lo Zar che è come un padre — li aspetta. Ma l’imperatore spaventato dall’Okhrana, la polizia segreta, ha lasciato il palazzo per Zarskoe Selo, le truppe aspettano la folla all’ingresso della piazza, sparano su uomini, donne e bambini, il massacro lascerà mille morti nella neve. Gapon giura davanti al sangue: «Vendichiamo i nostri fratelli, sia maledetto dal popolo lo Zar e tutta la sua genia di serpenti». «Dio mio — scrive Nikolaj nel suo diario — che dolore, che pena».
In una terra di superstizioni e prodigi lo Zar non cerca nemmeno di sfuggire alla leggenda del fato funesto che lo insegue davanti al suo popolo, con la Russia che vedendo per la prima volta la futura Zarina in lutto al funerale del padre di Nikolaj, stabilisce fin da quel momento e per sempre che «la morte l’accompagna». Conservatore ostinato fino al penultimo atto dell’autocrazia ricevuta dal padre come involucro di garanzia del potere imperiale, l’Imperatore si oppone ad ogni riforma (il nonno aveva abolito la schiavitù della gleba nel 1861) proprio per il dovere di consegnare intatta la potestà zarista assoluta e autosufficiente a suo figlio. Nello stesso tempo, e quasi per paradosso, rifugge agli sfarzi e ai riti di corte, con eccezione delle parate militari, preferendo rifugiarsi nella sua famiglia e ritornando semplicemente padre e marito, le due cose che probabilmente gli piacciono di più e sa far meglio. Con Alix l’Imperatrice ha un’intesa profonda, testimoniata da quei biglietti con una coroncina dorata in alto, su cui la Zarina scriverà al marito 653 lettere. «Mio amato, angelo caro — dice l’ultima, firmata la sera del 4 marzo in due copie, affidate per sicurezza a due cosacchi della scorta, Solovev e Gramotin, nascoste entrambe sotto la sella, — ho paura di pensare a quello che stai sopportando, è una cosa che mi rende pazza».
L’ha voluta sposare contro il parere dello Zar suo padre, nella freddezza del popolo per “la tedesca”, 1nell’antipatia della corte per una sovrana che la rifiutava e non concedeva confidenza, preferendo chiudersi in un misticismo religioso nevrotico pieno di segni, di auspici e di presagi coltivati e utilizzati dalla tonaca nera di Rasputin: ingigantendo da un lato il senso di colpa per l’emofilia (allora incurabile) trasmessa da Alix come “malattia dei re” allo zarevic Aleksej, e sfruttando dall’altro la tentazione della Zarina di muoversi come una seconda Caterina, manovrando gli affari di Stato. Ma adesso è sola nel palazzo di Zarskoe Selo, con “Baby” — come in famiglia chiamavano l’erede imperiale — che chiede notizie del padre e lei che risponde «Dio solo sa cosa sta accadendo», perché i telegrammi tornano indietro con la scritta blu “destinatario sconosciuto”. Quando esce di casa si accorge che i soldati non fanno più il saluto ai comandanti, fumano in faccia agli ufficiali, finché la guarnigione si ribella, coi suoi 40 mila uomini dal mantello grigio e l’antiaerea, si sentono spari vicino al palazzo e anche il canto della Marsigliese. Persino la Guardia d’onore dello Zar se ne va portando via le bandiere, quei soldati con le mostrine imperiali che Alix conosce per nome ad uno ad uno e che si facevano fotografare la domenica nel parco scambiandosi per gioco il saluto militare con lo zarevic. Terrorizzata, manda un messaggero dal Granduca Pavel per avere notizie e chiedere aiuto, ma il capitano quando scende da cavallo trova il palazzo spalancato, deserto, con la servitù in fuga. L’Imperatrice è persa nel vuoto di un impero che sta finendo, attorno a un trono ormai spoglio, con lo Zar lontano che sta per diventare semplice cittadino e lo zarevic malato che non sarà mai re, non raggiungerà ormai più l’eredità di quella maestà imperiale per cui era stato atteso e invocato per dieci anni dopo il matrimonio dei due sovrani, tra medici, santoni, voti, preghiere, suppliche e il Te Deum finale.
A quello stesso Dio si rivolge Nikolaj nel treno fermo sul binario imperiale dove consuma le sue ultime ore da Zar chiedendo aiuto al Signore per la moglie lontana, senza notizie, con le linee del telefono bloccate e i telegrammi che funzionano solo attraverso la rete delle ferrovie, con il macchinoso apparato Hughes. Il Sovrano attende ancora notizie dal generale Ivanov, l’eroe di guerra che sta viaggiando verso Pietrogrado con il battaglione San Giorgio, pronto a mettersi alla testa di reparti lealisti distaccati dal fronte con l’ordine di soffocare la rivoluzione. Ma il rapporto che il comandante della capitale Chabalov invia al generale è da bandiera bianca: asserragliate nell’Ammiragliato sono rimasti quattro compagnie della Guardia, cinque squadroni di cosacchi, due batterie di artiglieria, tutto il resto sta coi ribelli, con bande di soldati che girano la città per disarmare gli ufficiali e tutte le stazioni in mano agli insorti. A Kronstadt il vice-ammiraglio Kuros informa che non può contrastare la rivolta perché i suoi uomini se ne sono andati. L’ammiraglio Nepenin aggiunge che i marinai della flotta del Baltico si sono sottomessi alla Duma. A Mosca il comandante Mrozovskij spiega che i rivoluzionari hanno in mano la città e l’artiglieria è con loro, mentre il “gradonachalnik” (il governatore) è fuggito. Quei rapporti arrivano a Pskov, assediano il vagone imperiale fermo come una rappresentazione della fine.

Entra nel salotto ferroviario dello Zar il generale Ruzskij e lo invita a fare tutte le concessioni utili a salvare la corona davanti al precipizio: gli eventi non concedono scampo e non c’è più tempo da perdere. Mentre il suo mondo sta già crollando, L’Autocrate firma un “Manifesto” pronto da giorni, in cui concede ciò che non ha mai voluto concedere: un governo provvisorio «con la fiducia del Paese», un’assemblea legislativa che prepari una «nuova legge fondamentale per l’Impero». Ma il generale sa che a Pietrogrado tutto sta precipitando, e il “Manifesto”, non uscirà mai dal treno. Quando Ruzskij si consulta col Capo della Duma, Rodzjanko, capisce che tutto adesso è inutile: «È ormai chiaro — dice il Presidente — che nessuno di voi si rende conto di quello che sta succedendo. Ci troviamo di fronte ad una delle rivoluzioni più terribili che siano mai scoppiate. Le passioni popolari sono incandescenti, le truppe sono completamente demoralizzate e stanno trucidando gli ufficiali, l’odio per l’Imperatrice ha toccato il limite estremo. Quello che avete pensato è insufficiente e la questione dinastica esige una soluzione immediata». Un altro generale, il Capo di stato maggiore Alekseev, fa la mossa in più, decisiva. In una sorta di golpe telegrafico, invia un messaggio con l’ultimatum della Duma ai comandanti in capo di tutti i fronti, il caucasico, il rumeno, l’occidentale, alle flotte del Mar Nero e del Baltico, ponendo il tema dell’abdicazione dello Zar «per impedire la disgregazione dell’esercito e salvaguardare il futuro della Russia e della dinastia».
Nel primo pomeriggio di giovedì 2 marzo arrivano le risposte dai reparti in guerra che partono tutte, sempre, dal giuramento di fedeltà all’Imperatore per chiedergli in realtà subito dopo di abbandonare il trono: lo «implora in ginocchio» dal Caucaso il Granduca Nikolaj Nikolaevic, «per salvare la Russia e l’erede», gli rivolge una «sincera supplica dettata dall’amor di patria» il generale Brusilov aiutante di campo, mentre «l’infinitamente devoto suddito » generale Evert gli conferma che l’abdicazione «è l’unico mezzo per fermare gli orrori dell’anarchia ». Sono le due quando il generale Ruzkij mostra al Sovrano i dispacci militari. Parlano chiaro. L’esercito lo ha abbandonato e gli impone di lasciare la Corona al figlio, sotto la reggenza del Granduca Mikhail, com’è scritto nell’atto ufficiale preparato dal generale Alekseev. La profanazione è avvenuta, manca solo la risposta. «Ho acconsentito», scriverà Nikolaj II nel suo diario.
Soltanto due parole, già al passato, per siglare una tragedia personale accettata sperando inutilmente di fermare una tragedia più grande. Il dovere di fronte all’esercito, incarnazione della patria da difendere, è quello che più pesa sull’Imperatore. L’impotenza davanti al caos dominante lo sovrasta. Il monito della Zarina, scritto in una lettera, lo tormenta: «Tu sei l’Autocrate senza il quale la Russia non può esistere». Con l’educazione imperiale nella quale ha coltivato la sacralità dello scettro, per lo Zar è meglio rinunciare al trono che doverlo condividere con un parlamento: l’autocrazia si spezza insieme con la sovranità, perché è ciò che la rende un diritto- dovere divino, un obbligo morale nei confronti della dinastia passata e futura, un impegno religioso davanti alla Russia e alla storia. Nikolaj II può rinunciare ad essere Zar, ma lo Zar non può rinunciare ad essere autocrate. Con i telegrammi dei generali in mano, l’Imperatore non smette di fumare, poi si alza in piedi, sosta a lungo davanti al finestrino e infine si volta facendosi il segno della croce: «Ho preso la mia decisione, chiedo a tutti di servire sinceramente e lealmente mio figlio». Il conte Frederiks, che è anche capo della Guardia di Palazzo, vuol far arrestare i generali, l’ammiraglio Nilov invita lo Zar a resistere con ogni mezzo. «Non c’è altro da fare — risponde Nikolaj — . Tutti mi hanno tradito ». Ma la Duma chiede che due suoi emissari siano presenti alla firma dell’abdicazione e riportino il documento ufficiale a Pietrogrado. Bisogna dunque aspettare che arrivino dalla capitale i due delegati, Guckov e Sulgin, la Russia è grande, anche la fine deve attendere che le distanze tra i poteri si colmino.
Passano sei ore sulla piattaforma di quella stazione, a Pskov, dove la storia ha deciso che tutto doveva compiersi. E il sovrano, già dimissionario ma non ancora auto-deposto, rivela l’ultimo dubbio angoscioso della sua pena. Fa chiamare il medico di corte che lo accompagna, il dottor Fedorov, si chiude con lui nel vagone e affronta il segreto di Stato della malattia emofiliaca dello zarevic Aleksej: ha tredici anni, in quali condizioni riuscirà a regnare, quali rischi potrà correre, cosa si può fare per proteggerlo adesso che deve salire al trono? Non bisogna illudersi, risponde il medico, il male dell’erede è incurabile, avrà sempre bisogno di precauzioni straordinarie, ma il problema è che probabilmente suo padre e sua madre saranno esiliati e lui verrà separato da loro e dovrà provvedere da solo a se stesso. Il destino del padre e del figlio si toccano, nell’ultimo giorno, all’ultima fermata, nel buio del marzo di Pskov. Ufficialmente, soltanto una lapide sovietica appesa all’interno della stazione, davanti ai binari, ricorda che proprio qui si è deciso tutto perché qui si è incrociato il destino dei Romanov e della rivoluzione. Ma immediatamente fuori, se si entra nella “Cappella celeste” la storia si riapre e il cielo torna a toccare la terra come vuole la fede russa più antica. Tanto che la famiglia imperiale oggi è di nuovo al posto d’onore di fianco all’altare, disegnata come un’immagine sacra, riunita tutta insieme sotto la croce: con le vecchie che entrano, s’inchinano e la baciano cent’anni dopo, per poi pulire il vetro con lo straccio e con l’olio delle icone sante e benedette.
Ma quella notte del 2 marzo, tutto deve ancora avvenire, e adesso Nikolaj è solo davanti all’inevitabile che aspetta la sua ultima decisione sovrana. Il potere assoluto e l’impotenza finale si congiungono nella scelta. Nel gelo del binario, tra i fuochi accesi dai servitori di corte, lo Zar scende dal treno a far due passi con la “cerkeska”, il mantello grigio dei cosacchi, e vede arrivare le luci di una locomotiva che conduce una sola carrozza. Tende la mano ai due uomini della Duma che attendeva, li porta nel suo salotto, si siede accanto al tavolino accostato alla parete e li ascolta mentre con imbarazzo chiedono la sua rinuncia al trono, tormentando il cappello, coprendosi il viso con le mani. Il sovrano alza un braccio, li ferma: «Ho deciso di abdicare. Fino alle 3 di oggi pensavo di farlo a favore di mio figlio, poi ho cambiato idea a favore di mio fratello Mikhail. Spero, signori, che comprenderete i sentimenti di un padre ». Firmò il testo dattiloscritto su un modulo del telegrafo, concluse chiedendo «al signore Iddio di aiutare la Russia», scrisse l’ora in cui aveva preso la decisione da solo — le tre del pomeriggio — anche se ormai era mezzanotte appena passata. Fingendo di averlo siglato alle due, quando ancora era l’Imperatore, consegnò agli uomini della Duma il decreto di nomina del nuovo Capo del governo, il principe L’vov, come gli avevano chiesto. Guckov se ne andò stupito di non vedere «l’ombra di un’emozione» in un uomo «dai nervi d’acciaio» ma «con una diminuita capacità di percezione». In realtà non era così. Quando restò solo, spogliato dalla corazza della regalità, Nikolaj ebbe il tempo per fare i conti con il sentimento finale della giornata più tremenda della sua vita, annotandolo sul diario: «Sono partito da Pskov con una penosa sensazione, mi sentivo un sopravvissuto. Attorno a me tradimento, viltà e inganno ». In più, un incrocio della storia che l’ultimo Zar non poteva conoscere: proprio a Pskov aveva scelto di abitare Lenin, dopo la fine del suo esilio a Susenskoe.
Mikhail, spaventato, dirà no alla Corona su richiesta della Duma che lo incontra alle undici del giorno dopo, a casa della principessa Putjatin a Pietrogrado, da dove uscirà a mezzogiorno la rinuncia del Granduca che invoca «la benedizione del Signore » e prega tutti i cittadini (non più sudditi) della Russia «di sottomettersi al governo provvisorio», lasciando il trono zarista definitivamente vuoto. La monarchia dei Romanov finiva così in un appartamento borghese di via Millionny, al numero 12. Proprio mentre il treno imperiale lentamente e finalmente poteva muoversi, compiuto il destino dell’ultimo zar. Correndo sui binari che tagliavano la neve per tornare a Mogilev dal quartier generale e soprattutto dall’Imperatrice Madre — in realtà verso l’incognito — Nikolaj ora dormiva a lungo, dopo aver letto un libro su Giulio Cesare. Come ha scritto Vasilij Rozanov nell’Apocalisse del nostro tempo, si era così sbriciolato un mondo: «L’impero si è letteralmente disintegrato un giorno feriale, un mercoledì qualunque. Dio ha sputato e ha spento la candela ».
4. Continua. Le puntate precedenti sono uscite il 9 dicembre 2016; il 13 gennaio e il 3 febbraio

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5) Il destino corre sul treno di Lenin
Vladimir Ilic torna dall’esilio di Zurigo attraversando l’Europa in guerra e scrive le “Tesi di aprile”
EZIO MAURO 3 4 2017
QUANDO apparve in cima ai tre gradini, Lenin aveva 47 anni, un cappotto grigio di lana, un partito di 26 mila iscritti che lo aspettava, la moglie Nadja che lo accompagnava con 28 compagni e due ragazzi, il berretto con la visiera da operaio che aveva appena sostituito il capello borghese di feltro con cui era partito da Zurigo: per attraversare sette giorni e sette notti, cinque Paesi, una guerra e ritornare in patria dopo 17 anni di esilio, ricongiungendo la rivoluzione al suo destino.
Aveva rivisto la Russia dal finestrino a Belostrov, quando aveva finalmente aperto le tendine dello scompartimento di terza classe, illuminato da una candela ma con il vecchio profumo caldo della “paskha”, la torta pasquale di ricotta fresca che i soldati mangiavano in fondo al vagone. Per tutto il viaggio attraverso la Germania — quasi mille chilometri — aveva pensato alle accuse di tradimento che quel lungo passaggio nel territorio del nemico avrebbe potuto scatenare in Russia, e nello stesso tempo aveva temuto un’imboscata del Kaiser, magari in qualche stazione notturna, col treno trasformato in trappola. Ma adesso dopo la Svezia e la Finlandia ritrovava infine la Russia, inquadrata nel vetro umido di freddo della quinta carrozza, il cielo curvo del tramonto a primavera e la terra piatta che correva di fianco ai binari. Aveva appena riabbracciato la sorella Marija, che non vedeva da quando era scoppiata la guerra, ed era venuta ad accoglierlo a Belostrov insieme con Lev Kamenev, portandogli l’ultimo numero della Pravda. La leggeva e scuoteva la testa: tutto sbagliato, avrebbe dovuto lottare per correggere la linea del partito bolscevico, per tutto il viaggio aveva scritto le sue Tesi proprio per questo, non c’era più tempo da perdere.
Aveva creduto di impazzire («non dormiva più la notte», diceva la moglie) dopo quel 15 marzo alle due del pomeriggio, quando con i tre colpi in codice alla porta Mieczyslaw Bronski si era catapultato nella stanza che i Lenin affittavano a Zurigo — 28 franchi al mese, senza stufa, uso cucina — da Herr Kammerer il calzolaio, al 14 di Spiegelgasse. Il compagno polacco ripeteva urlando che in Russia era scoppiata la rivoluzione. Nadja stava lavando i piatti. Fecero mille domande, non potevano crederci, ma poi corsero giù per l’acciottolato in discesa della vecchia città verso il lungolago, dove erano esposti i giornali svizzeri. Videro sotto la pioggia i dispacci da Mosca e da Pietrogrado nella bacheca del Neue Zurcher Zeitung e del Zuricher Post in piazza Bellevue. Era vero. Lenin che aveva detto a Inessa Armand «noi vecchi forse non vedremo le battaglie decisive», adesso si trovava davanti la rivoluzione in Russia, e doveva apprenderlo da lontano, in ritardo e da un giornale. Non si capiva che fine aveva fatto lo Zar, chi governava, ma si trattava di una rivoluzione: per il pane e la libertà.
E lui, Vladimir Ilic, era a 2500 chilometri di distanza, con una guerra in mezzo, in un esilio dove ha pensato alla rivolta della Russia notte e giorno, dove ha scisso il partito socialdemocratico separandosi dai menscevichi di Martov, dove ha dovuto difendere le rapine per il partito e gli espropri dei bolscevichi caucasici, dove mangia zuppa al latte perché lui e Nadja non hanno soldi, dove la sua rivoluzione sta chiusa ogni mercoledì sera in una saletta del caffè Zum Adler sulla Rosingasse, quando si riunisce un gruppetto di socialisti svizzeri e polacchi, mentre le conferenze bolsceviche si fanno la domenica al Club degli Orologiai.
Deve tornare, ad ogni costo, deve uscire dal “podpol”, il sottosuolo. La sua propaganda disfattista spaventa francesi e inglesi, che gli negano il transito per il timore che la predicazione in patria di Lenin contro «la guerra predatoria imperialista» faccia crescere la tentazione di una pace separata con la Germania. Allora progetta di attraversare il territorio tedesco con un falso passaporto svedese, fingendosi sordomuto, esplora l’aiuto di un contrabbandiere, pensa di camuffarsi con una parrucca in Olanda, accarezza l’idea di Martov per uno scambio russo-tedesco tra esuli e prigionieri, si informa sui costi di un aereo privato. Poi si convince che bisogna negoziare il rientro con la Germania, perché non c’è altra via. Ma i soldati russi dal 1914 stavano combattendo e morendo sul fronte tedesco, un’intesa di Lenin con Berlino avrebbe avuto il sapore del tradimento, poteva distruggerlo.
Per ragioni opposte alla diffidenza di Londra e Parigi la Germania era interessata a riportare Lenin in Russia, sperando di aumentare il disordine politico e di soffiare sul caos col disfattismo rivoluzionario.
Quando a Monaco era nata l’Iskra, i primi numeri preparati da Lenin e Martov vennero confezionati nell’abitazione di Alessandro Helphand, un giovane giornalista che si firmava “Parvus”.
Adesso, nel marzo 1917, Parvus rispuntava nella vita di Lenin sotto l’identità di un miliardario socialista che aveva fatto i soldi chissà come in Medio Oriente, ambiguo, intrigante, giocatore, capace di usare il potere politico a Berlino, o di esserne usato. I due hanno un amico comune, Jacob Furstenberg, in contatto col segretario di Stato agli Esteri Arthur Zimmermann, e con Zinovev che da Berna negozia segretamente per conto di Lenin, chiamandolo nella trattativa sempre prudentemente “zio”. Bisogna informare il Kaiser che una potenziale bomba rivoluzionaria viaggerà per una settimana su un treno tedesco attraversando da Sud a Nord tutta la Germania: il 26 marzo Guglielmo approva. Ma il rischio è tutto di Lenin. Tornerà in patria grazie alla Germania, come un collaborazionista, infiltrato in Russia dal nemico, sospettato di alto tradimento. Ilic, come lo chiama Nadja, è consapevole dell’azzardo capitale. Cerca di avere la copertura scritta dai personaggi più influenti del socialismo europeo ma raccoglie solo firme minori. Poi chiede a Berlino di viaggiare su una sorta di treno extraterritoriale, impermeabile a ogni contatto coi tedeschi durante il tragitto in Germania, senza controlli di polizia e di frontiera, senza passeggeri oltre ai rivoluzionari, senza incontri alle stazioni. È il “treno piombato” che corre nella leggenda da un secolo.
In realtà è una carrozza speciale che li aspetta nella piccola stazione tedesca di Gottmadingen, subito dopo il confine svizzero. Un solo vagone verde scuro con due toilette ai lati, cinque scompartimenti di terza classe con le panche in legno dove si sistemarono gli scapoli, e tre settori di seconda classe con i sedili imbottiti per le famiglie, le donne, i due bambini, Stepan di 9 anni e Robert di 4. Due ufficiali tedeschi, il luogotenente von Buhring e il capitano von Planetz, occuparono l’ultimo scompartimento di terza classe e il socialista svizzero Fritz Platten tracciò un semicerchio col gesso nel corridoio davanti a loro, che solo lui — il mediatore tra rivoluzionari e tedeschi — poteva attraversare. Era la “piombatura” che Lenin aveva richiesto, insieme con la chiusura a chiave delle tre porte. Ma questo non bastò per evitare i fischi e le urla contro di lui alla partenza da Zurigo, anticipo della tempesta russa prossima ventura: «Traditore», «Spia», «Venduto al Kaiser ».
A Lenin e a Nadja Krupskaja, che avevano lasciato un baule di vestiti nel bagagliaio, portando con loro una scatola di libri e una di giornali dopo aver bruciato le lettere, venne riservato uno scompartimento, in modo che Ilic potesse lavorare scrivendo chino sul suo quaderno nero. Prima, aveva distribuito delle tessere numerate per il bagno, e un secondo contrassegno per i fumatori che dovevano raggiungere la toilette, visto che Lenin non sopportava il fumo. Andò anche due volte nel corridoio a chiedere di abbassare la voce. E un’altra volta fu il capitano von Planetz che chiese a Platten di far cessare il canto della Marsigliese che saliva dalla terza classe, con insolenza rivoluzionaria. Nel piccolo treno c’erano venti uomini, dieci donne. Bolscevichi come Zinovev con la moglie Zina, socialisti che arrivavano da Losanna come Gobermann, da Clarens come Inessa Armand, che conosceva Ilic dal 1910, aveva con lui un legame speciale, politico e sentimentale e aveva vissuto praticamente accanto a lui e Nadja fino al 1915: la rivoluzionaria a cui Lenin scriveva quasi tutti i giorni, l’unica a cui dava del “tu”, mentre riservava il “voi” a tutti gli altri.
Singen, Villingen, Stoccarda, Francoforte, poi Berlino col filo spinato della guerra che si vede dal finestrino, e il treno che si ferma per venti ore alla stazione, ore riempite da leggende: qualcuno ha incontrato Lenin, a nome del governo tedesco nello spazio politico extraterritoriale del treno? Non ci sono testimoni. È certo soltanto che Vladimir Ilic proprio in quei momenti scrive sul suo quaderno le Tesi d’aprile, con cui cortocircuiterà a Pietroburgo la rivoluzione borghese in rivoluzione proletaria. Ed è certo ormai che la Germania finanziò pesantemente il partito bolscevico per la propaganda e per l’attività rivoluzionaria, con più di undici milioni di marchi tra febbraio e novembre 1917.
Si capisce che tutto il mondo guardi a quel treno che è un capolavoro diplomatico, un meccanismo drammaturgico, un paradosso politico, addirittura una sovrastruttura ideologica, e insieme un’arma di guerra sofisticata che attraversa le linee e i Paesi in conflitto, aggirando il fronte per trasportare in patria la rivoluzione sui vagoni dell’Impero nemico. Seguono la corsa gli inglesi attraverso lord Howard, ambasciatore a Stoccolma, il Kaiser dal quartier generale di Pless, il colonnello Nikitin capo del controspionaggio russo, che chiede al comandante della regione di Pietroburgo di fermare il treno piombato alla frontiera, per non far tornare Lenin nella capitale.
Ma a Piter (mentre il treno il 12 aprile del calendario europeo arriva a Sassnitz e Lenin sale coi suoi sul “Queen Victoria”, il traghetto che lo porterà a Trelleborg, da dove raggiungerà Malmoe e Stoccolma) nessuno è in grado di decidere. Il governo zarista di Golizyn si è dissolto nel buio, una notte, quand’è mancata all’improvviso la luce a palazzo Mariinskij e i ministri se ne sono andati in fretta, pochi minuti prima che la sala del Consiglio venisse assaltata e saccheggiata. Ma era da settimane un governo fantasma: quando il Consiglio aveva chiesto le dimissioni del ministro dell’Interno Protopopov, il più impopolare, lui aveva proposto di sparire suicidandosi. Poco per volta i ministri furono arrestati, e finirono nel Padiglione del governo di palazzo Tauride trasformato in carcere, con l’ex Primo Ministro zarista Goremykin che chiede un sigaro, l’ex ministro di Polizia Maklakov che vuole una pistola, proprio mentre arriva a dichiarare fedeltà alla rivoluzione la guardia cosacca dello Zar, con le coccarde rosse sui cavalli.
Nella coabitazione guardinga dei due poteri, la Duma nomina il governo provvisorio guidato dal principe Lvov, un ministero nato dalla rivoluzione ma senza rivoluzionari (a parte Kerenskij) che decide come primo atto l’amnistia per tutti i reati politici, religiosi, terroristici, la libertà di parola, di stampa, di associazione, il diritto di sindacato e di sciopero, la confisca delle terre dello Zar e annuncia che la guerra continua. Ma intanto il Soviet dallo stesso palazzo emana il “Prikaz” numero 1 che porta tutte le Forze Armate sotto il suo controllo, come già sono ferrovie, poste, telegrafi, abolisce i titoli di “Vostra Eccellenza” e “Vostra Nobiltà” con cui i soldati erano obbligati a rivolgersi agli ufficiali e vieta ai comandanti dei reparti di usare il “tu grossolano” con i loro uomini.
Sembra che si voglia spalancare la Russia al treno di Lenin che adesso, dopo il saluto del sindaco di Stoccolma e dopo che Ilic si è comprato due paia di pantaloni e delle scarpe nuove, dalla Svezia corre verso la Finlandia. A Tornio Lenin passa in slitta il fiume ghiacciato per salire sull’ultimo convoglio, attraverso la Finlandia e poi la Russia. È la domenica di Pasqua quando telegrafa alla sorella che sta per arrivare: il giorno di festa in cui il governo provvisorio decide di distribuire a Piter e Mosca razioni speciali di burro, latte, farina, formaggio, anche se nel pane nero cotto troppo in fretta si continuano a trovare fili di paglia.
La città che aspetta Vladimir Ilic comincia a veder disfarsi la sua bellezza. C’è l’ordine di tenere i portoni spalancati ma molti negozi sono sbarrati, le insegne divelte, i vetri rotti. Le auto dei Granduchi sono sequestrate, corrono per i Prospekt con i soldati sui parafanghi, il mitra in mano. Ma i rivoluzionari entrano anche al circo Ciniselli, famoso per i cani ammaestrati, requisiscono i cavalli che serviranno per la parata. Si sentono ancora spari, le case tengono le finestre chiuse. Una piccola folla attacca l’hotel Astoria, dà la caccia agli ufficiali, il tenente Kuzmin piange quando deve consegnare la sciabola. Nella base navale dell’isola di Kronstadt i marinai si rivoltano uccidendo gli ufficiali e trucidando a colpi di baionetta il comandante, l’ammiraglio Viren.
I reggimenti e i battaglioni continuano a sfilare per la città con i nastri rossi al posto delle mostrine imperiali, sotto bandiere e striscioni che inneggiano alla rivoluzione, al Soviet, alla repubblica socialista. Si parla di un milione di disertori sbandati nelle campagne e nelle città, si sa per certo che il reggimento di Jastreboij contava 1600 soldati, a fine marzo sono rimasti in 30. Protopopov prima di finire in carcere deve rivelare le 14 postazioni in cui ha piazzato i reparti di mitraglieri lealisti, nascondendoli addirittura sui tetti della Cattedrale della Trasfigurazione, nell’abbaino di Sant’Isacco: ma anche in carcere ci sono incursioni, tanto che un gruppo di soldati entra nella fortezza Pietro e Paolo e porta via cuscini e coperte agli ex ministri.
Mentre il treno sta divorando gli ultimi chilometri, nella sala Caterina di Palazzo Tauride i soldati sono riusciti a salire fino ai lampadari dorati e stanno segando ad una ad una le coroncine imperiali sopra le aquile bicefale: ancora oggi hanno la testa mozzata in alto. Dovunque in città si demoliscono le insegne dello Zar, si sfregiano le statue, se sono troppo grandi si coprono con un telo, si restituiscono le decorazioni imperiali alla Duma. E l’ex Sovrano compie l’ultimo suo atto, inutile. Alla “stavka”, il gran quartier generale di Mogilev, indirizza un messaggio di saluto alle truppe, invitandole a ubbidire al governo provvisorio. Non sarà mai reso pubblico. Arriva invece la notizia dello sfondamento tedesco sul fronte a Stokhod, con 25 mila prigionieri russi e la cattura di un gran numero di pezzi d’artiglieria. Ecco il buio profondo della Russia che il treno di Lenin taglia coi suoi fari entrando a Pietrogrado.
Scendendo finalmente sul marciapiede, dopo essersi tolto il berretto davanti al picchetto d’onore, Ilic trova Aleksandra Kollontaij che non conosceva anche se si erano scritti spesso, con un mazzo di fiori per lui e gli operai di Vyborg che gli consegnano la tessera del partito bolscevico. Cerca con gli occhi i vecchi compagni come Selgunov e Kriizanovskij. Tra le bandiere e le decorazioni lo portano nella sala d’onore dello Zar, dove l’Imperatore riceveva gli ospiti stranieri. Qui lo aspetta il presidente del Soviet, Nikolaj Chkeidze: «Bentornato, compagno Lenin. Il compito principale oggi è la difesa della rivoluzione. E questo obiettivo richiede non la divisione, ma la capacità di serrare i ranghi. Speriamo che condividerete questo obiettivo con noi».
Lenin gli volta la schiena e parla alla folla ribaltando il discorso: «Marinai, soldati, operai, voi siete l’avanguardia dell’esercito proletario mondiale. L’aurora della rivoluzione socialista mondiale è già spuntata, l’intera costruzione del capitalismo europeo può crollare da un momento all’altro. Viva la rivoluzione socialista mondiale». Sulla piazza gremita, Vladimir Ilic prova a salire sul cofano di un’auto, poi viene issato sulla torretta di un blindato e ripete le stesse parole sotto le sciabolate mai viste di un gigantesco proiettore della seconda flotta, come in un quadro iperrealista. Tra gli applausi il blindato lo porta alla sede del Comitato centrale. Nadja lo segue in auto. Sapendo che era la notte del lunedì di Pasqua — il 3 aprile nel calendario russo — in treno aveva chiesto a Lenin se avrebbero mai trovato una carrozza alla stazione: adesso vede che il mondo ha fatto un giro, la carrozza di Lenin stanotte è un carrarmato.
Appiattendo la storia il corteo si ferma sul Lungofiume degli Inglesi, dov’è la sede del Comitato Centrale bolscevico, proprio nella palazzina bianca che Nikolaj II da giovane ufficiale aveva regalato alla ballerina del Mariinskij Matilda Kshesinskaja, e dove bussava la sera presentandosi come il “conte Volkov”. Lenin deve affacciarsi al balcone del primo piano, per rispondere alla folla che lo acclama, poi cena con i dirigenti del partito nella grande sala sul giardino d’inverno. Qui per la prima volta, parlando due ore, propone che i Soviet prendano subito il potere per realizzare immediatamente la rivoluzione socialista. È una frustata per tutto il partito, un terremoto per la sua linea di cauta collaborazione col governo provvisorio e con le altre forze. Si ripete il giorno dopo, a palazzo Tauride, illustrando le sue Tesi d’aprile: fine della guerra, rottura col governo, confisca delle terre, nazionalizzazione delle banche, repubblica dei Soviet e un nuovo nome per il partito, comunista.
Pensarono che fosse pazzo, che fosse finito. Lo contestarono in aula rumoreggiando e battendo i piedi, Kamenev lo attaccò sulla Pravda con l’appoggio di Stalin e il comitato bolscevico di Pietroburgo respinse le Tesi di aprile. Appena rientrato in Russia, Lenin era in minoranza nel suo partito. E fuori, fomentato dai Cadetti, scoppiò il caso del treno piombato. Lenin dovette difendersi davanti al partito e sulle Izvestija, mentre i giornali lo attaccavano come collaborazionista e traditore e i cortei sfilavano sotto il palazzo della Kshesinskaja con cartelli che chiedevano di rimandarlo in Germania. Persino il guardiamarina Maksimov, che aveva ordinato il saluto militare al suo arrivo, rinnegò quel gesto: «Se avessimo saputo per quali vie era rientrato in Russia, invece di urlare evviva gli avremmo detto vattene, torna dai tedeschi».
Lenin rientrava scortato, la notte, al secondo piano di via Shirokaja 52, dove la sorella Anna abitava col marito Mark e il figlio adottivo Gora (che la prima sera gli aveva fatto trovare sul cuscino del letto singolo la scritta «Proletari di tutti i Paesi, unitevi») e all’altra sorella, Marija. Aveva un ufficio alla Pravda e un altro al partito, da dove si difendeva attaccando, organizzando gli operai, moltiplicando gli iscritti, creando diecimila Guardie Rosse, diffondendo le parole d’ordine bolsceviche su 41 giornali e riviste. Il Capo del partito dei Cadetti, Miljukov, che era anche ministro degli Esteri, guidava la campagna sul treno tedesco e a fine aprile portò in piazza migliaia di feriti e mutilati contro Lenin «traditore della patria in guerra». Ma negli stessi giorni il ministro inviò una nota riservata agli ambasciatori in cui diceva che la Russia manteneva gli obiettivi di guerra del governo zarista, annessioni comprese. Lenin accusò Miljukov di “imperialismo”, la protesta popolare lo costrinse a dimettersi e si formò un governo di coalizione, con sei socialisti.
Vladimir Ilic aveva resistito, e adesso poteva vincere. Stalin e Zinovev si schierarono con lui, conquistò la maggioranza del partito. Più tardi, sull’isola Vasilevskij, si riunì il primo congresso panrusso dei Soviet, con mille delegati. Quando Iraklij Zereteli, uno dei Capi menscevichi, invitò all’unità sostenendo che «oggi in Russia non esiste un partito politico che possa dire: dateci il potere, andatevene e noi prenderemo il vostro posto», si udì una voce dal fondo. Era Lenin, con un dito nel panciotto sotto le ascelle e l’altra mano tesa in avanti: «No, no. Questo partito c’è. È il partito bolscevico ».
Quel gesto col dito puntato è fissato per sempre nel bronzo del monumento di fronte alla stazione, dove oggi si danno appuntamento i ragazzi di Vyborg, davanti al chiosco dei pendolari che vende a qualunque ora i pelmeni caldi con la carne tritata. Ma il vero monumento è al primo binario, dove una teca di cristallo circonda una copia del treno piombato (in realtà di un altro treno, con cui Lenin riparò in Finlandia), fermo alla “Finljandskij vokzal” da cent’anni. Come se quell’arrivo fosse pronto a ripetersi o al contrario come se non finisse mai, con il ’900 bloccato per sempre a quel marciapiede davanti alla rotaia. Come se la rivoluzione, oggi che la storia ha completato il suo giro chiudendo il cerchio del secolo, si potesse mettere sotto vetro, quasi fosse una reliquia.
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6) 1L'ora di Kerenski 

Era figlio delle bizzarrie della storia, nato nella stessa città di Lenin, eterno nemico

EZIO MAURO 13/5/2017 Rep
SAN PIETROBURGO Per un momento, quel mattino, tutto sembrò uguale a prima, come un trucco della storia, a partire dal sole di primavera che in nessun posto è ingannevole come in Russia, dopo il gelo dell’inverno. Era un martedì quando la sagoma nera e blu di una delle 56 automobili del parco imperiale (una Delaunay- Belleville modello 45) si presentò davanti al cancello principale della reggia di Zarskoe Selo, coi pneumatici di riserva appesi alla fiancata, come sempre. Ma quell’ingresso era chiuso da due settimane, le vetture di servizio passavano ormai dal portone più piccolo, sul viale laterale, tra il Palazzo e la chiesa, l’auto era stata requisita dal governo provvisorio per i suoi ministri e quel cancello segnava in realtà il confine tra il prima e il dopo, tra la rivoluzione e l’Impero. Tutti capirono che questa era una visita speciale, anche se organizzata all’improvviso, fuori da ogni protocollo e senza avvertire nessuno, nemmeno il Maresciallo di Corte che era rimasto al suo posto col monocolo innestato dopo l’abdicazione, come se le forme regali potessero sopravvivere senza il trono, la corona e l’Impero: senza lo Zar.
E invece il mondo immutabile per trecento anni della dinastia Romanov improvvisamente si era rovesciato, proprio qui fuori, dove adesso il vuoto cancella ogni segno del tempo e il silenzio copre la distanza del secolo. Dietro quelle finestre oggi socchiuse e buie, la Zarina cent’anni fa non riusciva ad accettare l’accaduto («il a abdiqué, il a abdiqué», ripeteva incredula aggirandosi per il suo appartamento appena avuta la notizia dal Granduca Pavel, due giorni dopo la rinuncia al regno), mentre nelle stanze al primo piano il precettore svizzero dello zarevic Aleksej faceva sedere in poltrona l’erede a un trono che non c’era più per informarlo poco alla volta, svelandogli l’inconcepibile nella camera dei giochi. «Sapete – disse un mattino alle 11 monsieur Pierre Gilliard – vostro padre non vuole più essere imperatore». «Come? E perché?». «Perché è molto affaticato e ha incontrato molte difficoltà, ultimamente ». Il ragazzo alzò lo sguardo, rimase in silenzio, quindi domandò: «Ma poi sarà di nuovo imperatore?». «Non lo so…». «Ma allora, se non ci saranno più imperatori, chi governerà la Russia?». In questa sospensione dei destini e in questa sostituzione dei rituali una Corte rimpicciolita e stordita continuava a recitare l’antico cerimoniale con una superstizione mimetica della regalità perduta, quasi fosse eterna e impermeabile agli eventi. Così quando il marinaio autista aprì la porta dell’auto e Aleksandr Kerenskij fece il saluto militare, il conte Benkendorf provò a chiedere a che cosa l’imperial Casa doveva l’onore della visita. «Vorrei vedere Nikolaj Aleksandrovic e la moglie e ispezionare il Palazzo, stanza per stanza», disse il nuovo ministro della Giustizia. Come se non fosse successo nulla intorno a lui, il vecchio conte fece finta di non aver sentito la bestemmia del nome reale pronunciato per la prima volta nudo e spoglio nell’eco della reggia, senza più il titolo imperiale. Accennò appena un inchino e prese tempo: «Riferirò a Sua Maestà ». Quindi salì le scale, da cui negli ultimi giorni erano scesi di corsa per andarsene per sempre valletti, dame di compagnia coi loro bauli, dignitari, cosacchi della Guardia, corrieri col berretto guarnito di piume, persino i medici dei ragazzi e l’infermiera. Un altro inchino al ritorno: «Sua Maestà ha gentilmente acconsentito a ricevervi».
In realtà “Sua Maestà” non aveva nessuna scelta. Il Primo Maresciallo sapeva, come tutti, che l’8 marzo il governo provvisorio aveva pubblicato un decreto per «privare della libertà l’imperatore abdicatario e la consorte» e aveva spedito quattro deputati a Mogilev per «prenderlo in custodia» e accompagnarlo alla residenza di famiglia: agli arresti nel Palazzo, dove gli aprirono le porte chiamandolo «signor colonnello », come mai era successo prima. Ma quello che nessuno sapeva è che nelle riunioni del Soviet Vjaceslav Molotov aveva predisposto un piano per arrestare l’ex Zar, la sua famiglia e tutti i Romanov, e rinchiuderli nel bastione Trubezkoj della fortezza di Pietro e Paolo, per un veloce processo che avrebbe con ogni probabilità portato all’esecuzione.
Lo stesso Kerenskij fu attaccato direttamente dagli operai del Soviet di Mosca, che volevano Nikolaj II in galera: «Perché è ancora libero? Perché può viaggiare tranquillamente per la Russia?». «Tengo a dirvi, compagni, che finora la rivoluzione russa non si è macchiata di sangue e non voglio che venga insozzata – rispose il ministro –. Non sarò mai il Marat della nostra rivoluzione. Tra breve l’ex Zar sarà imbarcato su una nave e inviato in Inghilterra sotto la mia personale responsabilità ». Non ci fu nessuna nave, perché il governo inglese si tirò indietro e perché il Comitato esecutivo del Soviet fece presidiare tutte le stazioni fino alla Crimea e diramò l’ordine di arrestare Nikolaj se si fosse avvicinato ad un treno. Anzi, un blindato si presentò il 9 marzo a Zarskoe Selo per prelevare il sovrano decaduto e portarlo al Soviet, ma non avendo un mandato di cattura dovette ripartire senza il prigioniero, salvato dall’eterna subordinazione russa alla burocrazia.
Il ministro che adesso saliva al primo piano, attraversava i lunghi corridoi, entrava per la prima volta negli appartamenti privati dei Romanov era dunque il carceriere e insieme il garante di quella libertà prigioniera del cittadino Romanov, come ormai lo chiamavano gli uomini di guardia. Non si erano mai incontrati prima. Ambizioso, uomo forte del governo, teatrale e demagogo Kerenskij aveva capito d’istinto che avrebbe potuto accrescere la sua autorità nascente incrociandola davanti ai soldati e alla Russia spettatrice con l’autorità declinante dell’imperatore, ormai nelle sue mani come Procuratore Generale del nuovo Stato.
Segue nelle pagine successive
La Zarina cent’anni fa non riusciva ad accettare l’accaduto “il a abdiqué” ripeteva incredula
Sapeva di essere il tramite attraverso cui la rivoluzione appena scoppiata incrociava per la prima volta la dinastia imperiale morente, la persona che impersonava, – in quel momento e in quel palazzo – il trasferimento fisico e simbolico di sovranità, il potere dei Soviet e della Duma che bussava alla reggia per decretarne il vuoto, controllando intanto che il trono fosse rovesciato davvero, in un Paese abituato da secoli a quella che Dostoevskij chiama «la legge della catena ».
Incredibilmente, non venne condotto in uno studio e nemmeno in un salotto. Quella che si aprì era la camera delle ragazze. C’era tutta la famiglia riunita attorno a un piccolo tavolo sotto la finestra, vicino alla chaise longue dell’ex Imperatrice. Come bisognava salutare quell’uomo in divisa militare, ancora con le mostrine imperiali, abituato agli inchini e ai rituali, adesso che non aveva più nulla della vecchia regalità? «Kerenskij, Procuratore», si annunciò semplicemente il ministro, tendendo la mano all’ex Zar: che la strinse afferrando così, per la prima volta, la nuova dimensione in cui era appena entrato e per la quale non c’era consuetudine e mancava un protocollo. In piedi, Kerenskij chiese se era passata la rosolia ai ragazzi, scambiò qualche notizia sulla guerra, comunicò che il comando del Palazzo era adesso affidato al colonnello Korovicenko, salutò Alix informandola che la regina d’Inghilterra aveva chiesto sue notizie, poi invitò Nikolaj a passare in un salottino accanto, dove entrò per primo, da padrone. «Voi saprete – disse a tu per tu – che sono riuscito a far abolire la pena di morte… Non preoccupatevi, dovete fidarvi di me». Ma quando il ministro (il primo della storia russa nominato senza il consenso dello Zar) se ne andò, la prigionia divenne ufficiale come un decreto. Il cancello del Palazzo si chiuse dietro a Kerenskij e davanti alla famiglia, che per la prima volta aveva assistito all’inedito di qualcuno che dava ordini allo Zar.
Figlio perfetto dell’impero e delle bizzarrie della storia (era nato a Simbirsk sul medio Volga, proprio come Lenin, i loro padri dirigevano due scuole in città, un’elementare e un liceo, e il professor Kerenskij diventerà addirittura tutore dei due ragazzi Uljanov, dopo la morte del genitore), il ministro di Grazia e Giustizia rappresentava perfettamente l’uomo nuovo generato dal Febbraio, a cavallo tra borghesia e rivoluzione, tra la Russia di ieri e quella di domani. Avvocato, ribelle, aveva gettato la croce del battesimo nell’immondizia di casa a quattordici anni, aveva ascoltato a sei anni la notizia che sconvolgeva tutta Simbirsk di Sasha Uljanov, il fratello di Lenin, arrestato mentre preparava un attentato allo Zar e impiccato, aveva visto coi suoi occhi la terribile carrozza di cui in città tutti parlavano, con le tendine verdi abbassate, che quasi ogni notte portava gli oppositori del regime nelle prigioni della gendarmeria: e tuttavia pianse quando seppe della morte di Alessandro III.
Da studente, aveva assistito di persona alla “domenica di sangue”, col massacro dei dimostranti guidati dal pope Gapon, e scrisse per protesta una lettera al comandante della Guardia. Poi cercò di entrare in contatto con il nucleo terroristico del partito socialrivoluzionario, che lo scartò dopo un incontro carbonaro sul ponte Anickov, ma finì in cella nella prigione Kresty per aver firmato un articolo sul giornale Burevestnik, accusato di far parte di un’organizzazione che preparava rivolte armate e voleva rovesciare il regime, finché nel 1912 fu eletto alla Duma nel partito del lavoro, i “Trudoviki”. In parlamento pronuncerà uno dei discorsi più duri verso la monarchia: «Il nostro compito storico è rovesciare immediatamente questo regime medievale, costi quel che costi, senza mezzi legali, con la forza». Nella vigilia febbrile e inconsapevole dell’insurrezione, quando tutti rumoreggiavano e il presidente della Duma gli chiese di chiarire meglio le sue intenzioni, lui si alzò in piedi: «Mi riferisco a ciò che fece Bruto ai tempi di Roma». La frase venne cancellata dal verbale della seduta.
Ma è il lampo del Febbraio a toglierlo dall’anonimato, proiettandolo nella storia russa del ’17, dove lo raggiungerà sopravanzandolo Lenin, il suo eterno avversario. Quel lunedì 27, che verrà ricordato come il giorno della rivoluzione, mentre ancora le mitragliatrici sparano sul Mojka Quai e sulla Sergievskaja, è infatti Kerenskij a precipitarsi ai cancelli della Duma invitando la folla a entrare, a chiamare i soldati perché disarmino la Guardia con un colpo di mano e difendano il palazzo Tauride. È lui a comparire davanti al presidente del Consiglio Imperiale Shcheglovitov, che sta cercando di far valere l’immunità parlamentare dopo essere stato fermato per strada e a dichiararlo in arresto, primo detenuto nel padiglione del Palazzo che Kerenskij trasforma in carcere provvisorio della rivoluzione.
Immediatamente popolare tra i soldati, oratore appassionato, quando nasce il primo governo provvisorio gli viene proposto il ministero della Giustizia. Ma il Soviet ha appena deciso di non partecipare, perché il governo «è borghese», e lui è vicepresidente del Soviet. A sorpresa entra nella sala del Comitato esecutivo, interrompe la seduta, sale sul tavolo e spiega che «è nell’interesse della Russia e degli operai che la democrazia rivoluzionaria abbia il suo rappresentante al governo, in modo che l’esecutivo sia in contatto permanente con la volontà del popolo». Urla, applausi, Kerenskij viene portato a spalle nei saloni della Duma e dentro il governo, mantenendo la vicepresidenza del Soviet, unico caso di doppio incarico per l’unico socialista del ministero Lvov.
Da quel giorno gli stivali militari di Kerenskij calpesteranno ogni angolo della rivoluzione. È seduto sul divano nel salotto della principessa Putjatin, il mattino dopo l’abdicazione dello Zar a Pskov, per convincere il Granduca Mikhail a rifiutare la corona, facendogli capire che nessuno potrà garantire la sua incolumità personale, nel malcontento popolare verso la dinastia. «Apprezzo profondamente la vostra decisione, assunta con nobiltà e da patriota», dirà dopo la rinuncia del Granduca, prima di tornare alla Duma con la firma sul foglio che scioglie per sempre il vincolo tra i Romanov e la Russia, procedendo tra la folla senza scorta, per raccogliere gli applausi alla repubblica che sta nascendo.
È vicino all’ex Primo Ministro Goremykin la notte in cui viene portato in carcere alla fortezza, si accorge che nasconde sotto la camicia la catena con dieci pietre preziose dell’ordine imperiale di Sant’Andrea apostolo ma non gliela requisisce, per compassione rivoluzionaria o per complicità borghese. È al telegrafo del ministero, quando dà l’ordine – come suo primo atto di governo – di far tornare con tutti gli onori dall’esilio siberiano la “nonna della rivoluzione”, Ekaterina Breshko-Breshkovskaja, che da ragazza aveva organizzato le “passeggiate tra il popolo” girando i villaggi con il fagotto di pezza infilato a un bastone sulle spalle per convincere i contadini a ribellarsi allo Zar: a 73 anni trova un picchetto d’onore che l’aspetta a Pietroburgo con la Duma e i ministri, Kerenskij che la fa ospitare in un appartamento a Palazzo d’Inverno, mentre il coro dei ragazzi schierati dal ministro la saluta con le strofe dei “difiramby”, i canti popolari dei contadini durante il raccolto e con l’inno del ringraziamento: «Noi ci inchiniamo di fronte a te, con una profonda gioia per la vittoria tanto attesa».
Nella vertigine di Pietrogrado – livida per l’elettricità che salta, la neve ormai sporca, il collasso del potere che si percepisce per strada – se c’è uno spettacolo della rivoluzione l’impresario statale è Aleksandr Fedorovic Kerenskij. Porta la mano infilata nella giacca al petto, dicendo che ha una ferita al braccio, in realtà perché ha il mito di Napoleone. Si fa fotografare in ufficio col colletto inamidato, il fiocco e il doppiopetto, con un foglio in mano. A ogni comizio raccoglie applausi parlando contro la pena di morte. Riceve i Granduchi, guidati da Kirill, che professano sottomissione alla Duma. Usa con perizia la polizia segreta, abituato fin da ragazzo ad avere due agenti davanti a casa con calosce, soprabito nero e l’ombrello in mano in qualunque stagione. Crea un super-gabinetto interno al governo con altri quattro ministri massoni, e lui lo guida: è iscritto alla Società dal 1912, in una loggia che ammetteva anche le donne, con il giuramento solenne di rispettare la disciplina e non rivelare mai il nome degli altri aderenti. Ubbidirà anche dall’esilio.
Ma è al fronte che Kerenskij unisce insieme la retorica militare, l’ideologia rivoluzionaria, la religione russa della patria e il culto fanatico di sé. Dal 2 maggio, con le dimissioni di Guckov, diventa ministro della Guerra. Trova una situazione disastrosa. La Germania, convinta che la Russia nel caos non sia più una potenza internazionale, invitava i soldati a incrementare il disfattismo, fraternizzando coi russi nelle trincee. Nelle strade delle due capitali, nei villaggi di campagna si rovesciava quasi un milione e mezzo di sbandati dal fronte. A Piter i marinai erano padroni del quartiere che va dal lungofiume inglese fin quasi al teatro Mariinskij, i più eccitati derubavano i passanti, sequestravano le persone chiedendo un riscatto. Intanto tre reggimenti della 163ma divisione sul fronte romeno si ribellano agli ordini, bisogna minacciarli con i cosacchi pronti ad aprire il fuoco. Ma altre unità della 12ma e 13ma divisione si rifiutano di avanzare. Gli agitatori bolscevichi (Semasko, Sivers, Krylenko, Dzevaltovskij) fanno propaganda tra le truppe per la pace, e gli uomini abbandonano i fucili: «Vi esortiamo a non morire per gli altri in guerra, ma a annientare i vostri nemici di classe interni».
Il ministro restituì subito agli ufficiali i poteri che Febbraio aveva tolto, primo fra tutti l’uso della forza sui subalterni per far rispettare la disciplina. «La patria è in pericolo – dichiarò solennemente – ognuno deve sventare questa minaccia, tutti i soldati e i marinai devono tornare al loro posto entro dieci giorni». Poi Kerenskij partì per due settimane di visita al fronte. Prima alla flotta pesante sul golfo finnico, poi allo schieramento sud-occidentale a Tarnopol, quindi a Odessa, ancora a Riga dal comando settentrionale, infine a Dvinsk dove operava la Quinta Armata. Fu un autoinganno. L’oratoria appassionata, emotiva e demagogica del ministro sollevò fiammate improvvise di entusiasmo tra i soldati, prima che il logoramento della lunga guerra, le speranze suscitate dalla rivoluzione tornassero subito a spargere la frustrazione ribelle tra le trincee. Ma Kerenskij si illuse di poter ribaltare lo stato d’animo, riaccendendo la voglia di combattere. Era esaltato, frastornato, con le truppe che gli lanciavano fiori sul Mar Nero, gli baciavano gli stivali in Lettonia, lo acclamavano piangendo in Galizia. L’estasi patriottico- militare contagiò anche Olga Lvovna, la moglie infermiera per qualche mese, che definiva un atto “religioso” lavare i piedi dei soldati.
Tutto questo portò Kerenskij a scatenare l’offensiva di primavera, cercando per via militare quella forza che il governo provvisorio non aveva per via politica, con i soviet che erano ormai quasi mille, i sindacati che si moltiplicavano, i bolscevichi che crescevano nelle fabbriche e nelle tessere, le Guardie Rosse che si organizzavano militarmente. Il ministro guidò personalmente l’attacco, aspettando l’“ora zero” sulle colline ucraine. Per due giorni l’esercito avanzò: il terzo giorno ripiegò, poi la ritirata divenne una fuga senza controllo, con la perdita del 35 per cento dei pezzi d’artiglieria e degli aerei. Kerenskij prova a dare la colpa ai bolscevichi infiltrati tra le truppe, scrive un telegramma agli ambasciatori alleati, denunciando l’invio da parte dei loro governi di forniture belliche difettose. Dal fronte, il comandante Denikin lo accuserà di “isterismo”.
L’insuccesso militare, il malcontento dei contadini, la deriva dei soldati in rotta gonfiavano di nevrosi Pietrogrado, una città irreale, isterica, sospesa in un passaggio doloroso tra il vecchio e il nuovo, la cornice urbana intatta, il cuore trapiantato e fortemente sollecitato. Così le parole d’ordine bolsceviche passavano da una strada all’altra con le venditrici di semi di girasole, con i distributori di kvas, la bevanda di pane fermentato, con le mogli dei soldati. Comizi spontanei e assemblee improvvisate si davano il cambio alla Fontanka, a due passi dal famoso parrucchiere Bogdanov, con l’insegna che diceva “maestro di taglio” al numero 80 del Nevskij, vicino al giornale di moda Chic viennese, che chiuderà a fine anno. Ma sul Nevskij si aprivano dieci cinema, prima che la notte diventasse insicura anche se bianca, dal Palais Cristall al Comic, al Piccadilly fino al fantastico Parisiana che aveva 800 posti e il soffitto che da maggio si apriva sul cielo. I prezzi continuavano ad aumentare. Bisognava sostituire lo zucchero che non c’era col miele, carissimo, l’oca saliva dai 70 ai 90 copechi al “funt” (meno di mezzo chilo), i polli volavano a più di tre rubli l’uno. Costavano molto meno i bordelli popolari: 50 copechi, mentre quelli di lusso arrivavano fino a 12 rubli. Le inserzioni sui giornali – 20 copechi alla riga – compravano e vendevano tutto, anelli d’oro e gemelli d’argento, ma anche denti spaiati, dentiere rotte, apparecchi di cuoio per correggere la linea del naso, «massaggi offerti da signora molto colta ». I quotidiani proponevano i libri rilegati dei grandi autori russi ma anche i cartamodelli. Man mano che gli abiti francesi sparivano dalle vetrine si fece strada il mestiere del “perelizovshik”, il rovesciatore, che rivoltava gli abiti usati per nascondere l’usura e guadagnare tempo. La povertà cresceva, con la fame e la disperazione.
«Il mio esperimento liberale è finito – dirà il Primo Ministro Lvov, ormai sono un pezzo di legno in balia della marea rivoluzionaria». Man mano che il governo e Kerenskij perdono terreno Lenin e il suo partito avanzano, come sulla scacchiera che il leader bolscevico tiene in salotto nell’appartamento della sorella in via Shirokaja, e ancora oggi è lì, col suo meccanismo segreto per nascondere le carte bolsceviche. I due non si vedevano da una funzione religiosa a mezzanotte di Pasqua quando il ministro, bambino, riceveva la comunione vestito di picché bianco con la cravatta rossa e sapeva che alle sue spalle – nelle due file di studenti più grandi con l’uniforme azzurra dai bottoni d’argento – c’era lui, Vladimir Ilic Uljanov, che diventerà Lenin.
Si incontreranno, tenendosi a distanza, una volta sola, al congresso panrusso dei Soviet. Sono andato a cercare i segni di quell’unico contatto, al vecchio numero 1 del palazzo dei cadetti, sull’isola Vasilievskij. Oggi qui c’è l’università con le stanze “na remont?”,in ristrutturazione, ma se si arriva presto si può immaginare l’eco dei passi e degli applausi nella grande sala deserta e vuota del mattino, all’ora in cui Lenin dalla tribuna propose l’arresto immediato di 100 capitalisti, Kerenskij si alzò accusandolo di preparare la strada a un dittatore e mentre lui parlava Ilic prese i suoi fogli e se ne andò da questa porta. Tutti li guardavano. Si sfideranno per tutto il ’17 con Kerenskij agitato che balza in piedi nel suo ufficio al ministero ogni volta che parla di Lenin, e Ilic che lo addita come il fantoccio della borghesia. Si studieranno, si controlleranno a vicenda, si inseguiranno sfiorandosi fino a correre dentro l’epilogo verde e bianco del Palazzo d’Inverno, a ottobre. Uno deve cavalcare un Paese imbizzarrito, provando a governarlo, l’altro può aspettare, puntando sulla pazienza e sulla costanza nella furia russa della primavera che da Piter ha incendiato il mondo, cent’anni fa. In fondo, per Lenin anche Kerenskij era poco più di un “perelizovshik”, che rivoltava l’abito rabberciato a un ex Impero in miseria. Il vero sarto della rivoluzione, nel suo ufficio di quattro metri alla “Pravda”, stava già prendendo le misure alla Madre Russia.
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7) Santa Madre Russia resta senza Dio 

Dopo l’abdicazione di Nicola II, la Chiesa di Mosca che ha funzionato da ideologia popolare di massa per il regime non sa come continuare a esistere

La fine della monarchia coincide con la rottura del vaso mistico che da 300 anni univa Zar e Pope
EZIO MAURO Rep 16 6 2017
SAN PIETROBURGO L’alba arrivò col fuoco, come in un rito pagano. Il fumo si vedeva da lontano, alla prima luce del mattino, quando cominciava a mettersi in marcia il mondo delle periferie, oltre i ponti sui canali. Nessuno voleva mancare, tutti sapevano dove andare, quel fumo era una conferma e un segnale per il giorno del lutto che saliva a prendere il posto dei giorni della ribellione. Nel cordoglio cittadino il dolore privato diventava l’onore pubblico, fondamento della coscienza comune, sigillo del mito collettivo in cui la realtà trasfigurava già mentre veniva vissuta. Cataste di legna formavano falò giganteschi per sciogliere la neve, sembravano pire sacrificali, altari primitivi in una città irreale, umida, grigia e tuttavia lucida come un metallo nelle pozze d’acqua dove marciva la neve ormai sporca. Ogni reggimento aveva schierato il suo coro attorno alla grande fossa su Campo di Marte e i canti funebri si alzarono davanti alle prime bare dei martiri della rivoluzione, che arrivavano da tutti i quartieri di Pietrogrado: 183 bare per la prima volta rosse, e non bianche come vuole la tradizione russa, travolta anch’essa dal vortice di Febbraio.
Quel giorno il rosso era dovunque, nelle bandiere, sulle coccarde, nei fiocchi tra i capelli delle ragazze, un fiume colorato dilagò sulla spianata annunciato da una distesa di fiaccole sollevate davanti agli operai di Vyborg che dopo aver portato la rivoluzione a Palazzo d’Inverno ora portavano sulle spalle i loro 51 morti alla sepoltura. Il governo provvisorio, i capi della Duma, ciò che restava dello Stato erano in prima fila, vicino agli ambasciatori dei 14 Paesi che avevano già riconosciuto il nuovo potere nato dalla rivoluzione. Da mezzogiorno i cannoni della fortezza di Pietro e Paolo sparavano a salve, a sera i marinai accesero i loro riflettori e la giornata sembrava non finire mai, chiusa dentro quel canto che ogni volta ricominciava. Borghesi, soldati, bolscevichi, ragazzi, tutta la città fece in tempo a passare sul Campo (dove ancora oggi la fiamma è accesa) chinando il capo. Mancava soltanto Dio, nei primi funerali della storia russa in cui non c’era una preghiera, nemmeno un pope o una benedizione.
Senza che nessuno lo decretasse, si era rotto il vaso mistico del potere russo, che da trecento anni teneva insieme nell’acquasanta lo Zar e la Chiesa, l’Autocrazia e l’Ortodossia, la fede e l’impero, con la spada del sovrano che proteggeva il Dio da cui riceveva autorità, legittimazione e l’unzione eterna. A Piter, a Pskov, a Mosca e a Zarskoe Celo tutti avevano visto disfarsi una dinastia mentre si svuotava la reggia e si rovesciava il trono. Ma il legame identitario, costitutivo del potere russo era così forte e così profondo che senza lo Zar la Chiesa non sapeva come esistere, dopo aver funzionato da ideologia popolare di massa per il regime, accettando la sottomissione imposta da Pietro il Grande ma ricevendo in cambio il beneficio cortigiano della religione di Stato, privilegiata e riconosciuta.
Adesso, nello sconvolgimento di quella primavera cent’anni fa, anche l’anima russa per la prima volta si scopriva vacante.
Non c’era nessun calcolo bolscevico, nell’assenza del pope a Campo di Marte, il governo era borghese, il Primo Ministro era un Principe, tra i ministri si contava appena un socialista, giunto fin lì quasi a dispetto del suo partito. Semplicemente, il sentimento popolare aveva avvertito la fine di un rito congiunto – la “sinfonia” – che per tre secoli aveva visto i turiboli della Chiesa spargere incenso ad ogni anniversario reale, quasi cento feste all’anno tra i Te Deum per nascite, morti, compleanni, matrimoni, anniversari di vittorie e incoronazioni.
Popi, arcipreti e monaci accompagnavano gli Zar ovunque, camminando subito dopo l’Imperatore. Lui si poneva la corona in capo da solo, in nome dell’autocrazia, ma chi gliela consegnava nelle mani tra il canto dei cherubini era il Metropolita, e tutto avveniva nel sacro splendore della cattedrale della Dormizione, a Mosca, mentre tutt’attorno nelle scuole della Russia il santo catechismo insegnava ai bambini a pregare “per la salute del corpo e dell’anima dello Zar”, rigettando la ribellione al sovrano come un peccato, perché sta scritto che “chiunque resiste al potere resiste al disegno stabilito da Nostro Signore”.
Il disegno divino veniva testimoniato sull’altare, realizzato dal trono.
Segue nelle pagine successive
Non c’era nessun calcolo bolscevico il primo ministro era un Principe Al Campo di Marte si celebrano i primi funerali senza preghiere e benedizioni
Lo Zar si sentiva non solo eletto dal Signore ma interprete della sua volontà con la guida effettiva della Chiesa dal 1721, quando Pietro abolì il Patriarca nominando un Procuratore del Santo Sinodo per gestire la gerarchia, le nomine, le entrate e le uscite. Il Sovrano tramite di Dio, per trecento anni. E alle origini della Rus, addirittura, il Gran Principe che sceglie il Dio per il suo popolo, obbligandolo a convertirsi in massa battezzandosi nelle acque del Dnepr dove alcuni entrarono fino al collo, altri fino al petto. Perché in quella stessa nuvola d’incenso che Nikolaj II vedeva innalzarsi ogni domenica a fianco del suo baldacchino nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo (ancora oggi immenso, e vuoto) mille anni fa era entrato per primo Vladimir il Bello, signore incontrastato col grande mantello, la lunga barba e la corona del principe guerriero.
Portarono la spada, il fuoco e la croce e Vladimir il Sole chinò il capo davanti al Dio dei cristiani, lui che aveva a Kiev 800 mogli, 12 figli e tutti e sei gli idoli delle tribù radunati sulla collina davanti al suo palazzo. Sono andato a cercare i loro segni sulla collina di Boricevu, dove nelle feste i contadini pregano ancora il fuoco: Veles signore della terra e dell’acqua, Khors dio del sole vecchio, Dazbog figlio di Svarog padrone del cielo, Stribog che comanda il vento, Simargl che conosce il mistero della fertilità, Mokos che ferma pioggia e tempesta, e soprattutto Perùn terribile, dio del fulmine e del tuono. Tutto ciò che in Russia riguarderà per un millennio lo spirituale e il temporale, l’anima e la corona, era già racchiuso e annunciato da quel primo atto. Gli ambasciatori del Gran Principe che partono per il mondo allora conosciuto cercando la religione non più vera, ma più bella, e la trovano a Costantinopoli dove durante la messa il tetto sembra aprirsi per permettere al cielo di toccare la terra; il Sovrano che converte in blocco il suo popolo a Cristo, d’imperio; e quegli idoli prima adorati e poi distrutti su questa collina di Boricevu, ma sempre temuti nel substrato di superstizione pagana che sopravvive nella radice popolare della religiosità russa.
In quel limite estremo tra la mistica e la superstizione, precipita anche la Corte, nei due anni che precedono il grande crollo. Nello smarrimento del loro destino, lo Zar e la Zarina cercano un contatto diretto col divino per trovare quelle certezze che il potere temporale non garantisce più: e il potere spirituale si prende la sua rivincita sull’Autocrate, distorcendosi a divinazione, occultismo, sacra magia che condiziona e certifica ogni suo passo verso la sventura. Tutto l’inferno imperiale che inghiotte la Corte è circondato da un sentimento malato del sacro: le profezie di morte di San Serafim di Sarov, la domanda del Pope Gapon nella domenica di sangue (“Sovrano, sei conforme alle leggi divine”?), l’invocazione finale di Nikolaj II alle truppe dopo l’abdicazione (“che il santo martire, il trionfante Georgij, vi guidi alla vittoria”), le immagini dei santi che Alix la Zarina distribuisce agli uomini della scorta che se ne vanno per sempre da Zarskoe Celo, le ore che lei trascorre da sola nella cripta sotterranea della Feodorovski Sobor, la chiesa della Guardia, nei giorni della rinuncia al trono, fino alla testa di Cristo che il ministro Protopopov, favorito di Corte, tiene in ufficio agli Interni, per interrogarla prima di ogni decisione scrutando gli occhi che si aprono e si chiudono secondo il bisogno.
Smarrita senza più il trono da servire e insieme influenzare, la Chiesa si scopre autonoma per la prima volta da secoli. È un breve spazio nel tempo, nella storia, nella Russia. Ma genera il primo gesto di libertà, forse di conformismo, comunque di indipendenza, che produce l’inaudito, rompendo per sempre una liturgia uguale nei secoli: la Chiesa cancella l’invocazione per lo Zar e per la sua famiglia dalle preghiere pubbliche durante la messa. Era un rito cantilenante, sempre fisso. Il diacono, con la sua voce da basso, intonava la supplica: “Al nostro Sovrano Imperatore”. “Lunga vita”, lo soverchiava il coro dei fedeli, con un grido che faceva muovere le fiammelle dei mille ceri accesi nei cento candelabri di ogni chiesa, non per illuminare ma per ardere.
La separazione era compiuta, e la Chiesa ormai sciolta e sola si incamminerà verso il martirio che riporterà un Dio sofferente in Russia, dopo questa breve assenza nel vuoto di sovranità. Davanti allo sconvolgimento del Febbraio, l’ortodossia decide di appoggiare il nuovo potere, e dopo aver destituito i vescovi di Mosca, Tobolsk e Pietrogrado fedelissimi di Rasputin, dal Sinodo “otto umili Padri” invitano già a marzo i figli di Dio ad appoggiare il governo provvisorio: “Assoggettatevi, perché ogni comando viene da Dio”. Si convoca un Concilio, a giugno il Congresso del clero chiede che alla fede ortodossa venga riconosciuto il diritto di supremazia, fino al punto di stabilire che il Capo dello Stato sia un credente ortodosso.
Il futuro Capo dello Stato era tutt’altro che un credente, anche se era stato battezzato regolarmente, come sua moglie Nadja, e si era addirittura sposato con una cerimonia religiosa, accontentando la suocera Elizaveta, cristiana convinta. In quei giorni Lenin chiuso nella sua stanza al secondo piano del palazzo della Kshesinskaja sta misurando il rapporto di forza con il governo. Pensa di organizzare una grande manifestazione bolscevica di operai e di soldati ma di fronte alle voci di un richiamo di truppe nella capitale da parte di Kerenskij il congresso dei Soviet proibisce tutti i raduni pubblici a Pietrogrado per tre giorni. Ilic si sente controllato, minacciato, pedinato nel biancore estivo che esplode nelle notti di Piter, decide di prendersi qualche giorno di riposo con Nadja nella dacia dell’amico Bonch-Bruevich al confine della Finlandia. Legge, cammina, scrive. Si accorge di quel che si sta muovendo dentro la Chiesa, ma non interviene, la sua partita è temporale, per la sfida spirituale c’è tempo, e d’altra parte Lenin ha già detto da anni tutto quello che pensa di Dio: “Chiesa e clero hanno una funzione di classe come puntelli ultra-reazionari della borghesia”, i popi “sono feudatari in sottana che difendendo la loro posizione di predominio fanno un’aperta difesa del medioevo”, ”il capitale organizza l’abbrutimento del popolo per mezzo dello stupefacente religioso”, dunque “non un soldo dei cittadini deve andare a questi sanguinari nemici del popolo che offuscano la coscienza popolare”. Quanto alla ricerca di Dio, bisogna lasciarla da parte, “perché ogni idea religiosa, ogni civettare con il buon Dio è la più pericolosa delle abominazioni, il più infame dei contagi”.
Preoccupata, la Chiesa fa appello a tutti perché si superino le discordie e cessi il fratricidio: ”Troppi hanno dimenticato Dio, e con lui la coscienza e la patria”. Ma bisogna che il comunismo prenda il potere con l’Ottobre perché la Chiesa acquisti coscienza del martirio e della santità. Pochi giorni dopo, il 21 novembre, il metropolita Vladimir s’inchina davanti all’icona della Divina Madre nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, dove il popolo dei fedeli si è radunato per assi- stere alla resurrezione del Patriarca di tutte le Russie, abolito da Pietro il Grande. Il nome è chiuso nello scrigno esposto alla benevolenza dell’icona, insieme ad altri nominativi selezionati dal Concilio. La sorte e la mano dello starec Aleksej scelgono Tichon. Monaci e popi si inchinano a baciargli l’anello, ma lui è consapevole di ciò che lo aspetta: “Quante lacrime dovrò inghiottire anch’io e quanti lamenti dovrò piangere, nei tempi bui che ci aspettano”? È un crescendo tragico. “Il calice della collera di Dio trabocca su di noi”, rivela la Chiesa, che comincia a parlare di “sacrilegio”, di “ateismo” e arriva a evocare il Maligno: “Compaiono nell’anima russa i semi dell’Anticristo”. Toccherà all’”umile” Tichon annunciare dalla sua cattedra patriarcale la “persecuzione” contro la verità divina e infine denunciare l’”opera satanica” dei bolscevichi con la suprema scomunica: “Con il potere che ci viene da Nostro Signore noi vi proibiamo di accostarvi ai sacramenti di Cristo, e lanciamo contro di voi l’anatema, se ancora
portate un nome cristiano”.
Il nuovo governo esproprierà subito le terre della Chiesa e i monasteri, confischerà le sue opere pie, vieterà l’insegnamento della religione e passerà le scuole confessionali allo Stato, annullando gli effetti civili del matrimonio ortodosso e introducendo il divorzio. Ma il 13 novembre arriverà il primo omicidio di un pope, il parroco di Santa Caterina Ioann Kochurov, arrestato dai bolscevichi durante una processione e fucilato senza processo nei campi di Zarskoe Celo. Nei primi mesi della rivoluzione verranno imprigionati e giustiziati il metropolita della Galizia, i vescovi di Selenginsk, di Tobolsk, di Perm, di Nezinsk, di Sarapul, di Vjazma, di Kirillov. Nei primi anni saranno fucilati 20 mila sacerdoti e parrocchiani. Quando arriva il decreto sulla separazione della Chiesa dallo Stato il Concilio parlerà di “attentato consapevole” alla sopravvivenza dell’ortodossia, Tichon sceglierà segretamente i suoi successori nel caso di una scomparsa improvvisa e la Chiesa lancerà un appello alla “Svjataja Rus”: “Accadono avvenimenti che non si sentivano da secoli: fatti coraggio, o Santa Russia, sali sul tuo Golgota”. È la denuncia di “uomini senza fede alcuna”, commissari del popolo che hanno deciso “una completa sopraffazione della coscienza dei cristiani”. Bisogna reagire, difendere le chiese, altrimenti “toglieranno gli ornamenti sacri alle icone miracolose”, “non si celebreranno più i misteri”, “i morti saranno sepolti senza benedizione” e infine “tacerà il suono delle campane”. Intanto, processioni interrotte con la forza, icone bruciate, scritte e dipinti futuristi sui muri dei conventi e dei monasteri, urne dei Santi profanate, finché il governo cancellerà le reliquie disponendo il loro trasferimento nei musei o la sepoltura definitiva per mettere fine “a questo culto di cadaveri e fantocci”.
La fede si ritira nei cuori, si ribella e si sottomette secondo la pressione del terrore, ondeggia come le fiammelle dei ceri riuniti a grappoli davanti alle icone dove tutto è sacro, la presenza del Santo nel dipinto, l’acqua benedetta mescolata ai colori, le immagini consacrate a Dio che da lui ricavano la forza di guarire le malattie, favorire i raccolti, cacciare gli spiriti malvagi dalle case dove sono perennemente esposte nell’angolo più alto. In quelle fiammelle sta il mistero della fede in Russia dopo il ’17: esile e tremolante, catturata e compromessa e tuttavia accesa per trasmettere il segreto del fuoco sacro a chi un giorno verrà. Chissà cosa si percepiva di tutto questo, nell’odore di cera e d’incenso prigioniero nelle chiese che via via chiuderanno, cent’anni fa. Eppure, tutto era annunciato fin da quel giorno lontano mille anni, quando sulla collina di Kiev tutti gli idoli furono fatti a pezzi e distrutti e sopravvisse come una profezia paurosa soltanto Perùn terribile, “colui che frantuma”, il dio della distruzione. Lo legarono alla coda di un cavallo per portarlo al Dnepr, lo gettarono nel fiume e dodici uomini lo colpirono coi loro bastoni, ma non voleva affondare e tutti videro alta sull’acqua la grande testa d’argento e i baffi d’oro, intatta e dunque eterna. La Russia sapeva. Ma sapeva anche la verità che Bulgakov fa pronunciare sottovoce al Professore, su una panchina degli stagni Patriarshie qualche anno dopo e per l’eternità: “Tengano presente che Gesù Cristo è esistito”.
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8) Gli intellettuali traditi Uomini e donne della San Pietroburgo letteraria, cresciuti nel culto del popolo, sono in un primo tempo sedotti e poi colpiti duramente dai fatti del 1917
EZIO MAURO Rep 15 7 2017
SAN PIETROBURGO Doveva essere un’eco terribile, che risaliva dal profondo della storia russa, il rumore dell’acqua che batte nelle fondamenta del bastione Trubezkoj, sotto il livello della Neva, e il rimbombo della campana sulla fortezza che sembra chiamare a un funerale tutto il giorno e anche di notte, quattro volte ogni ora. Usciti i bolscevichi, nelle celle rettangolari erano entrati i dignitari dello Zar, presidenti del Consiglio, ministri, ciambellani, dame di Corte, capi della polizia, e adesso dovevano muoversi tra un letto di ferro, un secchio, un minuscolo lavandino grigio, un tavolo con l’unica sedia. Mi sono affacciato allo spioncino di legno delle celle, per inquadrare il ribaltamento del mondo avvenuto proprio qui cent’anni fa: quando il conte Frederiks, generale, cavaliere dell’Ordine dei Serafini e ministro di Corte si sedette su questo pagliericcio, passando in poche ore dal palazzo imperiale alla rivoluzione, talmente in fretta da precipitare subito e per sempre nella demenza senile. A quello stesso spioncino il mattino del 19 maggio arrivò Aleksandr Blok con i suoi capelli folti, il colletto alto, l’amore russo per le poesie che lo circondava e lo accompagnava per tutto il Paese, convinto che lui scrivesse i suoi versi direttamente davanti a Dio. A 37 anni, era il più grande poeta russo di un’epoca di ferro, come l’aveva definita sporgendosi “su quell’abisso cupo e solitario che si chiama Pietroburgo”. Faceva sogni profondi come presagi, da cui ricavava l’immagine “di una terribile oscurità, con questa nube minacciosa che ci viene incontro”, mentre “l’Anima del mondo si vendica su di noi, che custodiamo moltissimo presente e solo una goccia di futuro”, per veder giungere infine sulla Russia “un fuoco tranquillo, che si diffonde a consumare tutto”.
Proprio quel fuoco lo ha portato qui, nella fortezza di Pietro e Paolo, prigione di tutte le Russie, chiunque comandi. È il segretario della Commissione straordinaria d’inchiesta sui crimini zaristi e prima degli interrogatori visiterà le celle dei trenta prigionieri, fermandosi sull’ex Capo del governo Goremykin che sonnecchia col pomello d’oro sul bastone nero e i pantaloni a righe, respirando a fatica col suo grosso naso, sull’ex ministro degli Interni Protopopov in calzoni corti e lo sguardo infantile disorientato, sulla favorita della Zarina Anna Vyrubova (le faranno una visita ginecologica per accertare che non sia stata anche l’amante dello Zar) che si regge con una stampella mentre getta le sue carte stracciate nella padella. Odore di latrina identico in tutte le celle, la stessa luce metallica al chiuso, l’angelo dorato sulla guglia che spunta all’angolo della finestra, mentre l’orologio a carillon della fortezza suona le dieci.
Solo la Russia, che per ripararsi dalla tragedia trasforma in leggenda la realtà mentre la sta vivendo, poteva affidare a un poeta la stenografia in carcere dei verbali d’interrogatorio dell’impero sconfitto dalla rivoluzione. Il nuovo potere giudicherà: ma intanto Blok guarda, e se a Palazzo d’Inverno osserva indifferente la sala del trono con tutta la stoffa rossa strappata sui gradini, nella fortezza vede il vecchio Presidente del Consiglio che perde la memoria, il vicecapo dei gendarmi Kafafov che piange, l’ex capo della polizia Belezkij che tentenna davanti alle domande, nasconde le mani in tasca, ritrae le gambe. “Tutte queste persone – dirà – non le ho conosciute nello splendore del potere, le incontro oggi nell’umiliazione. Non ho una visione chiara di quel che sta accadendo, ma per volere del destino sono stato elevato a testimone di una grande epoca”. La conclusione è scritta nei suoi taccuini: “Non si può giudicare nessuno. L’uomo nell’ora del dolore diventa un fanciullo”.
Blok faceva sogni da cui ricavava l’immagine di una terribile oscurità Solo la Russia poteva affidare a un poeta i verbali degli interrogatori
Come molti scrittori, Blok aveva vissuto il Febbraio nel fragore futurista subitaneo, “come uno scontro tra due treni in piena notte, un ponte che si sfascia, una casa che crolla”. “È accaduto un miracolo – scriveva alla madre subito dopo la prima rivoluzione –, e ce ne possiamo aspettare altri”. “Se dobbiamo vivere – annotava con slancio una sera – ebbene, viviamo”. Poi, dopo un mese appena di interrogatori in carcere si accorgerà che i suoi nervi sono diventati “ottusi”, perché “tutti costoro, figli vivi e uccisi del mio secolo, dimorano in me”. Da qui la riflessione sulla democrazia, “non si può mai dimenticare che è cinta di tempesta”, la confessione intima (“è tutto talmente senza scampo, nell’anima e nel corpo c’è un indicibile peso, il denaro vola, la vita diventa mostruosa, turpe, insensata, depredano ovunque”), fino alla frase del rifiuto e della condanna sussurrata da un amico al telefono e riportata nel segreto del diario, di notte: “è ripugnante il paradiso socialista-piccolo borghese-bolscevico”. Poi la resa. Prima nell’anima della città: “Voci sulla chiusura di tutte le botteghe, mancano i generi di prima necessità, quello che c’è ha prezzi folli. Gelo, oscurità quasi completa. Un vecchio urla, morendo di fame”. Quindi si arrende l’anima del poeta: “Ormai non sono più in grado di lavorare sul serio, finché sul collo mi balla il cappio dello stato poliziesco”. Lui, l’autore dei Dodici, con le Guardie Rosse che marciavano guidate da Gesù Cristo, morirà per denutrizione, per esaurimento, ma soprattutto per la sua “asma spirituale”, come la chiama Andrej Belyj, delusione e angoscia. Non scriveva più: “Tutti i suoni sono cessati. Soffoco, soffochiamo tutti, anche la quiete e la libertà ci vengono tolte. E il poeta muore perché non ha più nulla da respirare, la vita ha perso significato”.
Ingigantita dalla sua figura e dal suono ipnotico dei suoi versi, la parabola di Blok è quella di gran parte dell’intellettualità russa, tradita e colpita dalla rivoluzione dopo essere stata sedotta: perché cresciuta nel culto del popolo, anzi con la missione di costruire nel popolo un’ideologia di ribellione al potere autocratico, tanto che Nikolaj II chiederà di cancellare dal vocabolario la parola “intellighentija”. Per questo i funerali del poeta segneranno la fine degli anni d’argento, l’inizio secolo delle avanguardie artistiche, tanto che per due settimane si parlò sottovoce nel retropalco dei teatri, nelle librerie sul lato illuminato dal sole del Prospekt Nevskij, al Club Artistico, al Circolo Musicale, alla Casa del Letterati, come se fosse morta una certa idea di Pietroburgo. Ho risalito le scale da cui il 10 maggio del ’21 Blok è sceso per l’ultima volta accompagnato dal canto funebre ortodosso, dal vento caldo che arrivava dal mare, da Belyj, Berberova, Achmatova, Zamjatin, in mezzo a centinaia di sconosciuti coi fiori e le candele in mano, richiamati dai versi senza più voce, come se la città non avesse più luce.
In quelle stesse ore, Anna Achmatova aveva saputo dell’arresto dell’ex marito, il poeta Nikolaj Gumilev, accusato di far parte dell’”Organizzazione Combattente di Pietrogrado”, e condannato alla fucilazione, nonostante le intercessioni e le richieste di grazia che a un certo punto fecero sbottare Dzerzhinskij, il Capo della polizia segreta, la Ceka: “Perché mai dobbiamo giustiziare gli altri e salvare un poeta”? Eppure all’inizio il Febbraio aveva trovato Piter dentro un sommovimento artistico senza precedenti, le due rivoluzioni sembravano parlarsi. Cinquecento film russi in produzione nell’anno fatale, il 1917, i primi attori dell’Aleksandrinskij che non ricevono più il portasigarette dorato dello Zar con l’aquila tempestata di diamanti ma vedono le orchestre che decidono di suonare senza direttore, i poeti di strada acclamati come maghi nel silenzio della sera, i pittori tra cubismo e futurismo che colorano gli alberi e trasformano le case in tele gigantesche. Per poi cominciare la notte in fondo a via Italianskaja al “Cane Randagio” (con le foto dei poeti appese al muro ancora oggi, tra i “bicchieri gelati sul tavolino e il vapore odoroso del caffè nero”), e continuarla alla Casa delle Arti dove vivevano insieme – bruciando d’inverno al fuoco del camino le vecchie carte della banca vicina – Mandelshtam, Chodasevic, Olga Forsh, e Nina Berberova a Capodanno ballava il fox trot nella sala degli specchi. Poi tutto, musica, letteratura, poesia e rivoluzione, andava a finire alla “Bashnja”, la Torre di Vjaceslav Ivanov che riceveva gli ospiti in guanti neri il mercoledì discutendo di Dioniso e di Cristo, mentre i poeti recitavano i loro versi fino all’alba, sporgendosi dai tetti per veder sfiorire il bianco della notte.
“All’assalto delle porte del paradiso/ noi avanziamo/ per gli altri abbiamo sfondato la porta” – cantava nei primi mesi della rivoluzione Vladimir Majakovskij che nel 1930 si sparerà un colpo di pistola al cuore dopo aver scritto il suo addio al “compagno governo” – “Più in alto, nostro vessillo/ falce, in un giunco di fiamma/ abbraccia il martello con l’arcobaleno del tuo arco”. “Voglio seguire l’epoca, il rumore e il germogliare del tempo”– aggiungeva Osip Mandelshtam, che morirà nel gulag nel ‘38 – “Mio secolo, mia belva, chi saprà guardare nelle tue pupille”? E Andrej Belyj spiegava convinto: “Come un colpo dal sottosuolo che tutto distrugge, arriva la Rivoluzione. Arriva come un uragano, che spazza via ogni forma, come una statua, una pietra, grandine, inondazione, cascata. Tutto batte oltre ogni limite, tutto è esagerato. La Rivoluzione si riversa nell’anima dei poeti, e da lì rinasce e riemerge nel colore azzurro del romanticismo e nell’oro del sole”. Ma Lenin diffidava, nonostante gli ardori poetici. Per lui gli intellettuali di Pietrogrado “non comprendono, non imparano, non dimenticano”, mentre l’energia culturale operaia cresce e si rafforza, emarginando l’intellighentija “che si crede il cervello della nazione, e invece è soltanto lo sterco della Russia”. Diceva che la letteratura “deve essere partigiana, la ruota e la vite della grande macchina del partito”: e per questo addirittura seguì da vicino gli studi del premio Nobel Ivan Pavlov sul riflesso condizionato, pensando di unire bolscevismo e scienza per modificare l’uomo, portando dopo i corpi anche l’anima dentro il vortice della rivoluzione.
In quel vortice del ’17 gli scrittori e i poeti russi erano finiti ad uno ad uno, sorpresi ognuno in un punto diverso della Russia e della vita, come sotto un uragano. A Boris Pasternak la notizia del Febbraio arrivò nel pieno dei suoi 27 anni, mentre correva su una slitta da Tichie Gory verso Mosca, dentro tre cappotti, affondato nel fieno, con tre cavalli che tiravano nella neve la “kibitka” coperta sui pattini. L’Ottobre per lui cominciò invece a Mosca, con una telefonata del cugino: si spara nel quartiere della Precistenka, è una vera battaglia, guai a uscire di casa. Poi era saltato subito il telefono, e Pasternak rimase isolato per una settimana, senza sapere nulla di ciò che accadeva in città ma sentendo il suono delle granate lanciate dall’Arbat, il sibilo delle pallottole come api nel cortile, il crepitio delle lampadine che lampeggiavano per spegnersi subito e infine l’incedere sordo e massiccio di un carrarmato che risaliva la strada: subito dopo, tornato un silenzio pauroso, lo scrittore che uscì nel suo cappotto studentesco di panno capì che la Mosca fin lì conosciuta era finita per sempre.
A Piter Zinaida Gippius – che fino a poche settimane prima riceveva vestita di bianco o di rosa, guardando gli ospiti dall’occhialino che reggeva con una stanghetta – viveva proprio davanti a palazzo Tauride, la sede della Duma, e dalle finestre chiuse per paura delle pallottole poté partecipare dall’alto alle convulsioni della rivoluzione. A Febbraio quello è l’epicentro del terremoto che scuote il Paese, passano davanti alla casa le fanfare dei reggimenti ammutinati, le prime bandiere rosse, i marinai dormono per strada, lo spazio davanti a Tauride e le vie vicine sono bloccate dalla folla, gli amici impiegano 5 ore per arrivare dalla stazione fin qui, dove quasi ogni sera sale il vecchio amico Kerenskij. Zinaida guarda: “Non posso cambiare nulla, ho solo la consapevolezza che accadrà. Le parole e le frasi, tutto ormai ha perso di significato. Gli uomini si sono stretti un cappio alla gola, c’è nell’aria un soffio di mistero. Come se guardassimo nell’acqua torbida, non sappiamo a quale distanza ci troviamo dal crollo”. Fuori, tram bloccati, giornali assenti, scuole chiuse, giardini sbarrati, “risplendono solo i teatri pieni zeppi e i falò delle truppe che bivaccano sulle strade”. Per la scrittrice “non è l’ora di pronunciare giudizi, è un momento terribile e insieme gioioso”. Poi ecco “gli aculei scintillanti” delle baionette, i soldati che sparano alle finestre, la fiaba che diventa “minacciosa e terribile”, su un terreno ardente. E a settembre, la profezia: “Kerenskij è un autocrate pazzo”, “i bolscevichi sono ottusi fanatici”. Poi un’ultima cena alla vigilia dell’Ottobre, frutta, baranki col cumino, vino georgiano. Quindi salta la luce, Zinaida sbarra le finestre, la strada è buia, lei scrive davanti a un mozzicone di candela. È “il potere delle tenebre: che il diavolo se li porti”.
Tutti i diavoli e i santi, dice Nina Berberova, avevano già deciso di convergere su Pietroburgo in quell’anno in cui ogni cosa sembrò precipitare di colpo: “Una folla felice, irata, esitante, un lampo che balena, lo sfacelo cruento, un patriottismo nocivo e a buon mercato, parole, parole e l’incapacità di fare alcunché”. Si stava sfasciando il vecchio ordine che il popolo disprezzava, ma si avvicinava la rovina di fasce intere di popolazione “perdendo due generazioni di intellettuali, un ce- to colto che verrà eliminato e che non si riuscirà a ricostruire nemmeno in 200 anni”. Per la scrittrice il ’17 è l’ultimo anno del ginnasio, ma anche della scoperta dei Dodici di Blok e del primo amore. In poche settimane passerà dal conforto di una casa borghese all’inferno di una povertà che non aveva mai conosciuto. Quando la famiglia, pochi mesi dopo l’Ottobre, si trasferisce a Mosca sente per la prima volta la miseria dei suoi 17 anni trascinati nella polvere e nell’afa del Bulvar senza amici, con l’ingresso nelle mense pubbliche, una stanza in coabitazione, il pomeriggio a guardare le salsicce sul marmo di un negozio in viale Smolenskij, l’umiliazione della fame, le focacce con la buccia delle patate, e nonostante tutto il conforto di vedere il paiolo con la minestra sul fuoco e di sapere che ci sono i libri alla biblioteca del Corso. Il ritorno a Piter è l’ingresso con le poesie in mano alla Casa dei Poeti, poi in quella “Nave dei folli” che è la “Casa dei Letterati”, il cappotto rivoltato e gli stivali cuciti col feltro della moquette per arrivare al Capodanno del ’22 “nella città mezza morta”, vino, musica, profumo di Houbigant“ e tutti presentivano che sarebbero stati oppressi, tormentati, che gli avrebbero tappato la bocca, costretti a morire o a abbandonare la letteratura”. Finché arrivano i passaporti numero 16 e 17 per lei e Chodasevic, il marito poeta, e si può partire.
Se ne andrà anche Vladimir Nabokov, una settimana dopo l’Ottobre, per paura di un arruolamento forzato. Si chiuderà alle spalle la casa dove oggi stanno riportando alla luce gli affreschi, al numero 47 di quella via Morskaja che metteva in fila l’abitazione del principe Oginskij al 45, l’ambasciata italiana al 43, quella tedesca al 41, per arrivare infine a piazza Mariinskij. Lui sente “l’alito ardente di straordinari sconvolgimenti, un sordo brontolio dietro le quinte” già nel 1915, quando con la sua prima ragazza, Tamara, gira per Pietroburgo in ghette bianche, ma con un tirapugni nella tasca di velluto. Dopo la prima rivoluzione, ascolterà la notizia della rinuncia al trono di Mikhail tra una lezione di scherma e un’ora di boxe con monsieur Loustalot. Prima, da bambino, c’è il bacio della madre attraverso la rete sottile della veletta, i gioielli custoditi in un tramezzo dello spogliatoio e che poi in esilio verranno nascosti in una scatola di talco per essere venduti a poco a poco, il gioco al mattino con Volkov l’autista, per capire se lo accompagnerà a scuola con la Benz o con la nuova Wolseley munita d’interfono, che sarà smontata e nascosta in campagna dopo la rivoluzione per paura della confisca. Il padre è segretario del Consiglio dei ministri nel primo governo provvisorio, la famiglia ha tre tenute di campagna, uno stemma araldico con due leoni, 50 persone a servizio, un valletto che sta in piedi tra i pattini della slitta guidata da Zachar, nel suo pastrano azzurro imbottito d’ovatta.
Tutto questo si rovescia fino a scomparire di colpo, quando i marinai bolscevichi vogliono arrestare Nabokov padre che riesce a scappare verso la Crimea con uno zaino che gli porta il cameriere Osip all’ultimo momento: tutta la vita che resta è ormai lì dentro, insieme con i sandwich al caviale del cuoco Nikolaj Andreevic. Svanisce la geografia familiare di Piter, la scuola, il negozio inglese sul Nevskij, cambiano a Jalta gli odori e i colori, è nuova anche la preghiera del muezzin ogni sera, il raglio di un asino al tramonto. Arriveranno fin qui i bolscevichi, e allora da Sebastopoli la famiglia Nabokov salperà per il Pireo, prima tappa dell’esilio, fino alla pallottola fascista che nel ’22 a Berlino ucciderà il padre, curvato per proteggere il suo maestro Miljukov. Per Vladimir Nabokov comincia la vita da émigré, che lui definirà di indigenza materiale e di lusso intellettuale: “Con pochissime eccezioni tutte le energie creative di orientamento liberale, poeti, narratori, critici, storici, filosofi, lasciavano la Russia di Lenin. Quelli che non lo facevano, o avvizzivano laggiù, o adulteravano il proprio talento uniformandolo ai dettami politici di Stato”.
Non tutti, o almeno non sempre. Maksim Gorgkij, amico di Lenin dal 1905, già nel giugno del ’17 coltiva una forte critica nei confronti dei bolscevichi. Prima nelle lettere private (“sono i veri idioti russi, li disprezzo e li odio ogni giorno di più”), poi in un articolo sul suo giornale, Novaja Zhizn: “Sia Lenin che Trotzkij non hanno nessuna idea di ciò che significhino la libertà e i diritti dell’uomo. Sono già intossicati dal malefico veleno del potere, come si capisce dalla condotta vergognosa decisa nei confronti delle libertà democratiche, a partire dalla libertà di parola fino alla libertà personale”. Gorkij polemizzerà con Zinovev, capo del partito a Pietroburgo, parlando di crimini vergognosi, con Dzerzhinskij, denunciando l’arresto delle migliori menti della Russia. Andrà all’estero, poi tornerà a ricevere gli onori del regime che gli ammazzerà il figlio, e finirà nel più ideologico cimitero sovietico, le mura del Cremlino. “Ha un talento artistico prodigioso – dirà di lui Lenin –, ma per quale motivo deve intromettersi nella politica”?
In quel luglio del ’17, non sono ancora gli intellettuali a preoccupare Vladimir Ilic. È titubante (la Pravda uscirà con uno spazio bianco in prima pagina per l’indecisione del partito) quando scoppia la rivolta del Primo Reggimento Mitraglieri che si rifiuta di partire per il fronte, quando si aggiungono i 30 mila operai delle officine Putilov, quando arrivano i marinai di Kronstadt che affollano palazzo Tauride chiedendo tutto il potere ai Soviet. Ci sono spari tra l’esercito e le Guardie Rosse, ma Lenin rientrato in fretta dalla Finlandia pensa che il tempo dell’insurrezione finale non sia ancora venuto, perché non è certo l’appoggio delle truppe al fronte. Lo scossone porta alle dimissioni del governo L’vov, Kerenskij diventa Primo Ministro e lancia subito una campagna contro Lenin, Zinovev e Kamenev, con tre mandati di cattura per intelligenza col nemico e tradimento al soldo della Germania. Lenin entra subito in clandestinità, fuggendo verso la frontiera finlandese dopo essersi tagliato il pizzo e i baffi, grazie a una chiamata d’emergenza nell’appartamento della sorella in via Shirokaja, dove si poteva telefonare alla rivoluzione componendo il numero 24-643.
Anni dopo, Lenin ricorderà queste avventure estreme, tentando un bilancio quando Gorkij gli chiederà conto dell’oppressione di tanti intellettuali: “la nostra generazione ha compiuto un’impresa meravigliosa. La crudeltà della nostra vita, resa necessaria dalle circostanze, sarà compresa e perdonata. Tutto sarà compreso, tutto”. Ma basterebbe solo leggere il Requiem di Anna Achmatova, per capire che non può essere così: “Di morte sopra noi stavano stelle/ e innocente la Rus’ si contorceva/ calpestata da stivali sanguinosi”. Si cammina piano ancora oggi nella casa della poetessa, in fondo al cortile dove giocano i bambini, davanti alle finestre dove scrisse “come un fiume io fui deviata/ mi deviò la mia era poderosa”. Nel salotto c’è ancora il posacenere rotondo di peltro dove finivano i versi del Requiem, scritti in poche righe su un foglietto per gli amici in visita che in silenzio li imparavano a memoria, perché non si potevano nemmeno pronunciare, nel terrore che qualcuno ascoltasse. Poi lei accendeva un fiammifero, e li bruciava qui dentro. I versi nel fuoco per diventare polvere di carta, prima di ritornare parola, ma settant’anni dopo. Dopo la cenere russa della poesia. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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10) I due leader insieme nella lunga notte che cambiò la Russia Il 24 ottobre l’attacco a due giornali bolscevichi scatena la reazione del SovietEZIO MAURO rep 6 9 2017 ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Il primo ricordo è del bimbo Lev che si fa la pipì addosso a casa dei vicini, poi il gioco d’estate a catturare le tarantole con un filo di pece per metterle in una boccetta di olio di girasole trasformandolo in medicinale, la domenica con il meccanico Ivan Vasilievic che taglia i capelli al padrone e ai due figli, il vecchio Timofej Isaevic che va in giro per i casolari a scrivere lettere e suppliche per i contadini analfabeti nascondendo nella manica i pagamenti in sale, pepe, zucchero e tabacco, la sinagoga ebraica solo per le ricorrenze più importanti, quel primo viaggio con la madre in carrozza a Bobrinez, la scoperta dei fili del telegrafo e la domanda senza risposta: come riescono a passare lì dentro i telegrammi?
La prima immagine del potere è quella del contrammiraglio Zelenoj, prefetto di polizia di cui si vede appena il pugno che spunta dalla carrozza mentre urla i suoi comandi, i gendarmi fanno il saluto e gli uomini abbassano il cappello. Poi arrivano le letture, Oliver Twist, “Potere nelle tenebre”, quindi il teatro, il giornale di classe a Odessa, un’espulsione a scuola con permesso di ritorno, gli opuscoli di propaganda sotto il materasso a Nikolaev, l’incontro con il giardiniere Franz Shvigovskij che riunisce in casa socialisti, esiliati, studenti e finite le riunioni li ospita a dormire dopo una zuppa collettiva, ma senza lenzuola e cuscini. Il padre che già non sopportava di vedere il figlio con gli occhiali, perché gli davano un’aria da intellettuale sfaccendato, non vuole mantenere un rivoluzionario. Lev rompe con lui, e quando il vecchio andrà a visitarlo nell’ufficio di Commissario del Popolo al Cremlino, regolerà quel conto eternamente sospeso: «Vi ricordate, padre, quando litigavamo al villaggio, e voi mi dicevate che lo Zar sarebbe durato per secoli? Eccoci qua». Ma prima, Lev deve pagarsi da solo gli studi, la giacca blu e il cappello di paglia col bastone nero con cui va alle riunioni della Lega Operaia, il poligrafo con cui scrive articoli, titoli, manifesti. Per quelle carte lo arrestano la prima volta a 18 anni perché il disgelo fa emergere una borsa piena di documenti clandestini nascosta in un buco scavato sotto un cavolo, e in carcere (dove non ha sapone e non si cambia per tre mesi, ma fa ogni giorno ostinatamente 1111 passi lungo la diagonale della cella) incontra per la prima volta il nome di Lenin, leggendo il suo saggio sugli sviluppi del capitalismo russo.
Quando torna a Piter da New York Lenin è già il capo del partito, Lev Davidovic che lo aveva conosciuto a Londra ricorda il giudizio su Ilic di Plekhanov, il “papa” dei socialisti russi: «è di questa pasta che si fanno i Robespierre». Lui può raccontare nei comizi quel che ha visto all’estero, l’eco enorme della rivoluzione negli Usa quando tutti, giornalisti, intellettuali, politici, si precipitavano nella redazione americana di Novyj Mir dove lui lavorava, il figlio con la difterite che balla sul letto quando lui telefona alla moglie le prime notizie da Pietrogrado, perché sa che rivoluzione vuol dire amnistia, vuol dire fine dell’esilio, vuol dire ritorno e soprattutto vuol dire Russia. Oratore appassionato e immaginifico («il governo è nato morto – dirà del ministero Kerenskij – e con gli occhi aperti attende la sua sepoltura»), lo invitano dappertutto, anche senza tessera è il beniamino delle assemblee bolsceviche in cui usa sempre il “noi”, affolla la sera il Circo Moderno coi suoi discorsi a braccio, con la figlia che lo guarda in platea, inchioda con la sua furia polemica il Soviet, sempre con la Browning in tasca. Quando nel tumulto di luglio i marinai di Kronstadt riuniti davanti a Tauride sequestrano sul sedile posteriore di un’auto scoperta il ministro dell’Agricoltura Chernov come ostaggio, insoddisfatti delle sue risposte prudenti sulla terra ai contadini, tutti si precipitano fuori dal palazzo. Ma è Trotzkij che salta sul cofano dell’auto e chiede silenzio: «Voi siete la gloria e l’onore della rivoluzione, la sua avanguardia. Ma perché volete macchiare tutto questo con una violenza meschina contro una persona isolata? Chi è per la violenza?». I marinai mugugnano, ma non rispondono. «Cittadino Chernov, siete libero», dice Trotzkij sollevandolo dal sedile e accompagnandolo dentro Tauride.
Nella battaglia politica di Lenin contro Zinovev e Kamenev, che volevano aspettare l’Assemblea Costituente di novembre per prendere il potere legalmente, Lev Davidovic appoggia la tesi leninista dell’insurrezione subito. Tra i due c’è una differenza strategica, anzi politica, perché Trotzkij diventato presidente del Soviet di Pietrogrado vuole che questo sia lo strumento dell’insurrezione, mentre Lenin come sempre mette al centro il partito-guida. Ma adesso, dopo le polemiche del passato, sono alleati, entrambi vedono la storia a portata di mano, la battaglia è la stessa. Quando il governo decide l’ordine d’arresto per Lenin, Zinovev e Kamenev, Lev protesta con una lettera, chiedendo di essere accomunato ai suoi compagni. Finirà in cella al Kresty per poco più di un mese come “agente tedesco”, e qui a conferma della sua autorità rivoluzionaria arriveranno in visita i marinai dell’incrociatore “Aurora” chiedendogli di aiutarli a sciogliere il dubbio capitale durante la manovra controrivoluzionaria del generale Kornilov: devono difendere il Palazzo d’Inverno o assaltarlo? Anche i figli ragazzini andarono a trovarlo raccontandogli – attraverso la grata – della domenica passata nella dacia di un colonnello amico di famiglia, dove avevano lanciato una sedia contro un ospite che aveva chiamato spie Lenin e Trotzkij. Mentre si salutavano con le mani sulla grata, lui si accorse che la moglie gli stava passando nei buchi un coltellino.
Adesso, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, quando Kerenskij vara il pre-parlamento come contraltare ai Soviet, è Trotzkij d’accordo con Lenin a chiamar fuori i bolscevichi: «Questo è un governo di tradimento nazionale, non faremo da paravento nemmeno un giorno, nemmeno un’ora». Nella confusione dell’aula, qualcuno urla che il partito bolscevico prepara qualcosa di oscuro, un grande scandalo, un colpo di mano. «Stupidaggini – provoca Trotzkij, sfrontatamente –: appena qualche colpo di revolver». Pochi giorni dopo, nell’assemblea plenaria del Soviet i menscevichi sollevano la stessa questione, riproponendo la domanda che agita tutta Pietrogrado: si sta preparando un colpo di Stato? Lev Davidovic si alza dalla presidenza, va alla tribuna e contrattacca: «Chi è che lo chiede? Chi vuole saperlo? Kerenskij? Il controspionaggio? L’Okhrana? O qualche altra organizzazione?». Zinovev e Kamenev sfruttano questa ambiguità in una riunione della Duma di Vyborg, sostenendo che bisogna rinviare l’assalto alla città, perché il partito «non dispone di un meccanismo per l’insurrezione ». Lenin morde il freno, urla che ci sono solo due alternative, o una dittatura dei generali come Kornilov, o una dittatura del proletariato. Passa la sua mozione.
In realtà il meccanismo è pronto, e Trotzkij lo sta caricando come una molla. Col Comitato Militare Rivoluzionario, in mano a due bolscevichi come Podvolskij e Antonov-Ovseenko ha lo strumento di battaglia. Ogni caserma sa quante autoblinde può muovere, quanti camion. Le Guardie rosse contano su quarantamila baionette, agiranno in gruppi di dieci, quattro gruppi formano un plotone, tre plotoni una compagnia, tre compagnie un battaglione di quasi quattrocento uomini. Le operaie creano reparti di infermiere, fanno i corsi in fabbrica. Sono pronte le divisioni operaie, i reggimenti contadini, le squadre di ferrovieri rivoluzionari e di postini bolscevichi, mentre è più difficile penetrare nel telegrafo, in mano ai cadetti. Tutt’attorno, la Russia ribolle: i sindacati sono ormai diventati duemila, con più di due milioni di lavoratori iscritti, i soviet a settembre sono quasi mille, il partito bolscevico supera i duecentomila tesserati, nel villaggio di Sicevka i contadini sono appena usciti di notte con fruste e bastoni per demolire la casa del padrone, l’Unione dei proprietari denuncia che in tre giorni sono stati bruciati ventiquattro poderi mentre il pane è razionato nelle città, a Mosca non si va ormai oltre le due libbre a settimana.
È a questo punto che Trotzkij fa la prima mossa. Il 18 ottobre un telegramma a tutti i reparti militari prescrive di non eseguire più gli ordini dello stato maggiore salvo che siano vistati dalla sezione militare del Soviet. È il via all’insubordinazione, primo atto della rivoluzione. E Trotzkij ha appena firmato di suo pugno l’ordine agli arsenali di consegnare cinquemila fucili alle guardie rosse. Sabato 21 la guarnigione di Pietrogrado si schiera, dichiarando che d’ora in poi prenderà ordini solo dal Soviet, “unico potere”. Lenin è inquieto nel suo rifugio protetto dal quartiere ope- raio, non va nemmeno nelle altre stanze della casa, non esce mai sul balcone, chiede al partito di poter raggiungere il quartier generale allo Smolnyi. Il Soviet di Vyborg risponde di no, le strade non sono sicure, la rivoluzione non può rischiare di perderlo. Allora alla vigilia del giorno fissato per l’insurrezione Lenin convoca Trotzkij. «Come mai il potere non si muove? C’è il rischio di qualche trappola? E se sapessero cosa stiamo facendo, e all’ultimo momento giocassero d’anticipo? ». «Tutto è sotto controllo – risponde Trotzkij –, tutto avverrà automaticamente».
Una ragnatela d’impotenza sembra avvolgere le ultime ore del regime repubblicano, imprigionando il Palazzo d’Inverno come otto mesi prima aveva catturato la reggia di Zarskoe Selo e la debolezza sovrana dello Zar. Kerenskij dice ai suoi uomini che organizzerà un Te Deum di ringraziamento se i bolscevichi attaccano: «Ho più forza di quanta mi serva, li schiaccerò». In realtà, lui che baciava la terra davanti alle trincee, abbracciava i soldati, si illude che le truppe lo seguano. Il generale Polkovnikov, comandante della regione, gli ha appena detto che la guardia di Piter è fedele, ed eccola schierata con i ribelli, in blocco. Il comandante della fortezza di Pietro e Paolo, con i suoi centomila fucili, non accetta gli ordini del Comitato militare rivoluzionario, ma quando arriva Trotzkij a parlare alla truppa i soldati si schierano con il Soviet all’unanimità. «Noi – dice in ogni suo comizio Lev Davidovic – daremo tutto quello che c’è in Russia a chi non ha niente, e ai soldati nelle trincee. Tu hai due pellicce? Bene, danne una al soldato che sta al freddo. Hai due stivali ben caldi? Restatene a casa, servono più all’operaio che a te». Nell’ultima assemblea al Circo Moderno gremito propone un giuramento collettivo, quasi un atto religioso: «noi difenderemo la causa degli operai e dei contadini fino all’ultima goccia di sangue. Giuriamo di sostenere con tutte le forze e qualsiasi sacrificio il Soviet che ha preso sulle sue spalle la rivoluzione per donare terra, pane e pace». Una selva di mani alzate sigla la promessa.
Non fidandosi della città Kerenskij aveva disposto una cintura di sicurezza intorno a Piter, schierando il Terzo corpo d’armata a ventaglio nei presidi di Zarskoe Selo, Gatcina, Peterhof, pronto a intervenire al comando del generale Krasnov e dei suoi cosacchi, mentre sei cannoni da campo compaiono davanti al Palazzo d’Inverno, sorvegliato dagli allievi delle scuole ufficiali fuori, e dal battaglione femminile all’interno. Ma lunedì 23, quando ordina all’incrociatore Aurora che è entrato nella Neva di allontanarsi in mare, Kerenskij scopre che i marinai non obbediscono più. La notte chiama a rinforzo un battaglione di ciclisti, che però riconosce solo il comando del Soviet, non accetta altri ordini, non si muoverà.
I nervi della città sovreccitata, confusa e tuttavia impaziente avvertono nella tensione collettiva quel che sta per accadere. Le strade si riempiono al mattino, si svuotano la sera quando scende presto il buio, e le voci senza controllo affollano la notte spaventata parlando di saccheggi, furti, rapine per strada, passanti a cui sono stati rubati anche i vestiti. Solo Lenin non riesce a vedere, non può ascoltare, vorrebbe capire. Isolato nel suo nascondiglio, vicino ma assente, ancora alla vigilia scarica la sua inquietudine nell’ultimo telegramma al Comitato centrale: «Non dobbiamo aspettare, potremmo perdere tutto. Rimandare la sommossa significa morte certa». Ma Trotzkij non rimanda, sta aspettando l’occasione, il pretesto simbolico, il passo falso di Kerenskij: che arriva alle 6 del mattino di martedì, due ore prima dell’alba di Pietrogrado, quando un drappello di junker assalta i due giornali bolscevichi, Soldat e
Rabocij Put (che ha sostituito la Pravda fuorilegge), frantuma le matrici, spezza i cliché, getta le carte per strada, sbarra le porte con i sigilli del governo.
FOTO: © MILESTONE MEDIA
Parte un fonogramma dallo Smolnyi per tutti i reggimenti: «Il nemico del popolo è all’attacco, il Soviet assume la difesa dell’ordine rivoluzionario, prepariamoci all’azione». Il reparto bolscevico del Genio va sul posto, spezza i sigilli davanti alla folla, riapre le due redazioni. Poi i telefoni diventano muti. Il governo ha isolato il palazzo tagliando le linee, bisogna usare le staffette. È il momento in cui Lenin, non sentendo più nulla, decide di lasciare il rifugio. Chiama il compagno Rahjia che aveva organizzato la fuga in Finlandia, scende nel Prospekt Bolshoj Sampsonievskij, si ferma sul portone stordito poi lascia la clandestinità e si immerge nella febbre di Pietrogrado per raggiungere l’ora x dell’insurrezione.
Lo Smolnyi infine lo inghiotte, gigantesca cattedrale della rivoluzione, alveare bolscevico dove ogni stanza ospita una cellula della sommossa, dietro le targhe del vecchio collegio femminile della nobiltà zarista, “Aula III”, “Signori professori”, “Sala assistenti”, dove adesso sono appoggiati i fucili dei delegati di ogni reparto militare. La notte sarà lunga e prima dell’alba Vladimir Ilic vedrà Trotzkij che chiede una sigaretta a Kamenev, poi sviene sul divano per stanchezza, per sonno, per fame. L’indomani si riunisce il congresso panrusso dei Soviet, e si aprirà con la notizia che la rivoluzione è ormai per le strade della città. Nella fattoria di Janovka, nella scuola di Odessa, nel carcere dello Zar, sul bastimento che lo esiliava in America, Lev Davidovic non poteva nemmeno immaginare che sarebbe finita così: come in quel momento non immaginava che il terrore di Stalin sarebbe riuscito a divorare entro pochi anni anche lui, l’architetto della rivoluzione.
Ma adesso tutto sta per compiersi, è il momento. Quando la sala è già piena di delegati venuti da tutto il Paese, lui e Lenin si coricheranno stremati su una coperta nella stanza in fondo a destra, piena di sedie ammucchiate oggi come cent’anni fa: vado a vederla, identica, silenziosa, immagino il frastuono del Soviet oltre la parete bianca, il giorno della rivoluzione. Qui i due vorrebbero dormire un’ora, ma Lenin è tormentato: «E il Palazzo d’Inverno? Perché non si sa niente? Non possiamo fermarci».
Nessuno può più fermare la corsa cieca del secolo. La sorella di Ilic viene a chiamarli, è l’ora, il congresso si alza in piedi quando entra Trotzkij, poi vede spuntare accanto a lui questo strano Lenin senza il pizzo e senza i baffi, che si siede in prima fila: chi è? È lui? C’è Ilic, è tornato, è libero, dunque è finita la fuga, è cessata la paura e la nuova epoca forse può davvero cominciare. I menscevichi non lo credono, dicono che l’insurrezione abortirà, perché è una congiura, l’unica salvezza è un governo di coalizione. Lenin e Trotzkij si guardano, Lev Davidovic va alla tribuna: «Noi stiamo vincendo e voi ci proponete di rinunciare alla vittoria per venire a patti. Ma siete figure miserabili, siete dei falliti, la vostra parte è finita, potete andare solo nel posto che vi compete da oggi in poi: nella spazzatura della storia».
Dall’altro angolo della storia, prigioniero dei suoi guardiani e del suo fallimento, l’ex Zar in quelle ore sembra scrivere il diario notturno con l’inchiostro di un altro mondo. «È stata una giornata di sole con quindici gradi sotto zero. Sono giorni che non arriva nessun giornale, come pure nessun telegramma. Probabilmente in città non accadono fatti degni di nota. Siamo andati a messa: buio fitto».
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11) Tecnica del colpo di Stato 

Il 24 ottobre in una San Pietroburgo sospesa da giorni sul bordo dell’inevitabile, il destino della Russia si compie. Trotzkij decide che non serve più aspettare

EZIO MAURO Repubblica 4 10 2017
SAN PIETROBURGO Brutto segno quando i ponti sulla Neva si alzano e si abbassano come quel 24 ottobre sulla confusione della città, piena di domande e di paure, divorata dall’attesa nervosa di un’ora fatale ma sconosciuta, da giorni sospesa sul bordo tormentato dell’inevitabile. Sembra che sul fiume tutto debba cominciare e tutto debba finire, come se Pietroburgo dovesse realizzare qualche superstizione slava nel momento supremo, visto che la storia dell’antica Rus’ è sorta dalle acque del Dnepr. Così quel giorno, per isolare dal centro il quartiere operaio di Vyborg, vera caldaia della rivoluzione, il governo solleva i collegamenti. Il Soviet manda i reparti di Guardie Rosse e soprattutto fa muovere nelle acque della Neva l’incrociatore “Aurora”, che da tre giorni è entrato nel fiume dove aspetta gli ordini bolscevichi. I ponti tornano a funzionare e diventano così l’immagine pubblica di un potere che sta passando di mano, davanti agli occhi febbrili di una città ipnotizzata dalla sua stessa sorte, che compiendosi cambierà il destino del Paese. Sono le due di notte quando quattro distaccamenti militari attraversano curvi il buio di quei ponti per attaccare il sistema circolatorio della capitale. Senza consultare Lenin, Trotzkij ha deciso che non serve più aspettare. Scende alla stanza 17 dello Smolnyj e dal Comitato Militare Rivoluzionario parte l’ordine che darà il via alla rivoluzione, mentre Antonov-Ovseenko segna con un cerchio sulla mappa della città il primo obiettivo. È la centrale del telegrafo, il vero mezzo di comunicazione della modernità, attraverso cui sono passati in quei mesi l’ultimatum della Duma, la ribellione dei generali, l’abdicazione dello Zar, l’illusione bonapartista di Kerenskij, il tentativo di golpe di Kornilov, la disperazione solitaria della Zarina, l’intero discorso politico russo del 1917.
È il primo assalto perché è il più difficile, le forze governative presidiano il portone. Ma attorno, in un semicerchio visibile, c’è già da due ore il reggimento Keksholmskij, in mano ai bolscevichi. Hanno individuato un ingresso laterale, nel buio il commissario rivoluzionario Stark forza il cancello, 35 uomini guidati dal marinaio Savin penetrano all’interno, mostrano le mitragliatrici alle finestre mentre un’altra squadra sale sulla casa di fronte per tenere di mira l’ingresso e i soldati. Ma non c’è bisogno di sparare e il telegrafista del reparto alle 2,30 del mattino può dare il via libera allo Smolnyi: «Siamo entrati, è nostra ». Lo stesso messaggio arriva pochi minuti prima dalla centrale dei telefoni, che il governo aveva provato a occupare, e che ora è sgombra. Poi tocca alla centrale elettrica, a quella dell’acqua, ai gasometri, agli arsenali, ai silos della frutta e della verdura, ai magazzini della carne, al primo ufficio postale della città, alla banca di Stato.
Le squadre dei guastatori bolscevichi, del genio, dei ferrovieri, stanno attaccando le stazioni, prima fra tutte la Nikolaevskij, conquistata in quindici minuti, mentre una compagnia del reggimento della guardia Semenovskij prende il controllo della tipografia dove si stampa il giornale della destra Russkaja Volja, e dove da domattina si dovrà pubblicare il quotidiano dei bolscevichi in formato gigante. Il battaglione chimico conquista le chiavi dei depositi di armi, il reggimento Pavlovskij tiene d’occhio con i suoi esploratori lo stato maggiore di Pietrogrado, un reparto della riserva segue da vicino gli junker, allievi ufficiali, e li disarma, mentre le Guardie Rosse piazzano le autoblinde nelle piazze e le mitragliatrici agli incroci sui balconi.
Non c’è conflitto, si sente nel buio qualche scoppio di granata lanciata per intimorire i soldati prima dell’assalto agli edifici, come le raffiche sporadiche di mitragliatrice sparate in aria ad aprire la strada. Dovunque, i rivoluzionari entrano negli edifici, salgono le scale, occupano le stanze e gli uffici. La città si apre una porzione alla volta, consegnandosi. Alle 3 sul canale militare del telegrafo il comando regionale lancia il primo allarme: «La capitale è in uno stato terrificante. Le strade sembrano tranquille, senza truppe e disordini, ma i soldati fuggono, mentre vengono occupate le stazioni, i ponti e le centrali. Nessuno può dire che non verrà attaccato il governo ». Mezz’ora dopo, messaggio dal ministero della Guerra: «O arrivano rinforzi dal fronte o non riusciremo a difenderci».
Eppure i ministeri resistevano integri e deserti, Palazzo d’Inverno – col suo generatore autonomo – brillava intatto nel buio, come se fosse una notte tranquilla e non l’inizio della fine. Era la tattica di Trotzkij. Mentre Lenin fin da Zurigo studiava le operazioni di von Clausewitz annotando Della guerra, prendeva appunti dal Combattimento nelle strade del generale Cluseret, ripeteva alla Krupskaja che solo una vera guerra civile «potrà liberare l’umanità dal giogo del capitale», ironizzava sui compagni rivoluzionari «che per mesi parlano di bombe senza averne mai fabbricata una sola», Lev Davidovic giocava a tavolino la sua partita con il governo sulla grande scacchiera della città. Una partita cerebrale, una manovra strategica, un esercizio tattico.
Il Soviet manda i reparti di Guardie Rosse e fa muovere l’incrociatore Aurora Non c’è conflitto
Si sente nel buio qualche granata lanciata per intimorire
Convinto che non è la massa ma l’organizzazione che porta al successo l’insurrezione, aveva cominciato dividendo la città in settori, affidandoli ognuno a uno stato maggiore, con una sua squadra di Guardie Rosse, ciascuna collegata alle compagnie militari di quartiere. Poi aveva individuato gli obiettivi: non i palazzi del potere politico, dov’era asserragliato ciò che restava dello Stato, ma la mappa fisica dei servizi, che danno e tolgono l’ossigeno quotidiano alla capitale, regolando l’intero sistema. In quell’ottobre ’17 Trotzkij ribalta così la logica rivoluzionaria, scartando lo scontro frontale, evitando il conflitto diretto, rimandando la presa dei luoghi simbolici del comando perché in una concezione modernissima vede la città-Stato come un organismo sistemico, un meccanismo tecnico, un congegno operativo complesso, ma smontabile nei suoi pezzi e ricomponibile a piacere. Le sedi della politica e delle istituzioni potevano rimanere sullo sfondo del paesaggio rivoluzionario, con le loro bandiere al vento, il filo spinato davanti, i soldati con le inutili bombe a mano dietro le porte chiuse. Prendiamoci il dispositivo che regola il funzionamento e l’operatività di tutto questo – pensava Trotzkij –, l’acqua, la luce, le fognature, la luce, il telefono e il telegrafo, le stazioni e i porti, le caserme e gli incroci stradali, i ponti, le poste, le banche e gli arsenali: e l’intero sistema ci cadrà in mano, consegnandoci la politica a quel punto inerme, lo Stato reso infine impotente, il guscio vuoto del potere.
Ecco chi erano quegli uomini in giro con le mani in tasca negli ultimi tre giorni, mentre guardavano i treni e i posti di polizia nelle stazioni, si sedevano sulle panche di legno nel gigantesco salone della posta centrale, entravano come dei clienti a chiedere informazioni nelle centrali, esploravano la rete delle fogne sotto Palazzo d’Inverno e le condutture dell’acqua dietro palazzo Mariinskij, controllavano la rete elettrica sui muri di Tauride, sostavano come dei perdigiorno sulle panchine dei viali di fronte alle caserme, riempivano per ore falsi moduli negli uffici del telefono, chiacchierando con le impiegate. Avanguardie silenziose, rivoluzionari dormienti, esploratori fantasma. Ogni sera facevano una relazione tecnica allo Smolnyi, punti deboli, spazi di vigilanza, zone protette, ingressi laterali, sotterranei, solai, vie di fuga. Era come se le Guardie Rosse avessero scoperchiato il sistema nervoso della città per testarlo, poi lo avessero “minato” metaforicamente rivelando le aree più fragili, prima di affondare il bisturi chirurgico su Piter che dormiva.
Così adesso la rivoluzione scriveva un inedito storico. Nessun assalto di massa, nessuna spallata, ma una serie di operazioni all’apparenza minori, piccoli gruppi che prendevano il controllo di singole postazioni strategiche, in un’occupazione dall’apparenza quasi più logistica che militare. Il governo che aspettava l’urto massiccio dei reparti ammutinati scopre la piazza vuota e quel nulla misterioso e ostile lo spaventa. Chiama continuamente al telefono palazzo Tauride, i ministeri, lo stato maggiore, il quadrilatero del comando, e riceve conferma e rassicurazione: qui tutto è normale, nessun attacco in vista, le istituzioni sono tutte insediate, il potere formale dello Stato è intatto, come se ai rivoluzionari non interessasse conquistarlo.
Quando alle quattro saltano i telefoni e Palazzo d’Inverno rimane sordo e muto, Kerenskij capisce che la vecchia talpa rivoluzionaria sta scavando sotto le fondamenta dello Stato, là dove pulsa il cuore tecnico della dinamica di sistema, dove c’è la vera chiave che apre e chiude la città. A quel punto il primo ministro percepisce la difficoltà di misurare col metro di polizia quella forza dispersa ma organizzata che sta dilagando nel buio, a macchie, come un esercito di roditori o un virus. Sente la sproporzione improvvisa tra lo studio dello Zar dove sta seduto e il potere effettivo di controllo e di comando che gli resta concretamente in mano. Il contesto imperiale che ha ereditato non lo protegge, anzi Palazzo d’Inverno è talmente simbolico che lo espone: prima o poi vorranno prenderlo, arriveranno, sono già alla stazione del Baltico, a quella di Varsavia, li hanno visti al ponte Nikolaevskij, hanno sbarrato via Millionnaja, hanno appena liberato i carcerati della prigione Kresty, arruolandoli. L’ultimo rapporto prima dell’alba: i marinai sono entrati nel pre-parlamento a palazzo Mariinskij mentre i soldati si schieravano in due file sulle scalinate, da dove adesso scendono in fretta i deputati passando tra le baionette innestate.
Kerenskij va allo Stato Maggiore, e da qui lancia un ordine ai reggimenti cosacchi che in realtà è un appello: «Per l’onore, la libertà e la gloria della terra materna accorrete e salvate la Russia dallo sfacelo». I reparti del Don rispondono che stanno “sellando i cavalli”. In realtà prendono tempo, organizzano assemblee. Quei cavalli non partiranno mai, i cosacchi dopo quattro ore proclameranno la loro “neutralità”, non ubbidiranno più. Il governo chiede urgentemente truppe al Gran Quartiere Generale di Mogilev, ma il comandante Ceremisov non le farà marciare sulla capitale. Kerenskij passa la notte in piedi, ora dopo ora capisce che la leva militare non risponde al Comandante in Capo: non torna a palazzo, decide di aspettare i rinforzi fino alle luci dell’alba che in quel 25 ottobre storico arriva pigra alle 8,36 del mattino.
Pavidità o velleità spingono il Primo Ministro ad andare incontro alle truppe, per guidarle in città. Lo avvertono che i ponti sono ormai tutti in mano ai ribelli, le strade sono sguarnite di protezione, c’è luce, lo riconosceranno. Lui chiede una copertura diplomatica a Francia e America, dall’ambasciata Usa arriva un’automobile con bandiera a stelle e strisce, ma alla fine seguirà soltanto il Capo del governo che parte a gran velocità sulla sua auto scoperta con l’aiutante di campo. Attraversa la città piena di picchetti, passa accanto a un distaccamento di Guardie Rosse che incredibilmente fanno il saluto, e punta dritto verso Pskov, dove sul treno aveva abdicato lo Zar e dove quell’anno vanno a disfarsi tutti i poteri, in una sorta di “finis terrae” della Russia sterminata.
Il telegrafo che era di Stato fino alla sera prima, e la radio ribelle dell’incrociatore “Aurora” alle 10 del mattino diffondono un imprudente e precipitoso comunicato dello Smolnyi che annuncia la vittoria della rivoluzione: «Il Comitato militare rivoluzionario ha deposto il governo provvisorio e il potere statale è passato nelle mani del Soviet degli operai e dei soldati». Com’è possibile? Il governo è al suo posto, anzi ha appena provato a spedire una compagnia del Genio sulla via Morskaja per liberare la stazione telefonica, ma è inutile, i soldati verranno disarmati, tra le grida delle centraliniste che scappano in strada. Soprattutto Palazzo d’Inverno è in mano ai fedelissimi junkers all’esterno – dove vigilano sei autoblindo – e a una compagnia del battaglione femminile d’assalto che presidia l’interno, dove passano ancora in guanti bianchi i valletti con la livrea candida e il colletto rosso ricamato in oro.
Lenin è inquieto, non vuole aprire il congresso panrusso dei Soviet con un applauso a metà, per una vittoria dimezzata in una città ancora divisa. Podvolskij e Antonov Ovseenko, i diumviri del Comitato Militare Rivoluzionario, giurano che il Palazzo cadrà alle 12, ma quando il cannone della fortezza in mano ai bolscevichi spara il solito colpo a salve di mezzogiorno, tutto è come prima. Adesso dicono che le Guardie Rosse entreranno alle tre, che diventeranno le sei, poi non dicono più nulla. Si aspetta l’arrivo dei marinai da Kronstadt, da ieri è stato spedito il messaggio cifrato (“Inviate lo Statuto”) che chiedeva 1500 uomini, ne sono partiti addirittura 1800, ma sono ancora in viaggio. I due poteri che stanno per darsi il cambio del secolo si fronteggiano sulla piazza, a distanza, con pochi uomini armati dalle due parti, senza voglia di sparare, uccidere e morire.
I delegati del congresso venuti da tutta la Russia riempiono fino all’inverosimile la vecchia sala da ballo dello Smolnyi, attraversata dalle voci più incredibili su Kerenskij che è in fuga, no, è nascosto in città, sta lasciando il Paese, è stato arrestato, vuole marciare sul Soviet, sta arrivando, organizza le truppe. La bandiera è ancora alta sulle sedi del comando, serve chiarezza. Bisogna aprire un congresso gonfio di eccitazione e di inquietudine finché alle 2,35 si fa silenzio e Trotzkij annuncia che «l’insurrezione ha vinto, tutto è avvenuto senza spargimento di sangue, il governo provvisorio non esiste più, Palazzo d’Inverno non è ancora preso ma lo sarà ben presto». Dovrà scendere un’altra notte, mentre il congresso andrà avanti con un bollettino militare dietro l’altro e a un certo punto della sera vedrà salire alla tribuna davanti ai delegati – tutti in piedi – quel Lenin arrivato da anni di esilio, da mesi di latitanza, da ore di travestimento, da una frenesia rivoluzionaria cresciuta nella letteratura, nelle strade, nelle galere. Tutti si spingono per guardarlo, molti lo vedono per la prima volta. È lui il Capo, ha conquistato il suo partito, attraverso il partito ha controllato il Soviet, muovendo il Soviet ha preso il Paese. Adesso che ha vinto, fa una promessa. «Un periodo nuovo comincia nella storia della Russia. Le masse oppresse creeranno un loro governo, l’antico apparato statale sarà sradicato. Questa terza rivoluzione russa dovrà portare all’edificazione dello Stato proletario socialista».
A brandelli, deformata dalla paura, ingigantita dal vuoto politico del Palazzo d’Inverno, l’eco di quelle parole arriva fino alla Sala di Malachite dove siede un governo rassegnato, esaurito, so- prattutto decapitato, con il suo Capo in fuga. Era la sala che chiudeva gli appartamenti della Zarina, quella in cui il giorno delle nozze le principesse imperiali apparivano allo sposo, tra le colonne verdi e i fregi dorati. Privato di ogni forza, in quelle stanze regali il potere legittimo sembra diventato abusivo, esangue. Perso il controllo del sistema, i ministri divengono spettatori di quel che sta accadendo, seguono dalle finestre i movimenti sulla Neva dell’incrociatore che spunta dal Baltico, scortato da due cacciatorpediniere che si aggiungono alle cinque navi da guerra arrivate nella notte. Per la seconda volta in otto mesi la città precipita nello spettacolo della rivoluzione con i caffè chiusi, i negozi che non riaprono il pomeriggio, i tram fermi, primo fra tutti il “9” che collega il centro allo Smolnyi, e non sa più dove andare.
Nella confusione generale, mentre arriva la sera e manca ancora l’ordine di assalto al palazzo, l’inerzia della storia decide da sola. Gli insorti sono padroni del Campo di Marte, sgombrano i viali del lungofiume, si affacciano all’Arco di Trionfo quando suonano le otto. Appena si capisce che anche lo Stato Maggiore si è arreso, i domestici scappano dalla casa del governo, gli ufficiali si disperdono per le scale, i corridoi e le cantine. Impaziente, l’”Aurora” che da ore tiene sotto mira il palazzo esplode un colpo a salve che risuona nella città in attesa come la fine della storia, l’inizio di un’altra epoca. Il fascio delle fotoelettriche dell’incrociatore passa e ritorna, sembra voler frugare le stanze denudandole di ogni potere residuale, per rivelarle spoglie. I ministri sono ombre. Si spostano nella piccola sala da pranzo che dà sul cortile, più sicura, ma si sentono intrappolati, privi di ogni potere, inutili. Salta anche la luce, e l’agonia si compie alla luce delle candele, tremolando. Nel buio quindici, venti Guardie Rosse riescono a entrare nel palazzo, gli junker provano a resistere, ci sono colpi di fucile, gli insorti lanciano due granate dalla galleria. Ormai sono entrati in ottanta, subito arrivano a più di cento. Gli junker e il battaglione femminile escono nel cortile posando le armi, con le mani sollevate. È la resa.
Mancano cinque minuti alle due di notte, quando i marinai salgono lo scalone verso la sala di Malachite, guidati personalmente da Antonov- Ovseenko. In quel momento un allievo ufficiale entra nella sala da pranzo dove si sono rifugiati i ministri. «Noi siamo pronti a difendervi fino all’estremo, ma quali sono i vostri ordini?». «Ormai non servono ordini – è la risposta – tutto il palazzo è occupato, voi siete l’ultima guardia. Niente sangue, ci arrendiamo». L’ultimo governo provvisorio si siede intorno al tavolo, come in una fotografia controluce dell’Ottobre o in una seduta spiritica. Quando la porta si spalanca ed entrano i marinai, cercano Kerenskij e capiscono che le voci di fuga erano vere. Parla Antonov: «Vi dichiaro in arresto, a nome del Comitato Militare Rivoluzionario». «Noi ci arrendiamo per evitare il sangue», risponde il ministro dell’Industria, Konovalov. «Proprio voi? Ne avete versato abbastanza». «Non è vero, non abbiamo fucilato nessuno». «Si faccia il verbale dell’arresto», conclude Antonov. Un timbro russo, come sempre, trasforma la realtà in storia, e compie la rivoluzione. Sulla specchiera a destra, cent’anni dopo, l’orologio segna ancora oggi l’ora in cui il secolo ha curvato il suo percorso, le 2,10 di quella notte.
Manca soltanto lui, sul gran teatro del ’17. Aleksandr Kerenskij. È sul treno per Pietrogrado da Ostrov (dove ha provato a radunare i cosacchi per attaccare le Guardie Rosse nella capitale) quando gli arriva la notizia che Palazzo d’Inverno è caduto e i ministri sono in carcere nella fortezza. Il governo è lui soltanto, è ormai un’illusione, addirittura una finzione. Comandante in Capo dell’esercito, a Pskov si è reso conto che non poteva nemmeno più trasmettere ordini al fronte, perché il comitato rivoluzionario del posto piantonava i telefoni. Sulle colline di Pulkovo tenta l’ultimo sfondamento ma i 700 cosacchi si trovano davanti gli uomini di Kronstadt, non passano, devono ripiegare su Gatcina, dove i generali chiedono di trattare la pace con Lenin. Vinner, l’aiutante di campo, entra nella stanza di Kerenskij al primo piano del castello di Paolo I, e lo avverte che stanno per consegnarlo ai bolscevichi. Lui pensa di spararsi alla testa, per non arrendersi. Poi il 31 ottobre lo camuffano da marinaio, gli calzano un berretto coi nastri, gli infilano gli occhialoni da automobilista e riescono a scappare dalla porta cinese sul cortile.
Corrono in macchina cercando di precedere la sventura, tengono pronte le bombe a mano sul sedile posteriore, prendono un sentiero che li porta a un rifugio nella foresta. In slitta Kerenskij raggiungerà Novgorod stringendo l’immagine sacra che porta al collo, si nasconderà in un manicomio, entrerà in incognito a Piter, arriverà in Finlandia, passerà da Mosca e infine partirà per Londra con un incrociatore francese da Murmansk: appena salito a bordo, come se rientrasse in una dimensione borghese, chiederà un barbiere. Si era lasciato alle spalle una lettera aperta al popolo russo: «Sono io, Kerenskij, che vi parlo: una banda di pazzi, mascalzoni e traditori ha soffocato la libertà, ha tradito la rivoluzione e ha fatto di voi degli assassini. Se siete ancora esseri umani, aprite gli occhi».
Il Capo di quella “banda”, come la chiamava Aleksandr Fedorovic, era ormai il Capo del Paese. Lenin si disinteressò subito di Kerenskij, e anche del Palazzo d’Inverno, non entrò nemmeno nell’appartamento dell’Imperatore dove l’ex Primo Ministro aveva voluto dormire. Il potere adesso stava in quella stanza col tramezzo allo Smolnyi, dove oggi ho trovato il letto da una parte, pronto, la scrivania dall’altra con la famosa lampada verde, il calamaio e la carta assorbente intatta, come se dovesse ancora asciugare la lista dei ministri, anzi dei “Commissari del popolo”, che lui scrisse proprio qui. Quando li vide qui insieme, nelle ore della rivoluzione, la moglie di Trotzkij pensò che Vladimir Ilic e Lev Davidovic si muovevano come due sonnambuli, coi colletti sporchi, la barba lunga, sembravano automi che non si fermavano da giorni, pareva che dessero gli ordini dormendo.
In fondo era vero. «Sapete – confidò Lenin a Trotzkij il primo giorno – dopo le persecuzioni, dopo l’esilio, dopo essere stati fuorilegge, quando arriva il potere…, ebbene, es schwindelt, vengono le vertigini». Fuori da quella stanza, oltre lo Smolnyi, al di là di Pietroburgo, era tutta la Russia che stava entrando nella vertigine dell’Ottobre, lunga quasi come il secolo. ©RIPRODUZIONE 
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Cronache di una rivoluzione /12
Il massacro dei Romanov Lo zar e la sua famiglia furono trucidati nella notte fra il 16 e il 17 luglio del 1918 a Ekaterinburg, negli Urali L’ultima puntata del viaggio nella storia di Ezio MauroEZIO MAURO Rep 18 10 2017
EKATERINBURG Gli ultimi a vederli vivi, a parte gli assassini, sono stati l’arciprete Storozev e il diacono Buimirov, che portava l’acqua santa. Il pope arrivò alle 10 e mezza, passò dalla stanza del comandante, c’erano bottiglie vuote, un giaccone nero di pelle, pane secco col burro e semi di girasole per terra, nella puzza molle di makhorka, il tabacco di scarto dei soldati. Nel corridoio un fuciliere portò il fuoco per accendere l’incenso, e fu attraverso il fumo benedetto che il pope, mentre indossava i paramenti sacri e si lamentava della sua pleurite, vide tutta la famiglia in attesa, nella stanza grande della “Casa a destinazione speciale”. Lo zarevic Aleksej era sulla sedia con le grandi ruote, accanto alla madre e all’ex Zar in piedi, dietro le quattro sorelle con ciò che restava di una Corte spodestata, miniaturizzata e prigioniera: il medico imperiale Botkin, il lacché Trupp, Anna Demidova cameriera della Zarina e lo sguattero Sednev. In un angolo, il comandante Jurovskij e quattro soldati, gli unici che non baciarono la croce. Alla fine, invece di recitare la preghiera prevista dalla liturgia («Che le anime dei morti riposino in pace presso i tuoi santi») il diacono per errore iniziò a cantarla, come nelle funzioni per i defunti. Quando l’arciprete si voltò trovò tutta la famiglia in ginocchio, col capo chino. «Oggi», disse padre Ivan tornando in parrocchia, dopo aver regalato alla Zarina il pane benedetto, «c’era qualcosa di strano in quella casa. Nessuno di loro ha cantato». Quella dei morti fu l’ultima preghiera che ascoltarono. Due notti dopo, tra il 16 e il 17 luglio 1918, li avrebbero ammazzati tutti, a colpi di pistola e baionetta.
Il furioso 1917 della Russia, che era incominciato l’anno prima a dicembre con l’assassinio di Rasputin (un’altra notte tra il 16 e il 17) viene dunque a compiersi qui, nel 1918 e negli Urali, tra l’odore di ferro delle miniere coi carrelli che scendevano sulle rotaie a cercare oro e platino, e la puzza di torba bruciata nelle praterie sul bordo della foresta, davanti alla montagna dei Sette Fratelli. Qui era finito il peregrinare dello Zar, rovesciato dalla rivoluzione di Febbraio che gli ha tolto la corona, braccato dalla rivoluzione d’Ottobre che gli darà la morte.
Il nuovo potere bolscevico aveva scaraventato fuori dalla sua casa l’ingegner Nikolaj Ipatev in poche ore, ammucchiando i suoi beni personali nella dispensa del seminterrato, vicino alla stanza della morte. La palazzina doveva diventare in pochi giorni l’ultima residenza dell’ex famiglia imperiale. Una palizzata molto alta, alla siberiana, fu costruita in fretta attorno all’intero edificio, per nasconderlo. Poi fu innalzato un secondo recinto più interno con tre garitte, le postazioni per due mitragliatrici e 54 uomini di guardia, scelti nelle officine di Sysertsk.
L’uomo che arriva alla stazione di Ekaterinburg alle 8,40 del mattino in una divisa da colonnello, senza più le mostrine imperiali, è sballottato da quattro giorni di viaggio di cui i primi due – da Tobolsk a Tjumen – in “tarantass”, quel guscio su due pali e senza molle che scorre sul ghiaccio marcio del disgelo trainato dai cavalli. Lo Zar era a Tobolsk dall’agosto del ’17, quando tutta la famiglia dovette lasciare all’improvviso il palazzo imperiale di Zarskoe Selo, dove d’inverno spaccava il ghiaccio nella chiusa del ruscello, d’autunno faceva legna, la sera leggeva a voce alta ai ragazzi Le mystère de la chambre jaune. Con Aleksej che diventa tutto rosso quando un soldato sbarra la porta allo Zar: «Mio colonnello, non si passa».
Poi era venuto Kerenskij e aveva spiegato che per ragioni di sicurezza era urgente partire, tutti, subito. Sono andato nel bosco per vedere l’uscita secondaria, sotto la sala rotonda, dove due automobili li aspettavano alle 5 e un quarto di un mattino magnifico d’agosto. Mentre caricavano i bagagli, il vecchio conte Benkendorf si congedava, e per la prima e l’ultima volta dopo la caduta della monarchia Nikolaj stava abbracciando nello studio suo fratello Mikhail. Kerenskij assisteva in poltrona tappandosi le orecchie in una finzione di libertà, e i due fratelli che avevano rinunciato allo stesso trono si scambiavano le prime parole dopo sei mesi, con lo Zar che teneva tra le dita il bottone del mantello del Granduca, come per non lasciarlo andare.
Per Tobolsk era partito un seguito di 45 cortigiani, tra medici, cuochi, staffieri, valletti, uno scrivano e il barbiere personale di Nikolaj. Anche qui, una vita a raggio ridotto, ma sopportabile. Nelle belle giornate siberiane si stava seduti al sole contro il tetto di vetro della serra, si organizzava l’orto, si costruiva la montagna di ghiaccio per i ragazzi a meno 37, quando l’acqua gela nel secchiello passando dalla cucina al giardino.
Poi viene l’Ottobre. Prima i ragazzi trovano sull’asse dell’altalena un disegno osceno con la Zarina e Rasputin. Poi ogni membro della famiglia imperiale viene sottoposto alla “razione del soldato”. Quindi il commissario bolscevico Jakovlev annuncia che deve portare via subito tutti da Tobolsk, ma poiché Aleksej non può muoversi partirà solo con l’ex Zar. Alix impazzisce, teme che i bolscevichi vogliano fargli controfirmare la pace con la Germania. La Zarina ha il figlio malato e indebolito, il marito prigioniero e debole.
La paura. Gli inganni Le privazioni. La fine Così la famiglia reale trascorse le ultime ore
Un ordine nella notte “Volevano liberarvi ora vi fuciliamo tutti”
EKATERINBURG GLI ULTIMI a vederli vivi, a parte gli assassini, sono stati l’arciprete Storozev e il diacono Buimirov, che portava l’acqua santa. Il pope arrivò alle 10 e mezza, passò dalla stanza del comandante, c’erano bottiglie vuote, un giaccone nero di pelle, pane secco col burro e semi di girasole per terra, nella puzza molle di makhorka, il tabacco di scarto dei soldati. Nel corridoio un fuciliere portò il fuoco per accendere l’incenso, e fu attraverso il fumo benedetto che il pope, mentre indossava i paramenti sacri e si lamentava della sua pleurite, vide tutta la famiglia in attesa, nella stanza grande della “Casa a destinazione speciale”. Lo zarevic Aleksej era sulla sedia.
Sceglie di stare con l’Imperatore: «È lui adesso che ha più bisogno di me», dice a monsieur Gilliard affidandogli il ragazzo. «In due saremo più forti». Arriveranno a Tjumen – Nikolaj, Alix e la figlia Marija – dopo la partenza alle 5, il fiume Tobol attraversato a piedi su assi pericolanti, quattro cambi di cavalli. Il penultimo nel villaggio di Pokrovskoe dov’è nato Rasputin, con tutta la famiglia del Santo Diavolo che guarda la coppia reale dalla finestra con quegli stessi occhi, mentre Alix ricorda la profezia: «Infine vedrete la mia casa e la mia gente». Lo starez li assiste, ne è sempre più convinta. In realtà attorno agli ex sovrani non si muovono fantasmi, ma una partita politica sui corpi imperiali, con Mosca che vuole lo Zar per un processo all’assolutismo (Trotzkij si candida al ruolo di grande accusatore) e i bolscevichi degli Urali pronti a un colpo di mano sulle rotaie per impadronirsi del trofeo più simbolico della rivoluzione. Finché il Cremlino capisce che conviene cedere, e guidare da Mosca la mano dei carcerieri locali.
Dopo che un anno prima il governo inglese aveva ritirato la proposta di asilo ai Romanov, adesso è Cristiano X re di Danimarca che chiede al Kaiser di aiutarli, firmata la pace. «Non posso rifiutare la mia compassione », è la risposta, «ma un aiuto diretto mi è impossibile». Quando entra nella “Casa a destinazione speciale” a Ekaterinburg Nikolaj è dunque abbandonato dal mondo, solo di fronte al suo destino. Misura subito le quattro stanze a disposizione della sua famiglia, ancora divisa. Le trova belle, pulite, sia la camera d’angolo col grande letto che la sala da pranzo con le finestre, e il salotto arcuato senza le porte.
Ma dovrà accorgersi subito che il regime carcerario si è fatto più pesante. Prima che vengano disfatti i bagagli, il commissario e l’ufficiale di guardia procedono a un’ispezione minuziosa. Hanno visto che nelle lettere la Zarina e le figlie insistono sulle “medicine”, capiscono che è un codice familiare per alludere ai gioielli, temono che sotto i loro occhi si camuffi il mitico tesoro della Corona. Quando aprono anche i flaconi della farmacia portatile di Alix, lo Zar sbotta: «Finora abbiamo avuto a che fare con gente onesta e beneducata, smettetela». Gli risponde Boris Didkovskij, uno dei capi del Soviet: «Vi ricordo che siete sotto inchiesta e in stato d’arresto. Voi non date più ordini a nessuno ».
Un mese dopo anche lo zarevic e le tre sorelle rispondono al comando del destino ed entrano nella casa Ipatev per l’ultimo atto. Ma Aleksej si fa male al ginocchio già la prima sera, subito torna l’angoscia. E Olga, Marija, Tatjana e Anastasija si accorgono che al loro stesso piano vivono 19 soldati delle officine Zlokazov, c’è una guardia fissa davanti all’unico bagno, la porta della loro camera non si può chiudere, la tavola non ha tovaglie, ci sono in tutto cinque cucchiai, con l’intendente Adveev che prende bocconi di cibo dai loro piatti con le mani. La sera, anche tardi, le costringe a suonare per i soldati il pianoforte a coda Bekter che oggi trovo nel Patriarcato, perfettamente accordato, dopo che ha attraversato il caos del 1917 arrivando fin qui, non si sa come ma in tempo per l’ultima musica prigioniera.
Della Corte sono rimasti soltanto in cinque nella casa del destino. È una vita rarefatta, per sottrazione. Si può uscire in giardino, tra i tigli, solo per un quarto d’ora e una volta al giorno. È vietato ogni esercizio fisico. Un vecchio imbianchino entra nelle stanze dei Romanov con secchiello e pennello e passa una mano di calce sui vetri di tutte le finestre. Adesso anche la luce è prigioniera. Alix taglia i capelli a Nikolaj per l’ultima volta, cenano alla luce di una candela perché salta l’elettricità, con tutti i fili volanti dei campanelli per l’allarme che finiscono nella stanza del comandante.
Ma è al Cremlino – dove Lenin si è spostato col suo governo a marzo del 1918 – che si decide la fine. Tra due mesi il Soviet decreterà il Terrore, «rispondendo col terrore rosso di massa alla borghesia e ai suoi agenti». La prima fiammata si accende qui, a Ekaterinburg. Il commissario militare degli Urali va a incontrare a Mosca Jakov Sverdlov, intimo di Lenin e presidente del Comitato esecutivo. La bande “bianche” cecoslovacche si avvicinano alla città: anche se non hanno nessun piano di restaurazione monarchica, sono un’occasione da sfruttare per coprire il massacro. Il partito degli Urali si assumerà la responsabilità materiale dello sterminio dei Romanov, col comando del Cremlino. La decisione è presa.
Mosca vuole solo uomini esperti sul campo dell’azione. L’intendente Adveev è sostituito col telegramma numero 4.558, al suo posto arriva il commissario della Ceka Jurovskij, con dieci cekisti scelti tra i prigionieri di guerra tedeschi e ungheresi: parlano poco il russo, non rispondono ai prigionieri che tra loro li chiamano “lettoni”. Aprono una finestra nella casa, quasi per spingere la famiglia alla fuga, pensando a un’imboscata. Per due giorni la Zarina trova un messaggio in un francese incerto, nascosto nel tappo del latte che arriva ogni mattina col burro e la panna dal monastero di Santa Caterina: la firma è di “un ufficiale” che annuncia «l’ora della liberazione vicina». L’imperatrice dubita, spera, sospetta. Lo Zar si smarrisce nell’attesa, al punto da descriverla nel diario giovedì 27 giugno: «Notte inquieta, abbiamo vegliato vestiti, perché abbiamo ricevuto due lettere che ci dicevano di prepararci a essere rapiti da persone a noi fedeli. Ma i giorni passavano, e non succedeva niente».
La spiegazione è chiusa nel monastero di Santa Caterina, raccolta cent’anni fa da suor Magdalina la veggente, da Avgustine nelle cucine, tramandata da una madre superiora all’altra fino a Evstafija Morozova, che oggi me la racconta. Le due novizie di 19 e 29 anni, Antonina e Marija, che erano ammesse ogni mattina in abiti borghesi alla “Casa a destinazione speciale” col cibo per i reali, dovevano lasciare il cesto nell’anticamera ai cekisti. Non c’era nessun “ufficiale”, nessun francese. Quei falsi messaggi erano stati scritti da Petr Vojkov, dirigente del Soviet, coi ricordi del francese di Ginevra, all’Università. Nessun altro si era mai avvicinato al cibo, il compito delle suore era sempre uguale, salvo una notte quando dalla casa chiedono del rum per lo zarevic raffreddato e il mattino prima della fine, quando il comandante ordina al convento 50 uova e 5 litri di latte, perché gli uomini dopo il massacro avranno fame.
Tutto precipita, tutto è pronto, anche la fabbricazione del falso complotto. Siamo alle ultime ore. Mentre Aleksej fa il primo bagno, ancora con il ginocchio gonfio, Vojkov manda i suoi uomini in farmacia e all’emporio con l’ordine di requisire 175 chili di acido solforico e 300 litri di benzina. Il comandante Jurovskij è ossessionato dalle “medicine” e ordina alla Zarina di sigillare i gioielli in un cofanetto. L’ultimo giovedì tre operai portano in casa una grata pesante, la saldano all’unica finestra aperta, sbarrando le ore finali dei Romanov dietro un’inferriata. Infine, il segnale conclusivo: lo sguattero di cucina Leonid Sednev, che è un ragazzo, viene allontanato dalla casa.
Cosa capiscono i reali? Non sanno che l’ordine di uccidere tutti i Romanov è eseguito in quelle ore dovunque si trovino. La notte del 25 giugno a Perm il fratello dello Zar, Mikhail, viene prelevato col suo segretario Johnson all’albergo Korolev da tre uomini che lo portano in “destinazione sconosciuta”, dove verrà giustiziato come altri Granduchi, come la granduchessa Elizaveta Fedorovna, sorella dell’Imperatrice. Nella casa Ipatev la famiglia dello Zar non ha notizie ma avverte che tutto sta infine per compiersi. «Lo sposo si avvicina», scrive Alix. L’ultima lettera del dottor Botkin è senza illusioni e senza rimpianti: «In sostanza io sono morto, ma non ancora sepolto. O meglio, sepolto vivo».
Arriva quella notte, martedì 16, quando Jurovskij fa portare nel seminterrato 14 pistole nuove, testate due giorni prima. Ha ordinato di sgombrare la stanza con la volta bassa, un’unica finestrella sul cortile, la carta da parati con piccoli quadrati scoloriti. Nello stanzone di fianco adesso entrano i dieci “lettoni” che con il Comandante avranno un bersaglio ciascuno da abbattere, la raccomandazione è di mirare al cuore. Nel cortile l’autista Serghej Lukjanov ha accostato un camion Fiat all’ingresso, con l’ordine di soffocare col motore il rumore degli spari. Sopra, al primo piano, come se fosse una sera qualunque lo Zar gioca l’ultima partita a carte col dottore, Aleksej è stanco ed è già sdraiato in camera. Tatjana legge alla madre il libro del profeta Amos che parla di chi «ha bruciato le ossa del re/ per ridurle in calce». Alle 10 e mezza si spengono le luci nella “Casa a destinazione speciale”. Ci sono 15 gradi nel buio, e nell’eco di fucilate lontane.
È mezzanotte quando Konstantin Dobrinin, la guardia, bussa dicendo ai prigionieri che c’è pericolo di un assalto, devono alzarsi subito. La famiglia scende la scala, seguita da ciò che resta della Corte, quattro persone, il dottor Botkin, la cameriera della Zarina Anna Demidova che porta con sé due cuscini, il cuoco Ivan Kharitonov, il lacché Aleksej Trupp. Nikolaj tiene in braccio Aleksej, padre e figlio hanno il cappello militare con la visiera, le ragazze – Anastasija porta con sé lo spaniel Joy – lunghe sottane nere con i corpetti di seta bianca, Alix ha cucito i gioielli dovunque, nascondendoli sotto i bottoni, nelle stecche dei corsetti, dentro i colletti delle giacche: adesso chiede una sedia, ne portano tre. Jurovskij, che ha fatto il fotografo in gioventù, li dispone a ventaglio, in modo che non si sovrappongano.
Esce, rientra con gli uomini, ha un foglietto: «Nikolaj Aleksandrovic, i vostri hanno tentato di liberarvi, e per questo motivo dobbiamo fucilarvi tutti ». Lo Zar sembra non intendere: «Come? Come?» sono le sue ultime parole. Mentre Alix e Tatjana si fanno un segno della croce, Jurovskij punta la Nagant addosso a Nikolaj, lo colpisce alla carotide poi lo finisce da un passo, quindi spara alla testa di Aleksej gettandolo a terra. Intorno la carneficina impazza: Alix crolla sul dorso, Anastasija si muove carponi e viene finita a colpi di baionetta, come la Demidova che si è riparata dietro i cuscini, mentre Trupp il lacché cade in ginocchio, Olga a Marija muoiono subito, Botkin è colpito al cuore, Tatjana alla nuca, il cuoco riesce a lanciare un’ultima maledizione. Un colpo col calcio della pistola spezza il cranio del cane.
Fumo, sangue, il camion Fiat che ansima davanti alla finestra nel cortile. Adesso hanno fretta, devono avvolgere gli 11 corpi nelle coperte strappate ai letti di casa, caricarli sul camion. Ma prima c’è la caccia ai gioielli, orologi strappati dal polso, anelli dal dito, braccialetti, brillanti nascosti negli abiti, una piccola icona da tasca. In piena notte il camion col suo carico di cadaveri appare nel vicolo Voznesenskij, accende i fari, va verso la foresta, attraversa la linea di separazione tra l’Asia e l’Europa (dove oggi c’è un cippo) e arriva a Ganina Jama. Qui, nei “buchi della terra” come dice il nome, tagliano a pezzi i corpi alla luce delle lanterne gialle, li sfigurano con l’acido sui volti, poi li bruciano.
Cent’anni dopo 5 gigli bianchi crescono a fatica nella fossa, circondata dal legno del monastero dei Santi Martiri Reali, con 7 chiese per i 7 Romanov uccisi a Ekaterinburg. Pochi chilometri più in là, c’è il luogo dove hanno sotterrato le ossa e le ceneri. Una pedana di legno con le traversine del treno e una croce per Lo Zar, Alix, Olga, Tatjana e Anastasija. A pochi metri un quadrato di terra in pieno bosco, con due rose bianche e pochi mughetti segna la sepoltura di Marija e di Aleksej, lo zarevic infelice. Non c’è un turista, nemmeno un curioso. D’altra parte il vero monumento al massacro, la “Casa a destinazione speciale”, non esiste. Ripulita in fretta dai soldati, riconsegnata a Nikolaj Ipatev il 21 luglio, è stata distrutta nel 1977 e al suo posto adesso c’è la “Cattedrale sul sangue”, con il secondo altare che cresce proprio sopra la stanza maledetta, il pozzo originario intatto, brandelli sparsi dalla scena del delitto: la carta annonaria di Nikolaj, un pezzo del mancorrente della scala, la maniglia d’ottone della stufa, un dente da latte di Aleksej, che Alix conservava in un anello.
Qui tutti per cent’anni sapevano dov’erano i corpi reali, da quando il 20 luglio del 1918 il Presidium del Soviet degli Urali aveva affisso un manifesto ai muri di Ekaterinburg: «Poiché le truppe cecoslovacche minacciano la città e il boia coronato può sfuggire al tribunale del popolo (un complotto di guardie bianche per rapire tutta la famiglia Romanov è appena stato scoperto) è stata decisa la fucilazione dell’ex Zar, e la decisione è stata eseguita la notte tra il 16 e il 17 luglio. La famiglia Romanov è stata trasferita in un luogo più sicuro».
Nessuno parlava. Finché, caduto il comunismo, riemergono dal sacrario del bosco le poche ossa che hanno consentito un riscontro con il Dna, per arrivare prima alla certezza che i resti erano dei Romanov e poi alla loro canonizzazione come “martiri imperiali portatori di passione”, infine – il 17 luglio ’98 – ai funerali di Stato nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, che ospita i sarcofaghi storici degli Zar. Sono entrato nella cappella, dove finisce questo lungo viaggio nella Russia delle due rivoluzioni. Non ci sono candele, nemmeno un cero, e le donne che lucidano il marmo delle cripte con i cinque resti – Nikolaj, Alix, Olga, Tatjana, Anastasija – spiegano che per la luce e la fiamma si attende che arrivino qui finalmente anche Marija e Aleksej, adesso che il Dna li ha riconosciuti togliendoli dal nulla e dalle leggende: che per anni facevano vivere nella foresta l’erede scampato al massacro, oppure a Grudzionka, o nel castello di un conte polacco, infine a Omsk dove un generale lo mostrò al vecchio precettore Gilliard, che lo interrogò inutilmente in francese, mentre la gente intorno offriva pane e sale.
Davanti alle tombe imperiali le vecchie aspettano: i resti o l’apparizione. Non è forse stata recuperata la croce dei Romanov, che all’interno ha le reliquie di 40 santi? Tutto è possibile. E non è tornata al suo posto l’icona della Madonna del Nord, che faceva ricrescere le mani mozzate? Tutto può ancora accadere. Mentre i ragazzi intorno scattano le foto col telefonino come a un concerto, indifferenti, loro ripetono che passerà il tempo finché lo Zar potrà ancora mostrarsi alla sua gente. E allora dalle terre lontane dell’Oriente l’imperatore verrà, uscirà dal bosco e dal mistero, giungerà fin qui con la sposa fedele davanti all’acqua della Neva.
La storia sembra finire e ricominciare qui, dove si è generata la grande epoca, in una città mobile come l’acqua che l’attraversa, dentro una fortezza, davanti a un altare, in un sepolcro. Ma basta uscire nell’aria chiara di San Pietroburgo per ritrovare gli altri spettri di quell’anno implacabile e crudele. Stalin e Kerenskij, Trotzkij in piedi davanti alla mappa della capitale che sta per conquistare, Rasputin che si muove di notte, mesi prima, tra gli zingari e i canali per raggiungere la sua fine nel palazzo del principe. Poi le case fantasma dove cent’anni fa scrivevano Blok e l’Akhmatova, da dove partivano per sempre Nabokov e la Berberova, dove Zinaida Gippius guardava dalla finestra la rivoluzione. Infine un’altra sepoltura, al centro della piazza Rossa a Mosca, con Lenin da quasi un secolo trasformato in mummia nella pretesa di imprigionare il passato e il futuro nell’eternità della rivoluzione, dilatando all’infinito il ’17.
Cent’anni dopo quell’eternità è infranta, l’infinito è rientrato nel secolo. La mummia si è fatta uomo.
12. Fine © RIPRODUZIONE RISERVATA

LE PUNTATE PRECEDENTI
Le puntate precedenti di Cronache di una rivoluzione sono uscite il 9 dicembre 2016, il 13 gennaio, il 3 febbraio, il primo marzo, il 3 aprile, il 13 maggio, il 16 giugno, il 15 luglio, il 4 agosto, il 6 settembre e il 4 ottobre scorsi
IL DOCUFILM
Cronache di una rivoluzione è anche un docufilm. La dodicesima ma puntata è online su Repubblica. it

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