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8) Gli intellettuali traditi Uomini e donne della San Pietroburgo letteraria, cresciuti nel culto del popolo, sono in un primo tempo sedotti e poi colpiti duramente dai fatti del 1917
EZIO MAURO Rep 15 7 2017
SAN PIETROBURGO Doveva essere un’eco terribile, che risaliva dal profondo della storia russa, il rumore dell’acqua che batte nelle fondamenta del bastione Trubezkoj, sotto il livello della Neva, e il rimbombo della campana sulla fortezza che sembra chiamare a un funerale tutto il giorno e anche di notte, quattro volte ogni ora. Usciti i bolscevichi, nelle celle rettangolari erano entrati i dignitari dello Zar, presidenti del Consiglio, ministri, ciambellani, dame di Corte, capi della polizia, e adesso dovevano muoversi tra un letto di ferro, un secchio, un minuscolo lavandino grigio, un tavolo con l’unica sedia. Mi sono affacciato allo spioncino di legno delle celle, per inquadrare il ribaltamento del mondo avvenuto proprio qui cent’anni fa: quando il conte Frederiks, generale, cavaliere dell’Ordine dei Serafini e ministro di Corte si sedette su questo pagliericcio, passando in poche ore dal palazzo imperiale alla rivoluzione, talmente in fretta da precipitare subito e per sempre nella demenza senile. A quello stesso spioncino il mattino del 19 maggio arrivò Aleksandr Blok con i suoi capelli folti, il colletto alto, l’amore russo per le poesie che lo circondava e lo accompagnava per tutto il Paese, convinto che lui scrivesse i suoi versi direttamente davanti a Dio. A 37 anni, era il più grande poeta russo di un’epoca di ferro, come l’aveva definita sporgendosi “su quell’abisso cupo e solitario che si chiama Pietroburgo”. Faceva sogni profondi come presagi, da cui ricavava l’immagine “di una terribile oscurità, con questa nube minacciosa che ci viene incontro”, mentre “l’Anima del mondo si vendica su di noi, che custodiamo moltissimo presente e solo una goccia di futuro”, per veder giungere infine sulla Russia “un fuoco tranquillo, che si diffonde a consumare tutto”.
Proprio quel fuoco lo ha portato qui, nella fortezza di Pietro e Paolo, prigione di tutte le Russie, chiunque comandi. È il segretario della Commissione straordinaria d’inchiesta sui crimini zaristi e prima degli interrogatori visiterà le celle dei trenta prigionieri, fermandosi sull’ex Capo del governo Goremykin che sonnecchia col pomello d’oro sul bastone nero e i pantaloni a righe, respirando a fatica col suo grosso naso, sull’ex ministro degli Interni Protopopov in calzoni corti e lo sguardo infantile disorientato, sulla favorita della Zarina Anna Vyrubova (le faranno una visita ginecologica per accertare che non sia stata anche l’amante dello Zar) che si regge con una stampella mentre getta le sue carte stracciate nella padella. Odore di latrina identico in tutte le celle, la stessa luce metallica al chiuso, l’angelo dorato sulla guglia che spunta all’angolo della finestra, mentre l’orologio a carillon della fortezza suona le dieci.
Solo la Russia, che per ripararsi dalla tragedia trasforma in leggenda la realtà mentre la sta vivendo, poteva affidare a un poeta la stenografia in carcere dei verbali d’interrogatorio dell’impero sconfitto dalla rivoluzione. Il nuovo potere giudicherà: ma intanto Blok guarda, e se a Palazzo d’Inverno osserva indifferente la sala del trono con tutta la stoffa rossa strappata sui gradini, nella fortezza vede il vecchio Presidente del Consiglio che perde la memoria, il vicecapo dei gendarmi Kafafov che piange, l’ex capo della polizia Belezkij che tentenna davanti alle domande, nasconde le mani in tasca, ritrae le gambe. “Tutte queste persone – dirà – non le ho conosciute nello splendore del potere, le incontro oggi nell’umiliazione. Non ho una visione chiara di quel che sta accadendo, ma per volere del destino sono stato elevato a testimone di una grande epoca”. La conclusione è scritta nei suoi taccuini: “Non si può giudicare nessuno. L’uomo nell’ora del dolore diventa un fanciullo”.
Blok faceva sogni da cui ricavava l’immagine di una terribile oscurità Solo la Russia poteva affidare a un poeta i verbali degli interrogatori
Come molti scrittori, Blok aveva vissuto il Febbraio nel fragore futurista subitaneo, “come uno scontro tra due treni in piena notte, un ponte che si sfascia, una casa che crolla”. “È accaduto un miracolo – scriveva alla madre subito dopo la prima rivoluzione –, e ce ne possiamo aspettare altri”. “Se dobbiamo vivere – annotava con slancio una sera – ebbene, viviamo”. Poi, dopo un mese appena di interrogatori in carcere si accorgerà che i suoi nervi sono diventati “ottusi”, perché “tutti costoro, figli vivi e uccisi del mio secolo, dimorano in me”. Da qui la riflessione sulla democrazia, “non si può mai dimenticare che è cinta di tempesta”, la confessione intima (“è tutto talmente senza scampo, nell’anima e nel corpo c’è un indicibile peso, il denaro vola, la vita diventa mostruosa, turpe, insensata, depredano ovunque”), fino alla frase del rifiuto e della condanna sussurrata da un amico al telefono e riportata nel segreto del diario, di notte: “è ripugnante il paradiso socialista-piccolo borghese-bolscevico”. Poi la resa. Prima nell’anima della città: “Voci sulla chiusura di tutte le botteghe, mancano i generi di prima necessità, quello che c’è ha prezzi folli. Gelo, oscurità quasi completa. Un vecchio urla, morendo di fame”. Quindi si arrende l’anima del poeta: “Ormai non sono più in grado di lavorare sul serio, finché sul collo mi balla il cappio dello stato poliziesco”. Lui, l’autore dei Dodici, con le Guardie Rosse che marciavano guidate da Gesù Cristo, morirà per denutrizione, per esaurimento, ma soprattutto per la sua “asma spirituale”, come la chiama Andrej Belyj, delusione e angoscia. Non scriveva più: “Tutti i suoni sono cessati. Soffoco, soffochiamo tutti, anche la quiete e la libertà ci vengono tolte. E il poeta muore perché non ha più nulla da respirare, la vita ha perso significato”.
Ingigantita dalla sua figura e dal suono ipnotico dei suoi versi, la parabola di Blok è quella di gran parte dell’intellettualità russa, tradita e colpita dalla rivoluzione dopo essere stata sedotta: perché cresciuta nel culto del popolo, anzi con la missione di costruire nel popolo un’ideologia di ribellione al potere autocratico, tanto che Nikolaj II chiederà di cancellare dal vocabolario la parola “intellighentija”. Per questo i funerali del poeta segneranno la fine degli anni d’argento, l’inizio secolo delle avanguardie artistiche, tanto che per due settimane si parlò sottovoce nel retropalco dei teatri, nelle librerie sul lato illuminato dal sole del Prospekt Nevskij, al Club Artistico, al Circolo Musicale, alla Casa del Letterati, come se fosse morta una certa idea di Pietroburgo. Ho risalito le scale da cui il 10 maggio del ’21 Blok è sceso per l’ultima volta accompagnato dal canto funebre ortodosso, dal vento caldo che arrivava dal mare, da Belyj, Berberova, Achmatova, Zamjatin, in mezzo a centinaia di sconosciuti coi fiori e le candele in mano, richiamati dai versi senza più voce, come se la città non avesse più luce.
In quelle stesse ore, Anna Achmatova aveva saputo dell’arresto dell’ex marito, il poeta Nikolaj Gumilev, accusato di far parte dell’”Organizzazione Combattente di Pietrogrado”, e condannato alla fucilazione, nonostante le intercessioni e le richieste di grazia che a un certo punto fecero sbottare Dzerzhinskij, il Capo della polizia segreta, la Ceka: “Perché mai dobbiamo giustiziare gli altri e salvare un poeta”? Eppure all’inizio il Febbraio aveva trovato Piter dentro un sommovimento artistico senza precedenti, le due rivoluzioni sembravano parlarsi. Cinquecento film russi in produzione nell’anno fatale, il 1917, i primi attori dell’Aleksandrinskij che non ricevono più il portasigarette dorato dello Zar con l’aquila tempestata di diamanti ma vedono le orchestre che decidono di suonare senza direttore, i poeti di strada acclamati come maghi nel silenzio della sera, i pittori tra cubismo e futurismo che colorano gli alberi e trasformano le case in tele gigantesche. Per poi cominciare la notte in fondo a via Italianskaja al “Cane Randagio” (con le foto dei poeti appese al muro ancora oggi, tra i “bicchieri gelati sul tavolino e il vapore odoroso del caffè nero”), e continuarla alla Casa delle Arti dove vivevano insieme – bruciando d’inverno al fuoco del camino le vecchie carte della banca vicina – Mandelshtam, Chodasevic, Olga Forsh, e Nina Berberova a Capodanno ballava il fox trot nella sala degli specchi. Poi tutto, musica, letteratura, poesia e rivoluzione, andava a finire alla “Bashnja”, la Torre di Vjaceslav Ivanov che riceveva gli ospiti in guanti neri il mercoledì discutendo di Dioniso e di Cristo, mentre i poeti recitavano i loro versi fino all’alba, sporgendosi dai tetti per veder sfiorire il bianco della notte.
“All’assalto delle porte del paradiso/ noi avanziamo/ per gli altri abbiamo sfondato la porta” – cantava nei primi mesi della rivoluzione Vladimir Majakovskij che nel 1930 si sparerà un colpo di pistola al cuore dopo aver scritto il suo addio al “compagno governo” – “Più in alto, nostro vessillo/ falce, in un giunco di fiamma/ abbraccia il martello con l’arcobaleno del tuo arco”. “Voglio seguire l’epoca, il rumore e il germogliare del tempo”– aggiungeva Osip Mandelshtam, che morirà nel gulag nel ‘38 – “Mio secolo, mia belva, chi saprà guardare nelle tue pupille”? E Andrej Belyj spiegava convinto: “Come un colpo dal sottosuolo che tutto distrugge, arriva la Rivoluzione. Arriva come un uragano, che spazza via ogni forma, come una statua, una pietra, grandine, inondazione, cascata. Tutto batte oltre ogni limite, tutto è esagerato. La Rivoluzione si riversa nell’anima dei poeti, e da lì rinasce e riemerge nel colore azzurro del romanticismo e nell’oro del sole”. Ma Lenin diffidava, nonostante gli ardori poetici. Per lui gli intellettuali di Pietrogrado “non comprendono, non imparano, non dimenticano”, mentre l’energia culturale operaia cresce e si rafforza, emarginando l’intellighentija “che si crede il cervello della nazione, e invece è soltanto lo sterco della Russia”. Diceva che la letteratura “deve essere partigiana, la ruota e la vite della grande macchina del partito”: e per questo addirittura seguì da vicino gli studi del premio Nobel Ivan Pavlov sul riflesso condizionato, pensando di unire bolscevismo e scienza per modificare l’uomo, portando dopo i corpi anche l’anima dentro il vortice della rivoluzione.
In quel vortice del ’17 gli scrittori e i poeti russi erano finiti ad uno ad uno, sorpresi ognuno in un punto diverso della Russia e della vita, come sotto un uragano. A Boris Pasternak la notizia del Febbraio arrivò nel pieno dei suoi 27 anni, mentre correva su una slitta da Tichie Gory verso Mosca, dentro tre cappotti, affondato nel fieno, con tre cavalli che tiravano nella neve la “kibitka” coperta sui pattini. L’Ottobre per lui cominciò invece a Mosca, con una telefonata del cugino: si spara nel quartiere della Precistenka, è una vera battaglia, guai a uscire di casa. Poi era saltato subito il telefono, e Pasternak rimase isolato per una settimana, senza sapere nulla di ciò che accadeva in città ma sentendo il suono delle granate lanciate dall’Arbat, il sibilo delle pallottole come api nel cortile, il crepitio delle lampadine che lampeggiavano per spegnersi subito e infine l’incedere sordo e massiccio di un carrarmato che risaliva la strada: subito dopo, tornato un silenzio pauroso, lo scrittore che uscì nel suo cappotto studentesco di panno capì che la Mosca fin lì conosciuta era finita per sempre.
A Piter Zinaida Gippius – che fino a poche settimane prima riceveva vestita di bianco o di rosa, guardando gli ospiti dall’occhialino che reggeva con una stanghetta – viveva proprio davanti a palazzo Tauride, la sede della Duma, e dalle finestre chiuse per paura delle pallottole poté partecipare dall’alto alle convulsioni della rivoluzione. A Febbraio quello è l’epicentro del terremoto che scuote il Paese, passano davanti alla casa le fanfare dei reggimenti ammutinati, le prime bandiere rosse, i marinai dormono per strada, lo spazio davanti a Tauride e le vie vicine sono bloccate dalla folla, gli amici impiegano 5 ore per arrivare dalla stazione fin qui, dove quasi ogni sera sale il vecchio amico Kerenskij. Zinaida guarda: “Non posso cambiare nulla, ho solo la consapevolezza che accadrà. Le parole e le frasi, tutto ormai ha perso di significato. Gli uomini si sono stretti un cappio alla gola, c’è nell’aria un soffio di mistero. Come se guardassimo nell’acqua torbida, non sappiamo a quale distanza ci troviamo dal crollo”. Fuori, tram bloccati, giornali assenti, scuole chiuse, giardini sbarrati, “risplendono solo i teatri pieni zeppi e i falò delle truppe che bivaccano sulle strade”. Per la scrittrice “non è l’ora di pronunciare giudizi, è un momento terribile e insieme gioioso”. Poi ecco “gli aculei scintillanti” delle baionette, i soldati che sparano alle finestre, la fiaba che diventa “minacciosa e terribile”, su un terreno ardente. E a settembre, la profezia: “Kerenskij è un autocrate pazzo”, “i bolscevichi sono ottusi fanatici”. Poi un’ultima cena alla vigilia dell’Ottobre, frutta, baranki col cumino, vino georgiano. Quindi salta la luce, Zinaida sbarra le finestre, la strada è buia, lei scrive davanti a un mozzicone di candela. È “il potere delle tenebre: che il diavolo se li porti”.
Tutti i diavoli e i santi, dice Nina Berberova, avevano già deciso di convergere su Pietroburgo in quell’anno in cui ogni cosa sembrò precipitare di colpo: “Una folla felice, irata, esitante, un lampo che balena, lo sfacelo cruento, un patriottismo nocivo e a buon mercato, parole, parole e l’incapacità di fare alcunché”. Si stava sfasciando il vecchio ordine che il popolo disprezzava, ma si avvicinava la rovina di fasce intere di popolazione “perdendo due generazioni di intellettuali, un ce- to colto che verrà eliminato e che non si riuscirà a ricostruire nemmeno in 200 anni”. Per la scrittrice il ’17 è l’ultimo anno del ginnasio, ma anche della scoperta dei Dodici di Blok e del primo amore. In poche settimane passerà dal conforto di una casa borghese all’inferno di una povertà che non aveva mai conosciuto. Quando la famiglia, pochi mesi dopo l’Ottobre, si trasferisce a Mosca sente per la prima volta la miseria dei suoi 17 anni trascinati nella polvere e nell’afa del Bulvar senza amici, con l’ingresso nelle mense pubbliche, una stanza in coabitazione, il pomeriggio a guardare le salsicce sul marmo di un negozio in viale Smolenskij, l’umiliazione della fame, le focacce con la buccia delle patate, e nonostante tutto il conforto di vedere il paiolo con la minestra sul fuoco e di sapere che ci sono i libri alla biblioteca del Corso. Il ritorno a Piter è l’ingresso con le poesie in mano alla Casa dei Poeti, poi in quella “Nave dei folli” che è la “Casa dei Letterati”, il cappotto rivoltato e gli stivali cuciti col feltro della moquette per arrivare al Capodanno del ’22 “nella città mezza morta”, vino, musica, profumo di Houbigant“ e tutti presentivano che sarebbero stati oppressi, tormentati, che gli avrebbero tappato la bocca, costretti a morire o a abbandonare la letteratura”. Finché arrivano i passaporti numero 16 e 17 per lei e Chodasevic, il marito poeta, e si può partire.
Se ne andrà anche Vladimir Nabokov, una settimana dopo l’Ottobre, per paura di un arruolamento forzato. Si chiuderà alle spalle la casa dove oggi stanno riportando alla luce gli affreschi, al numero 47 di quella via Morskaja che metteva in fila l’abitazione del principe Oginskij al 45, l’ambasciata italiana al 43, quella tedesca al 41, per arrivare infine a piazza Mariinskij. Lui sente “l’alito ardente di straordinari sconvolgimenti, un sordo brontolio dietro le quinte” già nel 1915, quando con la sua prima ragazza, Tamara, gira per Pietroburgo in ghette bianche, ma con un tirapugni nella tasca di velluto. Dopo la prima rivoluzione, ascolterà la notizia della rinuncia al trono di Mikhail tra una lezione di scherma e un’ora di boxe con monsieur Loustalot. Prima, da bambino, c’è il bacio della madre attraverso la rete sottile della veletta, i gioielli custoditi in un tramezzo dello spogliatoio e che poi in esilio verranno nascosti in una scatola di talco per essere venduti a poco a poco, il gioco al mattino con Volkov l’autista, per capire se lo accompagnerà a scuola con la Benz o con la nuova Wolseley munita d’interfono, che sarà smontata e nascosta in campagna dopo la rivoluzione per paura della confisca. Il padre è segretario del Consiglio dei ministri nel primo governo provvisorio, la famiglia ha tre tenute di campagna, uno stemma araldico con due leoni, 50 persone a servizio, un valletto che sta in piedi tra i pattini della slitta guidata da Zachar, nel suo pastrano azzurro imbottito d’ovatta.
Tutto questo si rovescia fino a scomparire di colpo, quando i marinai bolscevichi vogliono arrestare Nabokov padre che riesce a scappare verso la Crimea con uno zaino che gli porta il cameriere Osip all’ultimo momento: tutta la vita che resta è ormai lì dentro, insieme con i sandwich al caviale del cuoco Nikolaj Andreevic. Svanisce la geografia familiare di Piter, la scuola, il negozio inglese sul Nevskij, cambiano a Jalta gli odori e i colori, è nuova anche la preghiera del muezzin ogni sera, il raglio di un asino al tramonto. Arriveranno fin qui i bolscevichi, e allora da Sebastopoli la famiglia Nabokov salperà per il Pireo, prima tappa dell’esilio, fino alla pallottola fascista che nel ’22 a Berlino ucciderà il padre, curvato per proteggere il suo maestro Miljukov. Per Vladimir Nabokov comincia la vita da émigré, che lui definirà di indigenza materiale e di lusso intellettuale: “Con pochissime eccezioni tutte le energie creative di orientamento liberale, poeti, narratori, critici, storici, filosofi, lasciavano la Russia di Lenin. Quelli che non lo facevano, o avvizzivano laggiù, o adulteravano il proprio talento uniformandolo ai dettami politici di Stato”.
Non tutti, o almeno non sempre. Maksim Gorgkij, amico di Lenin dal 1905, già nel giugno del ’17 coltiva una forte critica nei confronti dei bolscevichi. Prima nelle lettere private (“sono i veri idioti russi, li disprezzo e li odio ogni giorno di più”), poi in un articolo sul suo giornale, Novaja Zhizn: “Sia Lenin che Trotzkij non hanno nessuna idea di ciò che significhino la libertà e i diritti dell’uomo. Sono già intossicati dal malefico veleno del potere, come si capisce dalla condotta vergognosa decisa nei confronti delle libertà democratiche, a partire dalla libertà di parola fino alla libertà personale”. Gorkij polemizzerà con Zinovev, capo del partito a Pietroburgo, parlando di crimini vergognosi, con Dzerzhinskij, denunciando l’arresto delle migliori menti della Russia. Andrà all’estero, poi tornerà a ricevere gli onori del regime che gli ammazzerà il figlio, e finirà nel più ideologico cimitero sovietico, le mura del Cremlino. “Ha un talento artistico prodigioso – dirà di lui Lenin –, ma per quale motivo deve intromettersi nella politica”?
In quel luglio del ’17, non sono ancora gli intellettuali a preoccupare Vladimir Ilic. È titubante (la Pravda uscirà con uno spazio bianco in prima pagina per l’indecisione del partito) quando scoppia la rivolta del Primo Reggimento Mitraglieri che si rifiuta di partire per il fronte, quando si aggiungono i 30 mila operai delle officine Putilov, quando arrivano i marinai di Kronstadt che affollano palazzo Tauride chiedendo tutto il potere ai Soviet. Ci sono spari tra l’esercito e le Guardie Rosse, ma Lenin rientrato in fretta dalla Finlandia pensa che il tempo dell’insurrezione finale non sia ancora venuto, perché non è certo l’appoggio delle truppe al fronte. Lo scossone porta alle dimissioni del governo L’vov, Kerenskij diventa Primo Ministro e lancia subito una campagna contro Lenin, Zinovev e Kamenev, con tre mandati di cattura per intelligenza col nemico e tradimento al soldo della Germania. Lenin entra subito in clandestinità, fuggendo verso la frontiera finlandese dopo essersi tagliato il pizzo e i baffi, grazie a una chiamata d’emergenza nell’appartamento della sorella in via Shirokaja, dove si poteva telefonare alla rivoluzione componendo il numero 24-643.
Anni dopo, Lenin ricorderà queste avventure estreme, tentando un bilancio quando Gorkij gli chiederà conto dell’oppressione di tanti intellettuali: “la nostra generazione ha compiuto un’impresa meravigliosa. La crudeltà della nostra vita, resa necessaria dalle circostanze, sarà compresa e perdonata. Tutto sarà compreso, tutto”. Ma basterebbe solo leggere il Requiem di Anna Achmatova, per capire che non può essere così: “Di morte sopra noi stavano stelle/ e innocente la Rus’ si contorceva/ calpestata da stivali sanguinosi”. Si cammina piano ancora oggi nella casa della poetessa, in fondo al cortile dove giocano i bambini, davanti alle finestre dove scrisse “come un fiume io fui deviata/ mi deviò la mia era poderosa”. Nel salotto c’è ancora il posacenere rotondo di peltro dove finivano i versi del Requiem, scritti in poche righe su un foglietto per gli amici in visita che in silenzio li imparavano a memoria, perché non si potevano nemmeno pronunciare, nel terrore che qualcuno ascoltasse. Poi lei accendeva un fiammifero, e li bruciava qui dentro. I versi nel fuoco per diventare polvere di carta, prima di ritornare parola, ma settant’anni dopo. Dopo la cenere russa della poesia. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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10) I due leader insieme nella lunga notte che cambiò la Russia Il 24 ottobre l’attacco a due giornali bolscevichi scatena la reazione del SovietEZIO MAURO rep 6 9 2017 ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Il primo ricordo è del bimbo Lev che si fa la pipì addosso a casa dei vicini, poi il gioco d’estate a catturare le tarantole con un filo di pece per metterle in una boccetta di olio di girasole trasformandolo in medicinale, la domenica con il meccanico Ivan Vasilievic che taglia i capelli al padrone e ai due figli, il vecchio Timofej Isaevic che va in giro per i casolari a scrivere lettere e suppliche per i contadini analfabeti nascondendo nella manica i pagamenti in sale, pepe, zucchero e tabacco, la sinagoga ebraica solo per le ricorrenze più importanti, quel primo viaggio con la madre in carrozza a Bobrinez, la scoperta dei fili del telegrafo e la domanda senza risposta: come riescono a passare lì dentro i telegrammi?
La prima immagine del potere è quella del contrammiraglio Zelenoj, prefetto di polizia di cui si vede appena il pugno che spunta dalla carrozza mentre urla i suoi comandi, i gendarmi fanno il saluto e gli uomini abbassano il cappello. Poi arrivano le letture, Oliver Twist, “Potere nelle tenebre”, quindi il teatro, il giornale di classe a Odessa, un’espulsione a scuola con permesso di ritorno, gli opuscoli di propaganda sotto il materasso a Nikolaev, l’incontro con il giardiniere Franz Shvigovskij che riunisce in casa socialisti, esiliati, studenti e finite le riunioni li ospita a dormire dopo una zuppa collettiva, ma senza lenzuola e cuscini. Il padre che già non sopportava di vedere il figlio con gli occhiali, perché gli davano un’aria da intellettuale sfaccendato, non vuole mantenere un rivoluzionario. Lev rompe con lui, e quando il vecchio andrà a visitarlo nell’ufficio di Commissario del Popolo al Cremlino, regolerà quel conto eternamente sospeso: «Vi ricordate, padre, quando litigavamo al villaggio, e voi mi dicevate che lo Zar sarebbe durato per secoli? Eccoci qua». Ma prima, Lev deve pagarsi da solo gli studi, la giacca blu e il cappello di paglia col bastone nero con cui va alle riunioni della Lega Operaia, il poligrafo con cui scrive articoli, titoli, manifesti. Per quelle carte lo arrestano la prima volta a 18 anni perché il disgelo fa emergere una borsa piena di documenti clandestini nascosta in un buco scavato sotto un cavolo, e in carcere (dove non ha sapone e non si cambia per tre mesi, ma fa ogni giorno ostinatamente 1111 passi lungo la diagonale della cella) incontra per la prima volta il nome di Lenin, leggendo il suo saggio sugli sviluppi del capitalismo russo.
Quando torna a Piter da New York Lenin è già il capo del partito, Lev Davidovic che lo aveva conosciuto a Londra ricorda il giudizio su Ilic di Plekhanov, il “papa” dei socialisti russi: «è di questa pasta che si fanno i Robespierre». Lui può raccontare nei comizi quel che ha visto all’estero, l’eco enorme della rivoluzione negli Usa quando tutti, giornalisti, intellettuali, politici, si precipitavano nella redazione americana di Novyj Mir dove lui lavorava, il figlio con la difterite che balla sul letto quando lui telefona alla moglie le prime notizie da Pietrogrado, perché sa che rivoluzione vuol dire amnistia, vuol dire fine dell’esilio, vuol dire ritorno e soprattutto vuol dire Russia. Oratore appassionato e immaginifico («il governo è nato morto – dirà del ministero Kerenskij – e con gli occhi aperti attende la sua sepoltura»), lo invitano dappertutto, anche senza tessera è il beniamino delle assemblee bolsceviche in cui usa sempre il “noi”, affolla la sera il Circo Moderno coi suoi discorsi a braccio, con la figlia che lo guarda in platea, inchioda con la sua furia polemica il Soviet, sempre con la Browning in tasca. Quando nel tumulto di luglio i marinai di Kronstadt riuniti davanti a Tauride sequestrano sul sedile posteriore di un’auto scoperta il ministro dell’Agricoltura Chernov come ostaggio, insoddisfatti delle sue risposte prudenti sulla terra ai contadini, tutti si precipitano fuori dal palazzo. Ma è Trotzkij che salta sul cofano dell’auto e chiede silenzio: «Voi siete la gloria e l’onore della rivoluzione, la sua avanguardia. Ma perché volete macchiare tutto questo con una violenza meschina contro una persona isolata? Chi è per la violenza?». I marinai mugugnano, ma non rispondono. «Cittadino Chernov, siete libero», dice Trotzkij sollevandolo dal sedile e accompagnandolo dentro Tauride.
Nella battaglia politica di Lenin contro Zinovev e Kamenev, che volevano aspettare l’Assemblea Costituente di novembre per prendere il potere legalmente, Lev Davidovic appoggia la tesi leninista dell’insurrezione subito. Tra i due c’è una differenza strategica, anzi politica, perché Trotzkij diventato presidente del Soviet di Pietrogrado vuole che questo sia lo strumento dell’insurrezione, mentre Lenin come sempre mette al centro il partito-guida. Ma adesso, dopo le polemiche del passato, sono alleati, entrambi vedono la storia a portata di mano, la battaglia è la stessa. Quando il governo decide l’ordine d’arresto per Lenin, Zinovev e Kamenev, Lev protesta con una lettera, chiedendo di essere accomunato ai suoi compagni. Finirà in cella al Kresty per poco più di un mese come “agente tedesco”, e qui a conferma della sua autorità rivoluzionaria arriveranno in visita i marinai dell’incrociatore “Aurora” chiedendogli di aiutarli a sciogliere il dubbio capitale durante la manovra controrivoluzionaria del generale Kornilov: devono difendere il Palazzo d’Inverno o assaltarlo? Anche i figli ragazzini andarono a trovarlo raccontandogli – attraverso la grata – della domenica passata nella dacia di un colonnello amico di famiglia, dove avevano lanciato una sedia contro un ospite che aveva chiamato spie Lenin e Trotzkij. Mentre si salutavano con le mani sulla grata, lui si accorse che la moglie gli stava passando nei buchi un coltellino.
Adesso, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, quando Kerenskij vara il pre-parlamento come contraltare ai Soviet, è Trotzkij d’accordo con Lenin a chiamar fuori i bolscevichi: «Questo è un governo di tradimento nazionale, non faremo da paravento nemmeno un giorno, nemmeno un’ora». Nella confusione dell’aula, qualcuno urla che il partito bolscevico prepara qualcosa di oscuro, un grande scandalo, un colpo di mano. «Stupidaggini – provoca Trotzkij, sfrontatamente –: appena qualche colpo di revolver». Pochi giorni dopo, nell’assemblea plenaria del Soviet i menscevichi sollevano la stessa questione, riproponendo la domanda che agita tutta Pietrogrado: si sta preparando un colpo di Stato? Lev Davidovic si alza dalla presidenza, va alla tribuna e contrattacca: «Chi è che lo chiede? Chi vuole saperlo? Kerenskij? Il controspionaggio? L’Okhrana? O qualche altra organizzazione?». Zinovev e Kamenev sfruttano questa ambiguità in una riunione della Duma di Vyborg, sostenendo che bisogna rinviare l’assalto alla città, perché il partito «non dispone di un meccanismo per l’insurrezione ». Lenin morde il freno, urla che ci sono solo due alternative, o una dittatura dei generali come Kornilov, o una dittatura del proletariato. Passa la sua mozione.
In realtà il meccanismo è pronto, e Trotzkij lo sta caricando come una molla. Col Comitato Militare Rivoluzionario, in mano a due bolscevichi come Podvolskij e Antonov-Ovseenko ha lo strumento di battaglia. Ogni caserma sa quante autoblinde può muovere, quanti camion. Le Guardie rosse contano su quarantamila baionette, agiranno in gruppi di dieci, quattro gruppi formano un plotone, tre plotoni una compagnia, tre compagnie un battaglione di quasi quattrocento uomini. Le operaie creano reparti di infermiere, fanno i corsi in fabbrica. Sono pronte le divisioni operaie, i reggimenti contadini, le squadre di ferrovieri rivoluzionari e di postini bolscevichi, mentre è più difficile penetrare nel telegrafo, in mano ai cadetti. Tutt’attorno, la Russia ribolle: i sindacati sono ormai diventati duemila, con più di due milioni di lavoratori iscritti, i soviet a settembre sono quasi mille, il partito bolscevico supera i duecentomila tesserati, nel villaggio di Sicevka i contadini sono appena usciti di notte con fruste e bastoni per demolire la casa del padrone, l’Unione dei proprietari denuncia che in tre giorni sono stati bruciati ventiquattro poderi mentre il pane è razionato nelle città, a Mosca non si va ormai oltre le due libbre a settimana.
È a questo punto che Trotzkij fa la prima mossa. Il 18 ottobre un telegramma a tutti i reparti militari prescrive di non eseguire più gli ordini dello stato maggiore salvo che siano vistati dalla sezione militare del Soviet. È il via all’insubordinazione, primo atto della rivoluzione. E Trotzkij ha appena firmato di suo pugno l’ordine agli arsenali di consegnare cinquemila fucili alle guardie rosse. Sabato 21 la guarnigione di Pietrogrado si schiera, dichiarando che d’ora in poi prenderà ordini solo dal Soviet, “unico potere”. Lenin è inquieto nel suo rifugio protetto dal quartiere ope- raio, non va nemmeno nelle altre stanze della casa, non esce mai sul balcone, chiede al partito di poter raggiungere il quartier generale allo Smolnyi. Il Soviet di Vyborg risponde di no, le strade non sono sicure, la rivoluzione non può rischiare di perderlo. Allora alla vigilia del giorno fissato per l’insurrezione Lenin convoca Trotzkij. «Come mai il potere non si muove? C’è il rischio di qualche trappola? E se sapessero cosa stiamo facendo, e all’ultimo momento giocassero d’anticipo? ». «Tutto è sotto controllo – risponde Trotzkij –, tutto avverrà automaticamente».
Una ragnatela d’impotenza sembra avvolgere le ultime ore del regime repubblicano, imprigionando il Palazzo d’Inverno come otto mesi prima aveva catturato la reggia di Zarskoe Selo e la debolezza sovrana dello Zar. Kerenskij dice ai suoi uomini che organizzerà un Te Deum di ringraziamento se i bolscevichi attaccano: «Ho più forza di quanta mi serva, li schiaccerò». In realtà, lui che baciava la terra davanti alle trincee, abbracciava i soldati, si illude che le truppe lo seguano. Il generale Polkovnikov, comandante della regione, gli ha appena detto che la guardia di Piter è fedele, ed eccola schierata con i ribelli, in blocco. Il comandante della fortezza di Pietro e Paolo, con i suoi centomila fucili, non accetta gli ordini del Comitato militare rivoluzionario, ma quando arriva Trotzkij a parlare alla truppa i soldati si schierano con il Soviet all’unanimità. «Noi – dice in ogni suo comizio Lev Davidovic – daremo tutto quello che c’è in Russia a chi non ha niente, e ai soldati nelle trincee. Tu hai due pellicce? Bene, danne una al soldato che sta al freddo. Hai due stivali ben caldi? Restatene a casa, servono più all’operaio che a te». Nell’ultima assemblea al Circo Moderno gremito propone un giuramento collettivo, quasi un atto religioso: «noi difenderemo la causa degli operai e dei contadini fino all’ultima goccia di sangue. Giuriamo di sostenere con tutte le forze e qualsiasi sacrificio il Soviet che ha preso sulle sue spalle la rivoluzione per donare terra, pane e pace». Una selva di mani alzate sigla la promessa.
Non fidandosi della città Kerenskij aveva disposto una cintura di sicurezza intorno a Piter, schierando il Terzo corpo d’armata a ventaglio nei presidi di Zarskoe Selo, Gatcina, Peterhof, pronto a intervenire al comando del generale Krasnov e dei suoi cosacchi, mentre sei cannoni da campo compaiono davanti al Palazzo d’Inverno, sorvegliato dagli allievi delle scuole ufficiali fuori, e dal battaglione femminile all’interno. Ma lunedì 23, quando ordina all’incrociatore Aurora che è entrato nella Neva di allontanarsi in mare, Kerenskij scopre che i marinai non obbediscono più. La notte chiama a rinforzo un battaglione di ciclisti, che però riconosce solo il comando del Soviet, non accetta altri ordini, non si muoverà.
I nervi della città sovreccitata, confusa e tuttavia impaziente avvertono nella tensione collettiva quel che sta per accadere. Le strade si riempiono al mattino, si svuotano la sera quando scende presto il buio, e le voci senza controllo affollano la notte spaventata parlando di saccheggi, furti, rapine per strada, passanti a cui sono stati rubati anche i vestiti. Solo Lenin non riesce a vedere, non può ascoltare, vorrebbe capire. Isolato nel suo nascondiglio, vicino ma assente, ancora alla vigilia scarica la sua inquietudine nell’ultimo telegramma al Comitato centrale: «Non dobbiamo aspettare, potremmo perdere tutto. Rimandare la sommossa significa morte certa». Ma Trotzkij non rimanda, sta aspettando l’occasione, il pretesto simbolico, il passo falso di Kerenskij: che arriva alle 6 del mattino di martedì, due ore prima dell’alba di Pietrogrado, quando un drappello di junker assalta i due giornali bolscevichi, Soldat e
Rabocij Put (che ha sostituito la Pravda fuorilegge), frantuma le matrici, spezza i cliché, getta le carte per strada, sbarra le porte con i sigilli del governo.
FOTO: © MILESTONE MEDIA
Parte un fonogramma dallo Smolnyi per tutti i reggimenti: «Il nemico del popolo è all’attacco, il Soviet assume la difesa dell’ordine rivoluzionario, prepariamoci all’azione». Il reparto bolscevico del Genio va sul posto, spezza i sigilli davanti alla folla, riapre le due redazioni. Poi i telefoni diventano muti. Il governo ha isolato il palazzo tagliando le linee, bisogna usare le staffette. È il momento in cui Lenin, non sentendo più nulla, decide di lasciare il rifugio. Chiama il compagno Rahjia che aveva organizzato la fuga in Finlandia, scende nel Prospekt Bolshoj Sampsonievskij, si ferma sul portone stordito poi lascia la clandestinità e si immerge nella febbre di Pietrogrado per raggiungere l’ora x dell’insurrezione.
Lo Smolnyi infine lo inghiotte, gigantesca cattedrale della rivoluzione, alveare bolscevico dove ogni stanza ospita una cellula della sommossa, dietro le targhe del vecchio collegio femminile della nobiltà zarista, “Aula III”, “Signori professori”, “Sala assistenti”, dove adesso sono appoggiati i fucili dei delegati di ogni reparto militare. La notte sarà lunga e prima dell’alba Vladimir Ilic vedrà Trotzkij che chiede una sigaretta a Kamenev, poi sviene sul divano per stanchezza, per sonno, per fame. L’indomani si riunisce il congresso panrusso dei Soviet, e si aprirà con la notizia che la rivoluzione è ormai per le strade della città. Nella fattoria di Janovka, nella scuola di Odessa, nel carcere dello Zar, sul bastimento che lo esiliava in America, Lev Davidovic non poteva nemmeno immaginare che sarebbe finita così: come in quel momento non immaginava che il terrore di Stalin sarebbe riuscito a divorare entro pochi anni anche lui, l’architetto della rivoluzione.
Ma adesso tutto sta per compiersi, è il momento. Quando la sala è già piena di delegati venuti da tutto il Paese, lui e Lenin si coricheranno stremati su una coperta nella stanza in fondo a destra, piena di sedie ammucchiate oggi come cent’anni fa: vado a vederla, identica, silenziosa, immagino il frastuono del Soviet oltre la parete bianca, il giorno della rivoluzione. Qui i due vorrebbero dormire un’ora, ma Lenin è tormentato: «E il Palazzo d’Inverno? Perché non si sa niente? Non possiamo fermarci».
Nessuno può più fermare la corsa cieca del secolo. La sorella di Ilic viene a chiamarli, è l’ora, il congresso si alza in piedi quando entra Trotzkij, poi vede spuntare accanto a lui questo strano Lenin senza il pizzo e senza i baffi, che si siede in prima fila: chi è? È lui? C’è Ilic, è tornato, è libero, dunque è finita la fuga, è cessata la paura e la nuova epoca forse può davvero cominciare. I menscevichi non lo credono, dicono che l’insurrezione abortirà, perché è una congiura, l’unica salvezza è un governo di coalizione. Lenin e Trotzkij si guardano, Lev Davidovic va alla tribuna: «Noi stiamo vincendo e voi ci proponete di rinunciare alla vittoria per venire a patti. Ma siete figure miserabili, siete dei falliti, la vostra parte è finita, potete andare solo nel posto che vi compete da oggi in poi: nella spazzatura della storia».
Dall’altro angolo della storia, prigioniero dei suoi guardiani e del suo fallimento, l’ex Zar in quelle ore sembra scrivere il diario notturno con l’inchiostro di un altro mondo. «È stata una giornata di sole con quindici gradi sotto zero. Sono giorni che non arriva nessun giornale, come pure nessun telegramma. Probabilmente in città non accadono fatti degni di nota. Siamo andati a messa: buio fitto».
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11) Tecnica del colpo di Stato
Cronache di una rivoluzione /12
Il massacro dei Romanov Lo zar e la sua famiglia furono trucidati nella notte fra il 16 e il 17 luglio del 1918 a Ekaterinburg, negli Urali L’ultima puntata del viaggio nella storia di Ezio MauroEZIO MAURO Rep 18 10 2017
EKATERINBURG Gli ultimi a vederli vivi, a parte gli assassini, sono stati l’arciprete Storozev e il diacono Buimirov, che portava l’acqua santa. Il pope arrivò alle 10 e mezza, passò dalla stanza del comandante, c’erano bottiglie vuote, un giaccone nero di pelle, pane secco col burro e semi di girasole per terra, nella puzza molle di makhorka, il tabacco di scarto dei soldati. Nel corridoio un fuciliere portò il fuoco per accendere l’incenso, e fu attraverso il fumo benedetto che il pope, mentre indossava i paramenti sacri e si lamentava della sua pleurite, vide tutta la famiglia in attesa, nella stanza grande della “Casa a destinazione speciale”. Lo zarevic Aleksej era sulla sedia con le grandi ruote, accanto alla madre e all’ex Zar in piedi, dietro le quattro sorelle con ciò che restava di una Corte spodestata, miniaturizzata e prigioniera: il medico imperiale Botkin, il lacché Trupp, Anna Demidova cameriera della Zarina e lo sguattero Sednev. In un angolo, il comandante Jurovskij e quattro soldati, gli unici che non baciarono la croce. Alla fine, invece di recitare la preghiera prevista dalla liturgia («Che le anime dei morti riposino in pace presso i tuoi santi») il diacono per errore iniziò a cantarla, come nelle funzioni per i defunti. Quando l’arciprete si voltò trovò tutta la famiglia in ginocchio, col capo chino. «Oggi», disse padre Ivan tornando in parrocchia, dopo aver regalato alla Zarina il pane benedetto, «c’era qualcosa di strano in quella casa. Nessuno di loro ha cantato». Quella dei morti fu l’ultima preghiera che ascoltarono. Due notti dopo, tra il 16 e il 17 luglio 1918, li avrebbero ammazzati tutti, a colpi di pistola e baionetta.
Il furioso 1917 della Russia, che era incominciato l’anno prima a dicembre con l’assassinio di Rasputin (un’altra notte tra il 16 e il 17) viene dunque a compiersi qui, nel 1918 e negli Urali, tra l’odore di ferro delle miniere coi carrelli che scendevano sulle rotaie a cercare oro e platino, e la puzza di torba bruciata nelle praterie sul bordo della foresta, davanti alla montagna dei Sette Fratelli. Qui era finito il peregrinare dello Zar, rovesciato dalla rivoluzione di Febbraio che gli ha tolto la corona, braccato dalla rivoluzione d’Ottobre che gli darà la morte.
Il nuovo potere bolscevico aveva scaraventato fuori dalla sua casa l’ingegner Nikolaj Ipatev in poche ore, ammucchiando i suoi beni personali nella dispensa del seminterrato, vicino alla stanza della morte. La palazzina doveva diventare in pochi giorni l’ultima residenza dell’ex famiglia imperiale. Una palizzata molto alta, alla siberiana, fu costruita in fretta attorno all’intero edificio, per nasconderlo. Poi fu innalzato un secondo recinto più interno con tre garitte, le postazioni per due mitragliatrici e 54 uomini di guardia, scelti nelle officine di Sysertsk.
L’uomo che arriva alla stazione di Ekaterinburg alle 8,40 del mattino in una divisa da colonnello, senza più le mostrine imperiali, è sballottato da quattro giorni di viaggio di cui i primi due – da Tobolsk a Tjumen – in “tarantass”, quel guscio su due pali e senza molle che scorre sul ghiaccio marcio del disgelo trainato dai cavalli. Lo Zar era a Tobolsk dall’agosto del ’17, quando tutta la famiglia dovette lasciare all’improvviso il palazzo imperiale di Zarskoe Selo, dove d’inverno spaccava il ghiaccio nella chiusa del ruscello, d’autunno faceva legna, la sera leggeva a voce alta ai ragazzi Le mystère de la chambre jaune. Con Aleksej che diventa tutto rosso quando un soldato sbarra la porta allo Zar: «Mio colonnello, non si passa».
Poi era venuto Kerenskij e aveva spiegato che per ragioni di sicurezza era urgente partire, tutti, subito. Sono andato nel bosco per vedere l’uscita secondaria, sotto la sala rotonda, dove due automobili li aspettavano alle 5 e un quarto di un mattino magnifico d’agosto. Mentre caricavano i bagagli, il vecchio conte Benkendorf si congedava, e per la prima e l’ultima volta dopo la caduta della monarchia Nikolaj stava abbracciando nello studio suo fratello Mikhail. Kerenskij assisteva in poltrona tappandosi le orecchie in una finzione di libertà, e i due fratelli che avevano rinunciato allo stesso trono si scambiavano le prime parole dopo sei mesi, con lo Zar che teneva tra le dita il bottone del mantello del Granduca, come per non lasciarlo andare.
Per Tobolsk era partito un seguito di 45 cortigiani, tra medici, cuochi, staffieri, valletti, uno scrivano e il barbiere personale di Nikolaj. Anche qui, una vita a raggio ridotto, ma sopportabile. Nelle belle giornate siberiane si stava seduti al sole contro il tetto di vetro della serra, si organizzava l’orto, si costruiva la montagna di ghiaccio per i ragazzi a meno 37, quando l’acqua gela nel secchiello passando dalla cucina al giardino.
Poi viene l’Ottobre. Prima i ragazzi trovano sull’asse dell’altalena un disegno osceno con la Zarina e Rasputin. Poi ogni membro della famiglia imperiale viene sottoposto alla “razione del soldato”. Quindi il commissario bolscevico Jakovlev annuncia che deve portare via subito tutti da Tobolsk, ma poiché Aleksej non può muoversi partirà solo con l’ex Zar. Alix impazzisce, teme che i bolscevichi vogliano fargli controfirmare la pace con la Germania. La Zarina ha il figlio malato e indebolito, il marito prigioniero e debole.
La paura. Gli inganni Le privazioni. La fine Così la famiglia reale trascorse le ultime ore
Un ordine nella notte “Volevano liberarvi ora vi fuciliamo tutti”
EKATERINBURG GLI ULTIMI a vederli vivi, a parte gli assassini, sono stati l’arciprete Storozev e il diacono Buimirov, che portava l’acqua santa. Il pope arrivò alle 10 e mezza, passò dalla stanza del comandante, c’erano bottiglie vuote, un giaccone nero di pelle, pane secco col burro e semi di girasole per terra, nella puzza molle di makhorka, il tabacco di scarto dei soldati. Nel corridoio un fuciliere portò il fuoco per accendere l’incenso, e fu attraverso il fumo benedetto che il pope, mentre indossava i paramenti sacri e si lamentava della sua pleurite, vide tutta la famiglia in attesa, nella stanza grande della “Casa a destinazione speciale”. Lo zarevic Aleksej era sulla sedia.
Sceglie di stare con l’Imperatore: «È lui adesso che ha più bisogno di me», dice a monsieur Gilliard affidandogli il ragazzo. «In due saremo più forti». Arriveranno a Tjumen – Nikolaj, Alix e la figlia Marija – dopo la partenza alle 5, il fiume Tobol attraversato a piedi su assi pericolanti, quattro cambi di cavalli. Il penultimo nel villaggio di Pokrovskoe dov’è nato Rasputin, con tutta la famiglia del Santo Diavolo che guarda la coppia reale dalla finestra con quegli stessi occhi, mentre Alix ricorda la profezia: «Infine vedrete la mia casa e la mia gente». Lo starez li assiste, ne è sempre più convinta. In realtà attorno agli ex sovrani non si muovono fantasmi, ma una partita politica sui corpi imperiali, con Mosca che vuole lo Zar per un processo all’assolutismo (Trotzkij si candida al ruolo di grande accusatore) e i bolscevichi degli Urali pronti a un colpo di mano sulle rotaie per impadronirsi del trofeo più simbolico della rivoluzione. Finché il Cremlino capisce che conviene cedere, e guidare da Mosca la mano dei carcerieri locali.
Dopo che un anno prima il governo inglese aveva ritirato la proposta di asilo ai Romanov, adesso è Cristiano X re di Danimarca che chiede al Kaiser di aiutarli, firmata la pace. «Non posso rifiutare la mia compassione », è la risposta, «ma un aiuto diretto mi è impossibile». Quando entra nella “Casa a destinazione speciale” a Ekaterinburg Nikolaj è dunque abbandonato dal mondo, solo di fronte al suo destino. Misura subito le quattro stanze a disposizione della sua famiglia, ancora divisa. Le trova belle, pulite, sia la camera d’angolo col grande letto che la sala da pranzo con le finestre, e il salotto arcuato senza le porte.
Ma dovrà accorgersi subito che il regime carcerario si è fatto più pesante. Prima che vengano disfatti i bagagli, il commissario e l’ufficiale di guardia procedono a un’ispezione minuziosa. Hanno visto che nelle lettere la Zarina e le figlie insistono sulle “medicine”, capiscono che è un codice familiare per alludere ai gioielli, temono che sotto i loro occhi si camuffi il mitico tesoro della Corona. Quando aprono anche i flaconi della farmacia portatile di Alix, lo Zar sbotta: «Finora abbiamo avuto a che fare con gente onesta e beneducata, smettetela». Gli risponde Boris Didkovskij, uno dei capi del Soviet: «Vi ricordo che siete sotto inchiesta e in stato d’arresto. Voi non date più ordini a nessuno ».
Un mese dopo anche lo zarevic e le tre sorelle rispondono al comando del destino ed entrano nella casa Ipatev per l’ultimo atto. Ma Aleksej si fa male al ginocchio già la prima sera, subito torna l’angoscia. E Olga, Marija, Tatjana e Anastasija si accorgono che al loro stesso piano vivono 19 soldati delle officine Zlokazov, c’è una guardia fissa davanti all’unico bagno, la porta della loro camera non si può chiudere, la tavola non ha tovaglie, ci sono in tutto cinque cucchiai, con l’intendente Adveev che prende bocconi di cibo dai loro piatti con le mani. La sera, anche tardi, le costringe a suonare per i soldati il pianoforte a coda Bekter che oggi trovo nel Patriarcato, perfettamente accordato, dopo che ha attraversato il caos del 1917 arrivando fin qui, non si sa come ma in tempo per l’ultima musica prigioniera.
Della Corte sono rimasti soltanto in cinque nella casa del destino. È una vita rarefatta, per sottrazione. Si può uscire in giardino, tra i tigli, solo per un quarto d’ora e una volta al giorno. È vietato ogni esercizio fisico. Un vecchio imbianchino entra nelle stanze dei Romanov con secchiello e pennello e passa una mano di calce sui vetri di tutte le finestre. Adesso anche la luce è prigioniera. Alix taglia i capelli a Nikolaj per l’ultima volta, cenano alla luce di una candela perché salta l’elettricità, con tutti i fili volanti dei campanelli per l’allarme che finiscono nella stanza del comandante.
Ma è al Cremlino – dove Lenin si è spostato col suo governo a marzo del 1918 – che si decide la fine. Tra due mesi il Soviet decreterà il Terrore, «rispondendo col terrore rosso di massa alla borghesia e ai suoi agenti». La prima fiammata si accende qui, a Ekaterinburg. Il commissario militare degli Urali va a incontrare a Mosca Jakov Sverdlov, intimo di Lenin e presidente del Comitato esecutivo. La bande “bianche” cecoslovacche si avvicinano alla città: anche se non hanno nessun piano di restaurazione monarchica, sono un’occasione da sfruttare per coprire il massacro. Il partito degli Urali si assumerà la responsabilità materiale dello sterminio dei Romanov, col comando del Cremlino. La decisione è presa.
Mosca vuole solo uomini esperti sul campo dell’azione. L’intendente Adveev è sostituito col telegramma numero 4.558, al suo posto arriva il commissario della Ceka Jurovskij, con dieci cekisti scelti tra i prigionieri di guerra tedeschi e ungheresi: parlano poco il russo, non rispondono ai prigionieri che tra loro li chiamano “lettoni”. Aprono una finestra nella casa, quasi per spingere la famiglia alla fuga, pensando a un’imboscata. Per due giorni la Zarina trova un messaggio in un francese incerto, nascosto nel tappo del latte che arriva ogni mattina col burro e la panna dal monastero di Santa Caterina: la firma è di “un ufficiale” che annuncia «l’ora della liberazione vicina». L’imperatrice dubita, spera, sospetta. Lo Zar si smarrisce nell’attesa, al punto da descriverla nel diario giovedì 27 giugno: «Notte inquieta, abbiamo vegliato vestiti, perché abbiamo ricevuto due lettere che ci dicevano di prepararci a essere rapiti da persone a noi fedeli. Ma i giorni passavano, e non succedeva niente».
La spiegazione è chiusa nel monastero di Santa Caterina, raccolta cent’anni fa da suor Magdalina la veggente, da Avgustine nelle cucine, tramandata da una madre superiora all’altra fino a Evstafija Morozova, che oggi me la racconta. Le due novizie di 19 e 29 anni, Antonina e Marija, che erano ammesse ogni mattina in abiti borghesi alla “Casa a destinazione speciale” col cibo per i reali, dovevano lasciare il cesto nell’anticamera ai cekisti. Non c’era nessun “ufficiale”, nessun francese. Quei falsi messaggi erano stati scritti da Petr Vojkov, dirigente del Soviet, coi ricordi del francese di Ginevra, all’Università. Nessun altro si era mai avvicinato al cibo, il compito delle suore era sempre uguale, salvo una notte quando dalla casa chiedono del rum per lo zarevic raffreddato e il mattino prima della fine, quando il comandante ordina al convento 50 uova e 5 litri di latte, perché gli uomini dopo il massacro avranno fame.
Tutto precipita, tutto è pronto, anche la fabbricazione del falso complotto. Siamo alle ultime ore. Mentre Aleksej fa il primo bagno, ancora con il ginocchio gonfio, Vojkov manda i suoi uomini in farmacia e all’emporio con l’ordine di requisire 175 chili di acido solforico e 300 litri di benzina. Il comandante Jurovskij è ossessionato dalle “medicine” e ordina alla Zarina di sigillare i gioielli in un cofanetto. L’ultimo giovedì tre operai portano in casa una grata pesante, la saldano all’unica finestra aperta, sbarrando le ore finali dei Romanov dietro un’inferriata. Infine, il segnale conclusivo: lo sguattero di cucina Leonid Sednev, che è un ragazzo, viene allontanato dalla casa.
Cosa capiscono i reali? Non sanno che l’ordine di uccidere tutti i Romanov è eseguito in quelle ore dovunque si trovino. La notte del 25 giugno a Perm il fratello dello Zar, Mikhail, viene prelevato col suo segretario Johnson all’albergo Korolev da tre uomini che lo portano in “destinazione sconosciuta”, dove verrà giustiziato come altri Granduchi, come la granduchessa Elizaveta Fedorovna, sorella dell’Imperatrice. Nella casa Ipatev la famiglia dello Zar non ha notizie ma avverte che tutto sta infine per compiersi. «Lo sposo si avvicina», scrive Alix. L’ultima lettera del dottor Botkin è senza illusioni e senza rimpianti: «In sostanza io sono morto, ma non ancora sepolto. O meglio, sepolto vivo».
Arriva quella notte, martedì 16, quando Jurovskij fa portare nel seminterrato 14 pistole nuove, testate due giorni prima. Ha ordinato di sgombrare la stanza con la volta bassa, un’unica finestrella sul cortile, la carta da parati con piccoli quadrati scoloriti. Nello stanzone di fianco adesso entrano i dieci “lettoni” che con il Comandante avranno un bersaglio ciascuno da abbattere, la raccomandazione è di mirare al cuore. Nel cortile l’autista Serghej Lukjanov ha accostato un camion Fiat all’ingresso, con l’ordine di soffocare col motore il rumore degli spari. Sopra, al primo piano, come se fosse una sera qualunque lo Zar gioca l’ultima partita a carte col dottore, Aleksej è stanco ed è già sdraiato in camera. Tatjana legge alla madre il libro del profeta Amos che parla di chi «ha bruciato le ossa del re/ per ridurle in calce». Alle 10 e mezza si spengono le luci nella “Casa a destinazione speciale”. Ci sono 15 gradi nel buio, e nell’eco di fucilate lontane.
È mezzanotte quando Konstantin Dobrinin, la guardia, bussa dicendo ai prigionieri che c’è pericolo di un assalto, devono alzarsi subito. La famiglia scende la scala, seguita da ciò che resta della Corte, quattro persone, il dottor Botkin, la cameriera della Zarina Anna Demidova che porta con sé due cuscini, il cuoco Ivan Kharitonov, il lacché Aleksej Trupp. Nikolaj tiene in braccio Aleksej, padre e figlio hanno il cappello militare con la visiera, le ragazze – Anastasija porta con sé lo spaniel Joy – lunghe sottane nere con i corpetti di seta bianca, Alix ha cucito i gioielli dovunque, nascondendoli sotto i bottoni, nelle stecche dei corsetti, dentro i colletti delle giacche: adesso chiede una sedia, ne portano tre. Jurovskij, che ha fatto il fotografo in gioventù, li dispone a ventaglio, in modo che non si sovrappongano.
Esce, rientra con gli uomini, ha un foglietto: «Nikolaj Aleksandrovic, i vostri hanno tentato di liberarvi, e per questo motivo dobbiamo fucilarvi tutti ». Lo Zar sembra non intendere: «Come? Come?» sono le sue ultime parole. Mentre Alix e Tatjana si fanno un segno della croce, Jurovskij punta la Nagant addosso a Nikolaj, lo colpisce alla carotide poi lo finisce da un passo, quindi spara alla testa di Aleksej gettandolo a terra. Intorno la carneficina impazza: Alix crolla sul dorso, Anastasija si muove carponi e viene finita a colpi di baionetta, come la Demidova che si è riparata dietro i cuscini, mentre Trupp il lacché cade in ginocchio, Olga a Marija muoiono subito, Botkin è colpito al cuore, Tatjana alla nuca, il cuoco riesce a lanciare un’ultima maledizione. Un colpo col calcio della pistola spezza il cranio del cane.
Fumo, sangue, il camion Fiat che ansima davanti alla finestra nel cortile. Adesso hanno fretta, devono avvolgere gli 11 corpi nelle coperte strappate ai letti di casa, caricarli sul camion. Ma prima c’è la caccia ai gioielli, orologi strappati dal polso, anelli dal dito, braccialetti, brillanti nascosti negli abiti, una piccola icona da tasca. In piena notte il camion col suo carico di cadaveri appare nel vicolo Voznesenskij, accende i fari, va verso la foresta, attraversa la linea di separazione tra l’Asia e l’Europa (dove oggi c’è un cippo) e arriva a Ganina Jama. Qui, nei “buchi della terra” come dice il nome, tagliano a pezzi i corpi alla luce delle lanterne gialle, li sfigurano con l’acido sui volti, poi li bruciano.
Cent’anni dopo 5 gigli bianchi crescono a fatica nella fossa, circondata dal legno del monastero dei Santi Martiri Reali, con 7 chiese per i 7 Romanov uccisi a Ekaterinburg. Pochi chilometri più in là, c’è il luogo dove hanno sotterrato le ossa e le ceneri. Una pedana di legno con le traversine del treno e una croce per Lo Zar, Alix, Olga, Tatjana e Anastasija. A pochi metri un quadrato di terra in pieno bosco, con due rose bianche e pochi mughetti segna la sepoltura di Marija e di Aleksej, lo zarevic infelice. Non c’è un turista, nemmeno un curioso. D’altra parte il vero monumento al massacro, la “Casa a destinazione speciale”, non esiste. Ripulita in fretta dai soldati, riconsegnata a Nikolaj Ipatev il 21 luglio, è stata distrutta nel 1977 e al suo posto adesso c’è la “Cattedrale sul sangue”, con il secondo altare che cresce proprio sopra la stanza maledetta, il pozzo originario intatto, brandelli sparsi dalla scena del delitto: la carta annonaria di Nikolaj, un pezzo del mancorrente della scala, la maniglia d’ottone della stufa, un dente da latte di Aleksej, che Alix conservava in un anello.
Qui tutti per cent’anni sapevano dov’erano i corpi reali, da quando il 20 luglio del 1918 il Presidium del Soviet degli Urali aveva affisso un manifesto ai muri di Ekaterinburg: «Poiché le truppe cecoslovacche minacciano la città e il boia coronato può sfuggire al tribunale del popolo (un complotto di guardie bianche per rapire tutta la famiglia Romanov è appena stato scoperto) è stata decisa la fucilazione dell’ex Zar, e la decisione è stata eseguita la notte tra il 16 e il 17 luglio. La famiglia Romanov è stata trasferita in un luogo più sicuro».
Nessuno parlava. Finché, caduto il comunismo, riemergono dal sacrario del bosco le poche ossa che hanno consentito un riscontro con il Dna, per arrivare prima alla certezza che i resti erano dei Romanov e poi alla loro canonizzazione come “martiri imperiali portatori di passione”, infine – il 17 luglio ’98 – ai funerali di Stato nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, che ospita i sarcofaghi storici degli Zar. Sono entrato nella cappella, dove finisce questo lungo viaggio nella Russia delle due rivoluzioni. Non ci sono candele, nemmeno un cero, e le donne che lucidano il marmo delle cripte con i cinque resti – Nikolaj, Alix, Olga, Tatjana, Anastasija – spiegano che per la luce e la fiamma si attende che arrivino qui finalmente anche Marija e Aleksej, adesso che il Dna li ha riconosciuti togliendoli dal nulla e dalle leggende: che per anni facevano vivere nella foresta l’erede scampato al massacro, oppure a Grudzionka, o nel castello di un conte polacco, infine a Omsk dove un generale lo mostrò al vecchio precettore Gilliard, che lo interrogò inutilmente in francese, mentre la gente intorno offriva pane e sale.
Davanti alle tombe imperiali le vecchie aspettano: i resti o l’apparizione. Non è forse stata recuperata la croce dei Romanov, che all’interno ha le reliquie di 40 santi? Tutto è possibile. E non è tornata al suo posto l’icona della Madonna del Nord, che faceva ricrescere le mani mozzate? Tutto può ancora accadere. Mentre i ragazzi intorno scattano le foto col telefonino come a un concerto, indifferenti, loro ripetono che passerà il tempo finché lo Zar potrà ancora mostrarsi alla sua gente. E allora dalle terre lontane dell’Oriente l’imperatore verrà, uscirà dal bosco e dal mistero, giungerà fin qui con la sposa fedele davanti all’acqua della Neva.
La storia sembra finire e ricominciare qui, dove si è generata la grande epoca, in una città mobile come l’acqua che l’attraversa, dentro una fortezza, davanti a un altare, in un sepolcro. Ma basta uscire nell’aria chiara di San Pietroburgo per ritrovare gli altri spettri di quell’anno implacabile e crudele. Stalin e Kerenskij, Trotzkij in piedi davanti alla mappa della capitale che sta per conquistare, Rasputin che si muove di notte, mesi prima, tra gli zingari e i canali per raggiungere la sua fine nel palazzo del principe. Poi le case fantasma dove cent’anni fa scrivevano Blok e l’Akhmatova, da dove partivano per sempre Nabokov e la Berberova, dove Zinaida Gippius guardava dalla finestra la rivoluzione. Infine un’altra sepoltura, al centro della piazza Rossa a Mosca, con Lenin da quasi un secolo trasformato in mummia nella pretesa di imprigionare il passato e il futuro nell’eternità della rivoluzione, dilatando all’infinito il ’17.
Cent’anni dopo quell’eternità è infranta, l’infinito è rientrato nel secolo. La mummia si è fatta uomo.
12. Fine © RIPRODUZIONE RISERVATA
LE PUNTATE PRECEDENTI
Le puntate precedenti di Cronache di una rivoluzione sono uscite il 9 dicembre 2016, il 13 gennaio, il 3 febbraio, il primo marzo, il 3 aprile, il 13 maggio, il 16 giugno, il 15 luglio, il 4 agosto, il 6 settembre e il 4 ottobre scorsi
IL DOCUFILM
Cronache di una rivoluzione è anche un docufilm. La dodicesima ma puntata è online su Repubblica. it
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