lunedì 16 gennaio 2017

Barzellette di Zizek al I Congresso Globale Pan-Post-operaista. "Beni comuni" e fine dello Stato-nazione: il comunismo degli Innocui Maestri che piace alla borghesia internazionale

 


Enzo Traverso: il sole dell’avvenire nel XXI secolo
Comunismo17. Dopo la sconfitta della sinistra, i movimenti sociali sperimentano nuove forme di vita ma sono indifferenti alla questione del potere
Enzo Traverso Manifesto 18.1.2017, 17:31

Un secolo fa, dopo aver conquistato il potere in Russia, i bolscevichi lottarono per impedire il tracollo economico istituendo uno stato d’eccezione che prese il nome di «controllo operaio». Le maestranze che si erano impadronite delle fabbriche costringevano i padroni espropriati e gli amministratori a dirigerle, sorvegliandoli. Da sole, non sarebbero state capaci di far funzionare gli stabilimenti. I loro picchetti armati trasmettevano un’immagine di forza e determinazione ma nascondevano in realtà la loro debolezza. Una nuova classe dirigente — industriale, tecnica, amministrativa — doveva essere creata dal nulla. Oggi, i dirigenti delle grandi multinazionali intascano cifre astronomiche elaborando strategie finalizzate all’aumento dei profitti, ma i salariati delle loro imprese non avrebbero difficoltà ad assicurare o riconvertire la produzione di merci incomparabilmente più complesse rispetto a quelle prodotte agli albori del fordismo.
I PRESUPPOSTI del socialismo — innanzi tutto un’economia tesa al soddisfacimento dei bisogni collettivi anziché alla ricerca del profitto — sono largamente presenti nelle società del XXI secolo, anche quelle meno avanzate, in misura ben più grande di quanto non fossero al tempo della rivoluzione d’Ottobre. Ancor più di allora, il capitalismo è diventato un immane flagello, non perché non sia in grado di produrre ricchezza — ne crea anche troppa — ma perché fonte di mostruose disuguaglianze sociali — non può generare beni senza diffondere simultaneamente povertà ed esclusione — alle quali si aggiungono sprechi e disastri ecologici. Perché allora, se tutte le condizioni sono riunite per farlo, non cambiamo sistema? Forse i dilemmi del XXI secolo sono racchiusi in questo interrogativo.

Benché possa essere formulata in modi diversi, la tesi della «servitù volontaria» non mi ha mai convinto. Se il capitalismo non è mai stato così forte e arrogante, è perché ha vinto il primo e il secondo — a lungo incerto — round del match storico che da due secoli lo confronta ai suoi nemici. Durante il Novecento, ci siamo abituati a considerare vittorie e sconfitte come scontri militari: le rivoluzioni conquistavano il potere con le armi, le sconfitte si traducevano in colpi di stato e dittature fasciste. La sconfitta che abbiamo subito alla svolta del XXI secolo, tuttavia, va misurata con criteri diversi.
IL CAPITALISMO ha vinto perché è riuscito a plasmare le nostre vite e il nostro habitus mentale, perché è riuscito a imporsi come modello antropologico. Gli eserciti più potenti non sono invincibili. I contadini del Vietnam, uno dei paesi più poveri del mondo, sono riusciti, attraverso una lotta che non ha nulla di retorico definire eroica, a sconfiggere prima il colonialismo giapponese, poi quello francese e infine, nonostante i bombardamenti al napalm, l’imperialismo americano. Quel che fino ad oggi non siamo riusciti a fermare è un processo di reificazione universale che, come una piovra, ha avvolto il pianeta intero.

Forse è questa la principale ragione per la quale i movimenti che nel corso dell’ultimo decennio hanno messo al centro della loro azione la critica del capitalismo — Occupy Wall Street, los Indignados, la Nuit debout, No Tav, ecc. –— non hanno mostrato grande interesse per le discussioni strategiche (organizzazione, alleanze, rappresentanza, leadership) ma un fortissimo desiderio di sperimentare nuove forme di vita comune (riappropriazione dello spazio pubblico, partecipazione, deliberazione collettiva, inventario dei bisogni, critica della mercificazione dei rapporti sociali). Quando sono riusciti a varcare una soglia affrontando il problema della rappresentazione politica e del potere, sono stati schiacciati da rapporti di forza sfavorevoli (come Syriza in Grecia) o hanno dovuto gestire le contraddizioni che derivano dal fatto di muoversi in seno a un sistema che volevano scardinare (come Podemos in Spagna).
La sinistra sembra invece aver completamente disertato il terreno sul quale nel secolo scorso aveva accumulato notevole esperienza e registrato numerosi successi: la rivoluzione armata. In questo campo, lo spazio è interamente occupato dal fondamentalismo islamico che, attraverso un’impressionante «regressione» storica, ha sostituito la Sharia all’anticolonialismo e ai movimenti di liberazione nazionale. L’esperienza del comunismo novecentesco nelle sue diverse dimensioni — rivoluzione, regime, anticolonialismo, riformismo — si è esaurita ed è stata archiviata, come pure quella socialdemocratica, resa possibile nel dopoguerra sia da un’onda lunga di espansione economica sia dall’esistenza stessa dell’Urss, che costringeva il capitalismo a riformarsi e modificava i rapporti di forza tra le classi nel mondo occidentale.

I NUOVI MOVIMENTI anticapitalisti di questi ultimi anni non appartengono a nessuna di queste tradizioni del secolo scorso. Non hanno una genealogia. Essi rivelano maggiori affinità — non tanto dottrinali quanto piuttosto culturali e simboliche — con l’anarchismo delle origini: egualitario, antiautoritario, anticoloniale e perlopiù indifferente a una visione teleologica del socialismo come risultato di una presunta legge della storia. Orfani, essi devono reinventarsi. Questa è al contempo la loro forza, perché non sono prigionieri dei modelli ereditati dal passato, e la loro debolezza, perché sono privi di memoria; sono nati da una tabula rasa e non hanno elaborato il lutto delle sconfitte del Novecento. Sono creativi ma anche fragili perché non possiedono la forza dei movimenti che, coscienti di avere una storia, agivano nel solco di una tradizione.
I membri dei partiti comunisti s’illudevano di camminare nel senso della storia ma sapevano di appartenere a un movimento che trascendeva il loro destino individuale. Ciò li aiutava a combattere (e talvolta a vincere) nei momenti più tragici. I nuovi movimenti hanno un rapporto diverso con la politica, che mi sembra si possa definire in larga misura strumentale, benché non cinica: la «usano» senza farsi illusioni. Sanno che la democrazia va reinventata e sono del tutto indifferenti alla sacralità delle istituzioni. Così si spiega la vasta mobilitazione intorno alla candidatura di Bernie Sanders negli Stati Uniti e il successo di Jeremy Corbin in Gran Bretagna.
MOLTISSIMI ATTIVISTI della campagna di Sanders non hanno votato per Hillary Clinton e la maggior parte dei sostenitori di Corbin non erano membri del Partito laburista, vi hanno aderito non per riformarlo ma perché hanno visto in Corbin un’occasione per rompere il consenso neoliberale che regna nella politica britannica, senza soluzione di continuità, dai tempi di Margaret Thatcher. Sanders e Corbin sanno benissimo che il futuro dei loro movimenti dipende da quel che succederà al di fuori del Partito democratico e di quello laburista. Altrettanto strumentale è il voto che in Italia molti attivisti dei movimenti sociali di questi ultimi anni hanno dato e danno al Movimento 5 Stelle, indifferenti tanto al carisma del suo leader quanto alle diatribe settarie degli eredi del vecchio comunismo.
Forse la forma organizzativa che più si addice a questi nuovi movimenti, è il federalismo della I Internazionale, agli antipodi del centralismo gerarchico del Komintern. L’Associazione Internazionale dei Lavoratori riuniva correnti ideologiche diverse, dai marxisti agli anarchici, e in essa coesistevano partiti, sindacati, movimenti di liberazione nazionale, circoli di varia natura. Oggi abbiamo bisogno di federare e far dialogare esperienze diverse, senza gerarchie, in modo «intersezionale», anziché circoscriverle su basi ideologiche. Forse per questa ragione la Comune di Parigi è riscoperta come straordinaria esperienza di autogoverno dei beni comuni anziché come prefigurazione dell’Ottobre russo. I suoi protagonisti non assomigliavano alla classe operaia industriale del Novecento; erano artigiani, lavoratori precari, giovani intellettuali e artisti, donne senza una professione; la trama sociale eterogenea e precaria delle loro esistenze ricorda quella dei giovani di oggi.
LA DIFFERENZA risiede nel fatto che i movimenti attuali agiscono su un terreno profondamente segnato da una sconfitta storica. Il convegno romano dei prossimi giorni rilancia il dilemma già formulato da Rosa Luxemburg allo scoppio della Grande Guerra: socialismo o barbarie. Viste le condizioni in cui versa il mondo di oggi, questa scelta appare terribilmente realistica e concreta. Nel formularla, tuttavia, non abbiamo più diritto a nessuna ingenuità. La barbarie non è una minaccia all’orizzonte ma un’esperienza largamente vissuta durante il secolo scorso e tuttora presente in buona parte del mondo; il socialismo non è un’idea nuova e l’esperienza del passato prova che anch’esso può trasformarsi in una faccia della barbarie. Non possiamo rimuovere questa consapevolezza ma non dobbiamo neppure permetterle di paralizzarci.
***Dopo aver insegnato in Francia per oltre 20 anni, Enzo Traverso è attualmente professore alla Cornell University. Il suo lavoro di storico si concentra sull’Europa contemporanea, e soprattutto sulla storia delle idee politiche e intellettuali della prima metà del XX secolo, con un’attenzione particolare al totalitarismo. Ha insegnato in varie università d’Europa e dell’America Latina. tra le sue opere vanno ricordati i saggi: «Cosmopoli. Figure dell’esilio ebraico-tedesco», «Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica», «A ferro e fuoco. La guerra civile europea», «Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento», «Che fine hanno fatto gli intellettuali?» e il recente «Malinconia di sinistra». 

Roberto Finelli: il comunismo del sentire
Comunismo17. Nuove antropologie. Intervista al filosofo Roberto Finelli sul progetto di un’utopia concreta post-capitalista. Come costruire una lotta politica e sociale a partire da un’idea più ampia di libertà. "Bisogna accedere a un ideale più ricco di libertà per il quale la libertà non è più solo la libertà liberale come libertà di, o la libertà comunista intesa come libertà da, ma libertà come affrancamento dalla paura di rimanere soli con se stessi. E quindi libertà anche, e direi soprattutto, come libertà di accedere senza terrorismi al proprio sentire
Roberto Ciccarelli Manifesto 18.1.2017, 17:18
Un’utopia postcapitalista e postcomunista è alla base del ripensamento radicale del pensiero marxiano condotto da Roberto Finelli. Il filosofo romano propone una doppia strategia: da un lato, sganciare Marx, e il marxismo, dall’«antropologia della penuria» che vede la ricchezza nell’accumulo di beni e servizi legati al soddisfacimento di bisogni solo materiali e a un’autorappresentazione ancestrale e primitiva di sé; dall’altro lato, considerare il comunismo come un nuovo rapporto tra l’autonomia dei singoli e l’autorealizzazione dell’altro. La sua riflessione ha raccolto l’eredità della critica dell’autoritarismo e del pensiero della differenza e dialoga con un’originale lettura psicoanalitica del concetto di libertà e un materialismo spinozista fondato sul nesso corpo-mente.

In questa prospettiva qual è l’eredità della rivoluzione sovietica?
Al di là dell’ovvia constatazione dell’enorme importanza storica di questo primo tentativo di realizzare il comunismo, tutta l’esperienza sovietica, nelle sue diverse fasi, si è strutturata su un’antropologia monocolturale dell’eguaglianza. Valore assolutamente legittimo, ovviamente, anche a partire dall’antropologia della penuria e della miseria storico-sociale di quei tempi, ma che risentiva di una definizione di questo valore evidentemente troppo riduttiva e unilaterale. E anche tale da giustificare una gestione autoritaria e totalitaria, con qualsiasi mezzo possibile, della realizzazione e distribuzione dell’eguaglianza, intesa anch’essa come valore totalitario. Questa considerazione ci permette di ritornare sui limiti dell’antropologia dello stesso Marx che, oltre a essere il grande scienziato del capitale, ancora oggi indispensabile e insuperato per la lettura del presente, ci ha però offerto un’antropologia che si è confrontata molto poco con le tematiche dell’individuazione, delle differenze, e del riconoscimento, presenti invece diffusamente nella filosofia hegeliana. La rivoluzione è stata un’occasione mancata, io credo, di fecondare il valore della socializzazione con quello dell’individuazione. Da qui si deve ripartire per ripensare il presente.


Con quali strumenti?
La rivoluzione sovietica è stata il primo tentativo di realizzare una nuova antropologia, fallito oltre che per la reazione esterna per i limiti della sua gerarchia di valori. Oggi sono necessari nuovi esperimenti con un’antropologia fondata sulla pienezza e sull’intreccio di due assi relazionali: quello orizzontale della relazione con gli altri e quello verticale della relazione con il proprio sé. Una ripresa dell’utopia concreta potrebbe permettere di concepire e praticare istituti della socializzazione che siano contemporaneamente istituti del riconoscimento.


Quali sono?
Potrebbero essere luoghi di produzione di beni materiali e culturali a doppia matrice: processi produttivi che, mentre lavorano l’oggetto e il mondo esterno, contemporaneamente lavorano il soggetto. Ossia, in altri termini, luoghi di produzione con una duplice valenza ecologica: produzione di beni che non entrino in contraddizione con il genere umano e contemporaneamente secondo modalità produttive che non entrino in contraddizione con la realizzazione emozionale e psichica del proprio sé.


È d’accordo nel definire questo progetto di politica comunista in termini di un nuovo umanesimo? Una categoria complessa da usare oggi, non trova?
Sì, ne sono consapevole, ma non rinuncio a questa categoria. Facciamo un caso concreto. Ad esempio la scuola. Si potrebbe lanciare in Italia la proposta utopica di un’estensione dell’obbligo scolastico a 18 anni, di un rifiuto di qualsiasi connessione tra processo educativo e processo lavorativo, con la generalizzazione obbligatorio di un liceo unico di alta qualità a tutta la popolazione scolastica: un liceo classico/scientifico organizzato sulla comunità del gruppo classe, cioè di una collettività di studenti, in relazione ma autonoma con la classe docente, e che, nel mentre realizza il percorso di un’educazione comune, pratica attraverso l’amicizia ( la philia) la formazione di un collettivo capace di accogliere e lasciar essere le differenze emozionali e di crescita dei propri membri. Penso che un nuovo umanesimo si possa coniugare solo a partire da un nuovo materialismo che per me significa partire dal corpo rispetto a una mente che freudianamente segue sempre il corpo e che viene sempre dopo il corpo. Perché è nel corpo emozionale di ciascuno di noi che si iscrive la nostra individualità e la sua irripetibilità rispetto a tutti gli altri: in un corpo che è deposito genetico della storia familiare, sociale, culturale che ci ha generato e che è in pari tempo il fondo del nostro futuro, in quanto il luogo emozionale-biologico che con il suo sentire dirige la nostra vita, anche quella logico-mentale e linguistico-comunicativa. Senza riconoscere nel corpo biologico ed emozionale di ognuno la fonte materialistica del senso e di ogni etica dei valori, come ben aveva inteso Spinoza, non c’è rinascita possibile né di materialismo né di comunismo.


Tentativi in questa prospettiva sono stati fatti dai movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta ai quali ha dedicato spazio nei suoi libri. Cosa ha funzionato e cosa no? 
Allora non c’è stata una sufficiente mediazione tra la cultura dell’uguaglianza e quella dell’individuazione e della differenza. La repressione della cultura tradizionale e monocorde dell’uguaglianza è stata così violenta che, a mio avviso, ha condotto all’estremizzazione la cultura spinoziana del desiderio e dell’individuazione, per cui non si è riusciti a praticare la mediazione di quei due assi, orizzontale e verticale di cui parlavo.


Come riprendere questa strada?
Solo praticando un percorso di esperienze in gruppi diffusi che rifuggano dal praticare dentro di sé lo schema dell’amico e del nemico e riescano a praticare il lasciar essere delle differenze, unificate però da obbiettivi comuni. Altra strada non vedo perché ogni politica della rappresentanza diventa rappresentanza alienata e abbandonata al teatro della rappresentazione. Del resto credo che oggi sia necessario partire dalla constatazione di «soggettività povera», in termini di massa, una soggettività svuotata dai processi accumulativi della ricchezza astratta del capitale, ma che nello stesso tempo viene mistificata a sé medesima nel suo apparire come soggettività approfondita e ricca di relazioni e informazioni.


Come si fa a boicottare questa soggettività e iniziare un nuovo percorso di soggettivazione?
È indispensabile ripartire dal mondo della scuola, dell’istruzione e della conoscenza. Sono stati l’oggetto della più grande devastazione compiuta dalla classe dirigente del Pci per transitare da classe di opposizione a ceto di governo. Oggi tutta la formazione scolastica è il luogo di un genocidio della nostra gioventù. Sarebbe necessario contrastare questo svuotamento dei cervelli che crea solo forza-lavoro abile e ubbidiente ai programmi e alle schede di lavoro depositate nelle macchine e nella tecnologia informatica. E dunque riorganizzare l’intera filiera dell’educazione. A cominciare da un anno sabbatico di assegnare ai docenti della scuola primaria e secondaria ogni cinque anni d’insegnamento nella classi e da trascorrere con un serio percorso di aggiornamento e di studio presso istituti di cultura e in primo luogo le università. Giacché questo implicherebbe una riorganizzazione profonda anche della docenza e della ricerca universitaria, oggi soprattutto nelle facoltà umanistiche sprofondata in un autoriferimento e in una specializzazione, assai più spesso filologica che non filosofica, e del tutto incapace perciò di proporre visioni d’insieme e sistemi complessivi di cultura e di civiltà.


Che ruolo occupa la conoscenza in questo progetto neo-comunista? 
La conoscenza è ovviamente fondamentale, purché conoscenza significhi non solo società del «conoscere», ma anche società del «riconoscere». O meglio società del «riconoscersi» come possibilità per ogni individuo di entrare con il minor grado di censura possibile in comunicazione con se stessi. Bisogna coniugare un nuovo umanesimo, una nuova filosofia politica, che accolga dentro di sé la complicazione psicoanalitica dei concetti di società e di libertà, per la quale libertà e società designano non più solo un ordine esteriore ma rimandano anche a un ordine interiore, riferito a quell’individuo formato da mille individui, quale ciascuno di noi è. Credo insomma che sia necessario, per la lotta politica e sociale, accedere a un ideale più ricco di libertà per il quale la libertà non è più solo la libertà liberale come libertà di, o la libertà comunista intesa come libertà da, ma libertà come affrancamento dalla paura di rimanere soli con se stessi. E quindi libertà anche, e direi soprattutto, come libertà di accedere senza terrorismi al proprio sentire. Insomma società della conoscenza, ma solo se integrata da una società del sentire, perché il conoscere non è il sentire. A me sembra che oggi la capacità di sentirsi ed emozionarsi, in questo mondo formato da un’immane raccolta di merci, sia divenuta la merce più rara, quando addirittura introvabile.

***Roberto Finelli è professore di Storia della Filosofia all’Università di Roma Tre. Ha pubblicato numerosi studi dedicati al pensiero di Marx, Hegel e Freud e le loro influenze sul pensiero contemporaneo. Si è occupato a lungo, e si occupa tuttora, di antropologia ed epistemologia psicoanalitica, pubblicando numerosi saggi sull’argomento e curando per i tipi della Newton Compton una nuova edizione di diverse opere freudiane. È fondatore e direttore della rivista elettronica «Consecutio temporum. Hegeliana, Marxiana, Freudiana» e co-direttore della rivista «post filosofie». Da segnalare Un parricidio mancato. Il rapporto tra Hegel e il giovane Marx; (Bollati Boringhieri, 2004) e Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel» (Jaca Book).

Toni Negri e il comunismo come processo costituente continuo
Intervista a Toni Negri. La presa del potere rimane sempre il nodo da sciogliere. Ma non si pone più come in passato. Occorre costruire istituzioni che prefigurino già la nuova società
Francesco Raparelli Manifesto 18.1.2017, 17:16
Tra i più importanti filosofi politici mondiali, Toni Negri non smette di pensare il problema del comunismo. Per farlo, si colloca nell’unica posizione che conta: quella dei movimenti reali. Con lui abbiamo ripreso il filo della riflessione sulla crisi del neoliberalismo, ma abbiamo soprattutto insistito sui nuovi soggetti produttivi e le loro potenzialità rivoluzionarie.

Ne «Il lavoro di Dioniso» (con Michael Hardt) il modo di produrre contemporaneo viene descritto insistendo sulla centralità dei «prerequisiti di comunismo»; essendo il linguaggio, gli affetti, la mobilità divenuti pilastro della valorizzazione capitalistica. Invece di cancellare questa diagnosi, la crisi esplosa nel 2008 sembra confermarla. Concordi?
In quel libro si trattò, in fondo, di riassumere una serie di elementi di analisi del lavoro e delle sue trasformazioni; analisi avviata molti anni prima, a partire dalla ricerca collettiva di Potere Operaio. Era una critica del movimento operaio tradizionale, fondata sulla mutazione profonda della composizione tecnica e politica della classe operaia. In particolare, ci apparivano radicalmente cambiati i processi di soggettivazione. Le lotte studentesche, soprattutto dopo il 1986 (come cominciai a chiarire in Fine secolo), sussumevano molti aspetti delle lotte operaie di allora; così come il lavoro informatico, digitalizzato, cominciava a conquistare centralità in queste ultime.

Già nel 1986, e poi nel ’94-’95 in Francia, i conflitti enormi che esplodono – dal sapere alla salute, dai servizi urbani alla previdenza – insistono sul terreno della riproduzione e si articolano su quello metropolitano. È chiaro, dunque, che la crisi successiva al 2008 non fa altro che attaccare questo nuovo contesto. Di più: si tratta di una crisi che tenta di stabilire una forma di governabilità, come sempre succede in questi casi, sopra una modificazione radicale del soggetto produttivo.

In un saggio dedicato a Lenin, Lukács sosteneva che non si dà materialismo storico senza afferrare l’attualità della rivoluzione come «sfondo dell’epoca». Tale attualità sembra ormai introvabile. Di fronte alla barbarie della crisi e della guerra, la rivoluzione è nuovamente l’unica alternativa?
Certamente è venuta meno ogni mediazione tra il livello del comando come si configura oggi nella sua dimensione finanziaria e il contesto generale nel quale opera il lavoro vivo. Venuta meno questa mediazione, è evidente che un processo rivoluzionario non può che essere la soluzione di una contraddizione tanto radicale quanto insuperabile. Tuttavia occorre chiarire cosa significa, oggi, rivoluzione. Già nei miei scritti degli anni ’80 c’era un’attenzione ai comportamenti attivi, alla produzione di soggettività che emergeva dalla nuova condizione proletaria. Credo che parlare di rivoluzione non significhi più parlare della rottura fra comando e resistenza, forme del capitale fisso e passività attiva del lavoro vivo nei confronti del comando, e quindi della rottura della dialettica. Non è più questo il problema centrale. Ma è quello di capire quali siano i comportamenti, i livelli di organizzazione, la capacità di espressione che ha il nuovo proletariato. Perché, quando si dice «non c’è soluzione se non la rivoluzione», si dice una cosa ormai banale. Il problema non è sapere se è necessaria, piuttosto sapere come è necessaria e come è possibile. Escludere ogni soluzione riformista, implica oggi più che mai una soluzione processuale, definita dalla costruzione di istituzioni di contropotere reale.

L’altro elemento da tener presente, oltre la forma del processo, è il fatto che quest’ultimo si sviluppa interamente sul terreno della riproduzione: la produzione è subordinata alla riproduzione; la fabbrica alla società; l’individuo al collettivo che si forma nella società. Ci si trova di fronte alla necessità di costruire istituzioni del comune, non come risultato ultimo del processo rivoluzionario, ma come condizione dello stesso. Da questo punto di vista penso che si tratti di parlare dell’attualità della rivoluzione al presente, non come attualità di qualcosa a venire.

Torna in auge, nella scena contemporanea (dal bolivarismo ai populismi di sinistra europei), il tema dello Stato. Di più: la necessità, per i subalterni, di «farsi Stato». Una ripresa in forze di Gramsci, letto spesso con le lenti di Togliatti. Può darsi esperienza comunista senza critica radicale della forma-Stato?
È chiaro che la critica radicale della forma-Stato è necessaria, ma per molti versi superflua. Nel senso che, se è vero quello che dicevamo prima, e cioè che si è data una rottura completa della mediazione, la stessa funzione dello Stato non può più essere recuperata in termini riformisti: è una funzione semplicemente oppressiva. Da questo punto di vista, lo Stato è qualcosa di parassitario; come tale, non può più collocarsi nella riflessione rivoluzionaria. Detto questo, però, bisogna stare attenti, perché il problema non è l’uso dello Stato in quanto tale.

In qualsiasi fase di transizione non si può che praticare l’uso di strumenti generali come quelli che offre lo Stato. Per rovesciarli, evidentemente; per scarnificarli, mano a mano, dal carico di potere (oppressivo) che essi hanno in se stessi. Il vero nemico, dunque, è il feticismo dello Stato. Oggi esistono posizioni, non più ragionevoli, che nel considerare gli usi di certe funzioni pubbliche – affermate nella costituzione dello Stato – feticizzano la sovranità, l’autonomia del potere statale, comprimendo a dismisura la libertà delle lotte. Un feticismo di avanguardie che stanno sopra i movimenti reali – gli unici che trasformano il sociale. Occorre precisare, poi, che dietro il feticismo dello Stato ci sono sempre due ideologie/comportamenti: l’una è quella dell’avanguardia; l’altra è quella anarchica, dell’immediatezza, dell’apertura messianica. È di questi riferimenti che bisogna sbarazzarsi.

La tua militanza comunista è cresciuta nelle lotte straordinarie dell’«operaio massa»; per poi incontrare, già nei tardi anni ’70, l’«operaio sociale»: nuova figura proletaria esito della scolarizzazione, dell’espansione del welfare, delle lotte per il rifiuto del lavoro. Queste stessa figura, nel mezzo della crisi, si presenta nel segno della precarietà. Cosa significa, su questo terreno, militanza comunista? 
Significa riuscire a trasformare la sofferenza del bisogno, della mancanza, nella costruzione di un «noi» desiderante. Nella flessibilità e nella mobilità, imposte dal regime neoliberale, aumenta la sofferenza individuale. Il collettivo, invece, va portato con forza dentro la «condizione operaia» contemporanea. La socialdemocrazia è stata incapace di cogliere, nella forma stessa del welfare e del lavoro che gli stava dietro, la necessità di esaltare il collettivo, l’insieme, e cioè il fatto che le singolarità vivono nel rapporto tra loro. Nella riscoperta di un collettivo cooperante può nascere oggi un nuovo spirito comunista.

Evidentemente sono necessari passaggi materiali per capire come si procede dal bisogno al desiderio. Penso alla vecchia formula: appropriazione, istituzione e presa del potere. Appropriazione è la pressione che si esercita sul salario e sul reddito. Il momento ulteriore è quello istituzionale: riconoscersi e agire come «noi». Passaggio fondamentale, in nessun caso riducibile all’immediatezza o alla presa di coscienza pura. Poi c’è il problema della presa del potere, che non è cosa mitica ed è fenomeno del tutto diverso da come l’abbiamo conosciuto: perché è la messa in atto di un processo costituente continuo, che non si blocca mai su forme istituzionali prefissate, ma che apre sempre le istituzioni a nuove capacità di consenso, di coesione, di cooperazione. E tutto ciò, ormai, deve avvenire sul terreno della riproduzione.
C’è stata una cosa formidabile lo scorso autunno: la manifestazione delle donne di Roma. Un fatto che ha innovato, perché non è stata semplicemente una manifestazione contro la violenza di genere, quanto una dichiarazione fondamentale contro lo sfruttamento della donna inteso come elemento legato a tutte le forme del politico, così come oggi si presenta. Questo è il terreno biopolitico sul quale ci si muove.

Mezzadra: «Superare l’illusione dello Stato-Nazione come argine al capitalismo predatorio»   
Comunismo17. Intervista a Sandro Mezzadra: "La crisi del ciclo politico ventennale in Latinoamerica deriva dal ripiegamento dei governi «progressisti» sulla dimensione nazionale e dall’assunzione dello Stato come centro privilegiato, se non esclusivo, del processo di trasformazione e governo. Il problema del potere rimane un problema fondamentale per la politica comunista. Si tratta di ripensarlo tanto sul lato del capitale quanto su quello della composizione del «lavoro vivo»
Francesco Raparelli Manifesto 18.1.2017, 17:00
La ricerca di Sandro Mezzadra, da qualche anno compiuta in relazione con Brett Neilson, qualifica una discontinuità teorica nella tradizione qualificata come operaista: mobilità della forza lavoro e dimensione globale della governance sono il terreno decisivo su cui si misurano categorie analitiche e proposta politica.

In «Border as a Method», viene presentata una originale «costellazione» del capitale. La nozione di «moltiplicazione del lavoro», in particolare, afferra in modo perspicuo la «grande trasformazione» nella quale siamo immersi. È ancora possibile una politica comunista prendendo sul serio l’irriducibile molteplicità delle figure dello sfruttamento da voi così ben censita?
Il mio lavoro con Brett, Border as Method ma anche il nuovo libro che abbiamo appena finito di scrivere (The Politics of Operations. Excavating Contemporary Capitalism), è un tentativo di definire un metodo per comprendere criticamente la dimensione «globale». Credo che fosse chiaro già in Border as Method: nel nuovo libro, in ogni caso, affermiamo esplicitamente che questo metodo ha senso per noi nella misura in cui nutre la ricerca di una politica comunista. La dimensione «globale», dicevo. Marx pensa in questa dimensione, già nei suoi anni giovanili, il comunismo. «Mercato mondiale» e «internazionalismo proletario»: critica dell’economia politica e politica comunista hanno per lui come sfondo il mondo. Una straordinaria «forza-invenzione» (per riprendere una categoria dei nostri classici, dell’operaismo degli anni Sessanta): è certo più facile oggi di quanto non fosse a metà dell’Ottocento vedere le connessioni globali che legano la forza lavoro! Poi, certo, pensare e agire una politica di questa forza lavoro globale è un’altra storia. Le operazioni del capitale hanno efficacia globale: come fronteggiarle? La nozione di «moltiplicazione del lavoro» segnala tutte le difficoltà di questa impresa. Al tempo stesso, tuttavia, indica anche – «in positivo», per dir così – qualcosa di fondamentale: una politica comunista, oggi, non può che assumere come presupposto la «molteplicità», l’irriducibilità della «differenza». La lezione femminista, su questo punto, è per noi fondamentale.


«Dualismo dei potere» e «rivoluzione permanente», due concetti chiave per pensare il 1917, di cui quest’anno ricorre il centenario. Viviamo un’altra congiuntura. Eppure non possiamo in alcun modo sfuggire, se vogliamo riflettere sull’attualità del comunismo, il problema del potere. Quale dunque dei due concetti appena citati salveresti? 
Il «dualismo del potere» è per me una categoria di straordinaria importanza. In The Politics of Operations cerchiamo di indicare, chiudendo il libro, alcune linee di ricerca su questo tema. Ed è quasi superfluo aggiungere che parlare del «dualismo del potere» significa parlare di Lenin. Appena tornato in Russia, nell’aprile del 1917, Lenin scrisse che dopo la rivoluzione di febbraio c’erano due poteri: quello del governo provvisorio (il «governo della borghesia») e poi «un altro governo, ancora debole, embrionale, ma tuttavia reale e in via di sviluppo: i soviet dei deputati degli operai e dei soldati». Il genio di Lenin, nelle condizioni assolutamente peculiari (irripetibili) della guerra mondiale e della rivoluzione, consistette nell’indicare ai bolscevichi il compito essenziale: attendere l’occasione per spezzare quel dualismo, per organizzare l’insurrezione. Noi dobbiamo oggi rivendicare il genio di Lenin: ma questo può significare soltanto essere capaci di produrre – collettivamente – un’innovazione all’altezza di quel genio. Non abbiamo tempo per caricature e scimmiottamenti. Certo, il problema del potere rimane un problema fondamentale per la politica comunista: ma si tratta di pensare – e agire – questo problema in condizioni completamente nuove, tanto sul lato del capitale quanto su quello della composizione del «lavoro vivo». In due parole – come linea di ricerca e sperimentazione appunto: il nostro compito è pensare il dualismo del potere come formula politica stabile, che articoli una dinamica di lotta, trasformazione e governo attraverso l’istituzione di un sistema di contro-poteri.


Il vento bolivariano dell’America Latina è da molti interpretato, soprattutto in Europa, come rilancio della funzione strategica, per il socialismo, dello Stato. Conosci lo scenario politico latinoamericano e puoi chiarirci quanto anche oggi «socialismo in un solo paese» sia proposta insufficiente…
Conosco l’America Latina, è vero. Ci sono stato a lungo negli ultimi anni, ho seguito e in qualche modo vissuto i processi latinoamericani, in particolare a partire dall’incontro con il colectivo situaciones di Beunos Aires nel 2002. Che cosa è successo in America Latina negli ultimi quindici, vent’anni? Un formidabile ciclo di lotte ha aperto gli spazi al cui interno si sono sviluppate le esperienze dei nuovi governi «progressisti» (e dobbiamo considerli tutti insieme questi governi, nella loro eterogeneità, se vogliamo capirne qualcosa: Chavez e Lula, Morales e Krichner). «Le lotte vengono prima»: non so se funziona sempre, ma l’America Latina è un’illustrazione didascalica di questo motto. E le lotte hanno assunto a partire dall’inizio del nuovo secolo, in modo tanto tumultuoso quanto preciso, una scala continentale. I governi «progressisti» si sono innestati su questa scala, e i processi di integrazione degli anni 2000 sono stati una condizione essenziale della loro forza. In diversi Paesi, quel che dicevo prima sul «dualismo del potere» è sembrato trovare, sia pure a tratti e sempre in modo profondamente contraddittorio, un’esemplificazione. Ma oggi siamo di fronte alla crisi, all’esaurimento di quel ciclo politico.Quali sono le ragioni di questa crisi? Rispondo molto brevemente, ma anche chiaramente: da una parte il rallentamento dei processi di integrazione e il ripiegamento dei governi «progressisti» sulla dimensione nazionale; dall’altra l’assunzione dello Stato come centro privilegiato, se non esclusivo del processo di trasformazione e governo. È una questione di realismo politico: lo Stato, come ho scritto con Brett anni fa, non ha la forza sufficiente per fronteggiare le operazioni del capitale globale contemporaneo (né per spezzare il dominio del capitale, né per «mitigarlo» attraverso riforme più o meno radicali). Come dire? È necessario un altro potere; ed è necessario un altro spazio, al di là della nazione.


I tuoi studi sul nuovo regime migratorio ci propongono da tempo una riflessione sulle nuove gerarchie produttive segnate dalla «linea del colore», ma anche e soprattutto sull’inadeguatezza di una pratica politica incapace di attraversare e sostenere le lotte migranti. È possibile conquistare istanze comuni rifiutando la segmentazione etnica del mercato del lavoro e, soprattutto, la ripresa in forze, anche a sinistra, della tematica nazionalista?
È la posta in palio. L’incontro con la migrazione, già a partire dagli anni ’90, è stato per molti e molte di noi una specie di nuova scoperta del mondo – o semplicemente la scoperta di quanto era cambiato il mondo. Da quel momento, è vero, il tema della «linea del colore» è stato al centro delle mie ricerche, ma anche dei miei continui tentativi di fare politica. La migrazione mi ha mostrato, da un altro punto di vista rispetto al femminismo, il rilievo strategico della «differenza». Strategico nell’organizzazione dei rapporti di dominio e di sfruttamento; ma strategico anche nella costruzione di una politica della liberazione. Nessuno lo ha detto meglio di Audre Lorde, non a caso una scrittrice e poetessa femminista, lesbica, nera. È un brano che abbiamo citato in Border as Method; lo ripeto qui, in chiusura, come una sorta di assioma per la politica comunista a venire: «è all’interno delle nostre differenze che siamo più potenti e più vulnerabili; e alcuni dei compiti più difficili delle nostre vite consistono nel rivendicare le differenze e nell’imparare a utilizzarle come ponti tra di noi invece che come barriere».

***Sandro Mezzadra insegna Filosofia politica all’Università di Bologna. Il suo lavoro si è a lungo concentrato sulle varie questioni in gioco nello sviluppo della teoria politica contemporanea. Negli ultimi anni i suoi studi si sono particolarmente incentrati sulla relazione tra globalizzazione, migrazioni, cittadinanza e trasformazioni del lavoro, in dialogo con gli studi postcoloniali che ha contribuito a introdurre nel dibattito italiano e spagnolo. Tra le sue opere: «La condizione postcoloniale» (ombrecorte); «Nei cantieri marxiani» (manifestolibri); «Confini e frontiere» (con Brett Nielsen, Il Mulino).

Balibar: il desiderio comunista di trasformare il mondo e se stessi
Comunismo17. Un’intervista al filosofo Étienne Balibar. Il desiderio comunista si distingue da quello cristiano investito dalla grazie e da quello di Nietzsche della "cura di sé". E' un desiderio da concepire in termini materialisti perché trasforma le proprie condizioni e quelle del mondo
Chiara Giorgi Manifesto 18.1.2017, 16:40

Étienne Balibar interverrà a «La conferenza di Roma sul comunismo», il giorno 21 gennaio (ore 16, Esc Atelier Autogestito) su «Poteri comunisti». Essendo tra i filosofi marxisti più noti e autorevoli del dibattito europeo contemporaneo relativo ai temi della cittadinanza e della democrazia, abbiamo deciso di intervistarlo al fine di anticipare alcune delle questioni più salienti che verranno affrontate durante la conferenza romana.
La rappresentazione che Marx aveva del comunismo era di alternativa al capitalismo, il quale d’altronde ne preparava già le condizioni. Su questo snodo si è aperta la grande questione attorno alla nozione di transizione.


Lei ha osservato in «La filosofia di Marx» che la «transizione» è invece «una figura politica della “non contemporaneità” del tempo storico a sé, ma che rimane iscritta nel provvisorio». Non è in questo antievoluzionismo e nel suo rinvio all’imprevisto del comunismo?
L’idea di comunismo ereditata da Marx ha una storia lunga, che attraversa tutta la modernità ed è legata a doppio filo con eresie religiose e rivolte sociali. Marx stesso aveva inizialmente praticato con convinzione le utopie associative romantiche, che rispondevano alla rivoluzione industriale con progetti di riorganizzazione della società ispirati a principi di uguaglianza e razionalità, dove il denaro era abolito. Poi, pensò che si potesse dare fondamento scientifico alla speranza comunista, iscrivendola nella linea dell’evoluzione storica come il «modo di produzione» dell’avvenire, che avrebbe condotto una società fatta di classi verso la società senza classi.Nella formula che lei cita, ho provato a cercare in Marx degli elementi (e ce ne sono) che contestino questa forma di evoluzionismo fondamentale, con l’intento di restituire alla politica quella dimensione di incertezza e di creatività che le è propria e volendo concepire l’alternativa come un bivio più che come un punto di arrivo. Ho cercato in questo modo di avvicinare Marx alle prospettive rivoluzionarie attuali, che vanno al di là del fallimento catastrofico di quel «comunismo evoluzionista» incarnato dalle esperienze socialiste del XX secolo.


«Cambiare il mondo» per «trasformare noi stessi», è una delle idee forza in Marx….
Sono d’accordo a presentare le cose in questo modo, a condizione però di fare due precisazioni. La prima è che Marx non ha mai messo unilateralmente l’accento sul tema del «comune» e della «comunità» a scapito dell’individualità. È proprio questo che lo distingue dai romantici e dai nostalgici delle società precapitalistiche, in cui l’individuo era soggetto alla totalità.
L’uso alienante che il capitalismo fa dell’individualismo (peraltro oggi aggravato ulteriormente dal discorso neoliberista e dalla sua estremizzazione del modello della concorrenza universale tra gli individui) conduce inevitabilmente a valorizzare il «comune». Marx cerca una formula esistenziale per cui – come dice il Manifesto comunista – lo sviluppo di ognuno è condizione della comunità e vice versa. La seconda precisazione è che intendo attribuire un senso forte all’espressione «desiderio comunista». Il desiderio comunista è il motore dell’impegno comunista. È un desiderio in un certo senso irrealizzabile, perché infinito, ma è possibile concepirlo in modo «materialista», non tanto sottoponendolo a condizioni, ma introducendo al suo interno il desiderio delle proprie condizioni, riassunto in forma allegorica dall’espressione «trasformare il mondo». Questo distingue il desiderio comunista dal desiderio cristiano, da un lato, che aspira all’«uomo nuovo» investito dalla grazia, e, dall’altro lato, da quel desiderio nietzschiano ben riassunto da Foucault nella formula della «cura di sé».


Le immagini del comunismo sono molte, tra esse Althusser scelse quella presente nell’«Ideologia tedesca»: il comunismo come «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». È anche la sua immagine?
Torniamo al problema di poco fa: questa formula magnifica è soggetta al rischio di essere interpretata in modo evoluzionistico, per cui il comunismo sarebbe il senso ultimo della storia. Per fortuna la frase è equivoca. Con essa si sgombera il campo da un’interpretazione del comunismo come idea regolativa, e si afferma l’«immanenza» del comunismo alle lotte del presente e alle trasformazioni che queste ultime producono nella società e nei suoi attori.


Nel contesto attuale, di attacco feroce alla democrazia, ne è possibile una ri-significazione a partire da conflitti agiti in nome di rinnovate istanze di «égaliberté»? È l’insurrezione a essere nuovamente la modalità attiva della cittadinanza?
Quello che mi sembra importante nella proposizione dell’égaliberté è il fatto che si tratta di un’idea borghese (o «civico-borghese»), che ha però al suo interno un’imprescindibile dimensione rivoluzionaria, insurrezionale, eccedente (o «iperbolica»). Ecco perché l’égaliberté torna in primo piano ogni volta che forme di resistenza e invenzioni emancipatrici entrano in conflitto con modalità istituzionali fondate sulla dominazione di classe (o, più in generale, su una gerarchizzazione sociale). Ma il rapporto genealogico e dialettico tra l’idea borghese di insurrezione e le forme della politica comunista non è semplice. Detto questo, le circostanze comportano a volte semplificazioni strategiche: la «postdemocrazia» che si sta sviluppando oggi sotto il nome di governance è talmente antitetica rispetto a qualunque idea di cittadinanza attiva che già iscrivendo la politica sotto il segno di questa tradizione borghese si ottiene un effetto sovversivo insopportabile per l’ordine costituito. Ma non penso che questo sia sufficiente, perché l’égaliberté parla di diritti e di capacità, individuali o collettivi, e questo non basta a determinare ciò che prima abbiamo definito «desiderio comunista».


Politicamente, dove si indirizza lo «sforzo», nel senso del conatus spinoziano, dei comunisti?
Beh, ecco che entriamo nel vivo delle più interessanti convergenze e divergenze tra i vari teorici del «postmarxismo» contemporaneo. Tutti si rifanno a Spinoza, ma non tutti lo leggono allo stesso modo. Per parte mia, non vedo difficoltà a interpretare il conatus nel senso di una «attualizzazione della potenza nella storia» senza una fine predeterminata. Sarei anche tentato di parafrasare una celebre formula di Derrida dicendo che abbiamo a che fare con un «profetismo senza profezia», o senza altra profezia che quella data dal proprio «sforzo», dall’incremento della propria potenza di agire e della propria autonomia.


Il riferimento a Spinoza è utile anche perché spiega molto bene che i movimenti di massa hanno bisogno di una profezia carica di immaginario, quindi più ambivalente. Non esiste politica senza immaginario di massa.
Le divergenze più forti sorgono sul tema dell’organizzazione. Io ho affermato che il conatus spinoziano è «transindividuale», Negri ha detto che il suo soggetto è la «moltitudine». Io ne ho tratto la conclusione che in Spinoza la politica è sempre organizzata, ha bisogno di mediazioni istituzionali; mentre per Negri essa deve mantenere un che di «selvaggio», nel quadro di un’opposizione radicale tra autonomia e organizzazione. Si tratta di una divergenza politica, ma anche profondamente metafisica. Ma ciò non ci impedisce di fare tante cose assieme…


L’orizzonte di un «diritto alla differenza nell’uguaglianza» ha come obiettivo un’uguaglianza che neutralizza le differenze, bensì «la condizione e l’esigenza della diversificazione delle libertà», come lei ha scritto. Il comunismo come può «stare» a questa riflessione?
È proprio su questo tema che si potrà pensare una transizione da una concezione «rivoluzionaria borghese» dell’uguaglianza a una concezione «comunista». Si deve precisamente passare dall’altro lato dell’equazione, ossia a una concezione della libertà che sovradetermina l’uguaglianza. La libertà borghese è universale, quindi universalizzabile, ma non è veramente differenziale. Cioè la rivolta che produce è all’insegna del diritto comune degli esseri umani a non essere discriminati per le loro differenze antropologiche. Ma questa libertà borghese si astiene dal fare positivamente di queste differenze e del loro libero gioco il contenuto e, per così dire, la tessitura ontologica dell’uguaglianza. Includere l’affermazione delle differenze all’interno dell’idea di comunismo non è un gesto filologico ma performativo: una forzatura del significato tradizionale di comunismo che tende ad adattarlo alla nostra concezione dell’universalismo.

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