lunedì 16 gennaio 2017
Barzellette di Zizek al I Congresso Globale Pan-Post-operaista. "Beni comuni" e fine dello Stato-nazione: il comunismo degli Innocui Maestri che piace alla borghesia internazionale
Enzo Traverso: il sole dell’avvenire nel XXI secolo
Comunismo17. Dopo
la sconfitta della sinistra, i movimenti sociali sperimentano nuove
forme di vita ma sono indifferenti alla questione del potere
Enzo Traverso Manifesto 18.1.2017, 17:31
Un secolo fa, dopo aver conquistato il potere in Russia, i
bolscevichi lottarono per impedire il tracollo economico istituendo uno
stato d’eccezione che prese il nome di «controllo operaio». Le
maestranze che si erano impadronite delle fabbriche costringevano i
padroni espropriati e gli amministratori a dirigerle, sorvegliandoli. Da
sole, non sarebbero state capaci di far funzionare gli stabilimenti. I
loro picchetti armati trasmettevano un’immagine di forza e
determinazione ma nascondevano in realtà la loro debolezza. Una nuova
classe dirigente — industriale, tecnica, amministrativa — doveva essere
creata dal nulla. Oggi, i dirigenti delle grandi multinazionali
intascano cifre astronomiche elaborando strategie finalizzate
all’aumento dei profitti, ma i salariati delle loro imprese non
avrebbero difficoltà ad assicurare o riconvertire la produzione di merci
incomparabilmente più complesse rispetto a quelle prodotte agli albori
del fordismo.
I PRESUPPOSTI del socialismo — innanzi tutto
un’economia tesa al soddisfacimento dei bisogni collettivi anziché alla
ricerca del profitto — sono largamente presenti nelle società del XXI
secolo, anche quelle meno avanzate, in misura ben più grande di quanto
non fossero al tempo della rivoluzione d’Ottobre. Ancor più di allora,
il capitalismo è diventato un immane flagello, non perché non sia in
grado di produrre ricchezza — ne crea anche troppa — ma perché fonte di
mostruose disuguaglianze sociali — non può generare beni senza
diffondere simultaneamente povertà ed esclusione — alle quali si
aggiungono sprechi e disastri ecologici. Perché allora, se tutte le
condizioni sono riunite per farlo, non cambiamo sistema? Forse i dilemmi
del XXI secolo sono racchiusi in questo interrogativo.
Benché possa essere formulata in modi diversi, la tesi della «servitù
volontaria» non mi ha mai convinto. Se il capitalismo non è mai stato
così forte e arrogante, è perché ha vinto il primo e il secondo — a
lungo incerto — round del match storico che da due secoli lo confronta
ai suoi nemici. Durante il Novecento, ci siamo abituati a considerare
vittorie e sconfitte come scontri militari: le rivoluzioni conquistavano
il potere con le armi, le sconfitte si traducevano in colpi di stato e
dittature fasciste. La sconfitta che abbiamo subito alla svolta del XXI
secolo, tuttavia, va misurata con criteri diversi.
IL CAPITALISMO ha vinto perché è riuscito a plasmare
le nostre vite e il nostro habitus mentale, perché è riuscito a imporsi
come modello antropologico. Gli eserciti più potenti non sono
invincibili. I contadini del Vietnam, uno dei paesi più poveri del
mondo, sono riusciti, attraverso una lotta che non ha nulla di retorico
definire eroica, a sconfiggere prima il colonialismo giapponese, poi
quello francese e infine, nonostante i bombardamenti al napalm,
l’imperialismo americano. Quel che fino ad oggi non siamo riusciti a
fermare è un processo di reificazione universale che, come una piovra,
ha avvolto il pianeta intero.
Forse è questa la principale ragione per la quale i movimenti che nel
corso dell’ultimo decennio hanno messo al centro della loro azione la
critica del capitalismo — Occupy Wall Street, los Indignados, la Nuit
debout, No Tav, ecc. –— non hanno mostrato grande interesse per le
discussioni strategiche (organizzazione, alleanze, rappresentanza,
leadership) ma un fortissimo desiderio di sperimentare nuove forme di
vita comune (riappropriazione dello spazio pubblico, partecipazione,
deliberazione collettiva, inventario dei bisogni, critica della
mercificazione dei rapporti sociali). Quando sono riusciti a varcare una
soglia affrontando il problema della rappresentazione politica e del
potere, sono stati schiacciati da rapporti di forza sfavorevoli (come
Syriza in Grecia) o hanno dovuto gestire le contraddizioni che derivano
dal fatto di muoversi in seno a un sistema che volevano scardinare (come
Podemos in Spagna).
La sinistra sembra invece aver completamente disertato il terreno sul
quale nel secolo scorso aveva accumulato notevole esperienza e
registrato numerosi successi: la rivoluzione armata. In questo campo, lo
spazio è interamente occupato dal fondamentalismo islamico che,
attraverso un’impressionante «regressione» storica, ha sostituito la
Sharia all’anticolonialismo e ai movimenti di liberazione nazionale.
L’esperienza del comunismo novecentesco nelle sue diverse dimensioni —
rivoluzione, regime, anticolonialismo, riformismo — si è esaurita ed è
stata archiviata, come pure quella socialdemocratica, resa possibile nel
dopoguerra sia da un’onda lunga di espansione economica sia
dall’esistenza stessa dell’Urss, che costringeva il capitalismo a
riformarsi e modificava i rapporti di forza tra le classi nel mondo
occidentale.
I NUOVI MOVIMENTI anticapitalisti di questi ultimi
anni non appartengono a nessuna di queste tradizioni del secolo scorso.
Non hanno una genealogia. Essi rivelano maggiori affinità — non tanto
dottrinali quanto piuttosto culturali e simboliche — con l’anarchismo
delle origini: egualitario, antiautoritario, anticoloniale e perlopiù
indifferente a una visione teleologica del socialismo come risultato di
una presunta legge della storia. Orfani, essi devono reinventarsi.
Questa è al contempo la loro forza, perché non sono prigionieri dei
modelli ereditati dal passato, e la loro debolezza, perché sono privi di
memoria; sono nati da una tabula rasa e non hanno elaborato il lutto
delle sconfitte del Novecento. Sono creativi ma anche fragili perché non
possiedono la forza dei movimenti che, coscienti di avere una storia,
agivano nel solco di una tradizione.
I membri dei partiti comunisti s’illudevano di camminare nel senso
della storia ma sapevano di appartenere a un movimento che trascendeva
il loro destino individuale. Ciò li aiutava a combattere (e talvolta a
vincere) nei momenti più tragici. I nuovi movimenti hanno un rapporto
diverso con la politica, che mi sembra si possa definire in larga misura
strumentale, benché non cinica: la «usano» senza farsi illusioni. Sanno
che la democrazia va reinventata e sono del tutto indifferenti alla
sacralità delle istituzioni. Così si spiega la vasta mobilitazione
intorno alla candidatura di Bernie Sanders negli Stati Uniti e il
successo di Jeremy Corbin in Gran Bretagna.
MOLTISSIMI ATTIVISTI della campagna di Sanders non
hanno votato per Hillary Clinton e la maggior parte dei sostenitori di
Corbin non erano membri del Partito laburista, vi hanno aderito non per
riformarlo ma perché hanno visto in Corbin un’occasione per rompere il
consenso neoliberale che regna nella politica britannica, senza
soluzione di continuità, dai tempi di Margaret Thatcher. Sanders e
Corbin sanno benissimo che il futuro dei loro movimenti dipende da quel
che succederà al di fuori del Partito democratico e di quello laburista.
Altrettanto strumentale è il voto che in Italia molti attivisti dei
movimenti sociali di questi ultimi anni hanno dato e danno al Movimento 5
Stelle, indifferenti tanto al carisma del suo leader quanto alle
diatribe settarie degli eredi del vecchio comunismo.
Forse la forma organizzativa che più si addice a questi nuovi
movimenti, è il federalismo della I Internazionale, agli antipodi del
centralismo gerarchico del Komintern. L’Associazione Internazionale dei
Lavoratori riuniva correnti ideologiche diverse, dai marxisti agli
anarchici, e in essa coesistevano partiti, sindacati, movimenti di
liberazione nazionale, circoli di varia natura. Oggi abbiamo bisogno di
federare e far dialogare esperienze diverse, senza gerarchie, in modo
«intersezionale», anziché circoscriverle su basi ideologiche. Forse per
questa ragione la Comune di Parigi è riscoperta come straordinaria
esperienza di autogoverno dei beni comuni anziché come prefigurazione
dell’Ottobre russo. I suoi protagonisti non assomigliavano alla classe
operaia industriale del Novecento; erano artigiani, lavoratori precari,
giovani intellettuali e artisti, donne senza una professione; la trama
sociale eterogenea e precaria delle loro esistenze ricorda quella dei
giovani di oggi.
LA DIFFERENZA risiede nel fatto che i movimenti
attuali agiscono su un terreno profondamente segnato da una sconfitta
storica. Il convegno romano dei prossimi giorni rilancia il dilemma già
formulato da Rosa Luxemburg allo scoppio della Grande Guerra: socialismo
o barbarie. Viste le condizioni in cui versa il mondo di oggi, questa
scelta appare terribilmente realistica e concreta. Nel formularla,
tuttavia, non abbiamo più diritto a nessuna ingenuità. La barbarie non è
una minaccia all’orizzonte ma un’esperienza largamente vissuta durante
il secolo scorso e tuttora presente in buona parte del mondo; il
socialismo non è un’idea nuova e l’esperienza del passato prova che
anch’esso può trasformarsi in una faccia della barbarie. Non possiamo
rimuovere questa consapevolezza ma non dobbiamo neppure permetterle di
paralizzarci.
***Dopo aver insegnato in Francia per oltre 20 anni, Enzo
Traverso è attualmente professore alla Cornell University. Il suo lavoro
di storico si concentra sull’Europa contemporanea, e soprattutto sulla
storia delle idee politiche e intellettuali della prima metà del XX
secolo, con un’attenzione particolare al totalitarismo. Ha insegnato in
varie università d’Europa e dell’America Latina. tra le sue opere vanno
ricordati i saggi: «Cosmopoli. Figure dell’esilio ebraico-tedesco», «Il
passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica», «A ferro e
fuoco. La guerra civile europea», «Il secolo armato. Interpretare le
violenze del Novecento», «Che fine hanno fatto gli intellettuali?» e il
recente «Malinconia di sinistra».
Roberto Finelli: il comunismo del sentire
Comunismo17. Nuove
antropologie. Intervista al filosofo Roberto Finelli sul progetto di
un’utopia concreta post-capitalista. Come costruire una lotta politica e
sociale a partire da un’idea più ampia di libertà. "Bisogna accedere a
un ideale più ricco di libertà per il quale la libertà non è più solo la
libertà liberale come libertà di, o la libertà comunista
intesa come libertà da, ma libertà come affrancamento dalla paura di
rimanere soli con se stessi. E quindi libertà anche, e direi
soprattutto, come libertà di accedere senza terrorismi al proprio
sentire
Roberto Ciccarelli Manifesto 18.1.2017, 17:18
Un’utopia postcapitalista e postcomunista è alla base del
ripensamento radicale del pensiero marxiano condotto da Roberto Finelli.
Il filosofo romano propone una doppia strategia: da un lato, sganciare
Marx, e il marxismo, dall’«antropologia della penuria» che vede la
ricchezza nell’accumulo di beni e servizi legati al soddisfacimento di
bisogni solo materiali e a un’autorappresentazione ancestrale e
primitiva di sé; dall’altro lato, considerare il comunismo come un nuovo
rapporto tra l’autonomia dei singoli e l’autorealizzazione dell’altro.
La sua riflessione ha raccolto l’eredità della critica
dell’autoritarismo e del pensiero della differenza e dialoga con
un’originale lettura psicoanalitica del concetto di libertà e un
materialismo spinozista fondato sul nesso corpo-mente.
In questa prospettiva qual è l’eredità della rivoluzione sovietica?
Al di là dell’ovvia constatazione dell’enorme importanza storica di
questo primo tentativo di realizzare il comunismo, tutta l’esperienza
sovietica, nelle sue diverse fasi, si è strutturata su un’antropologia
monocolturale dell’eguaglianza. Valore assolutamente legittimo,
ovviamente, anche a partire dall’antropologia della penuria e della
miseria storico-sociale di quei tempi, ma che risentiva di una
definizione di questo valore evidentemente troppo riduttiva e
unilaterale. E anche tale da giustificare una gestione autoritaria e
totalitaria, con qualsiasi mezzo possibile, della realizzazione e
distribuzione dell’eguaglianza, intesa anch’essa come valore
totalitario. Questa considerazione ci permette di ritornare sui limiti
dell’antropologia dello stesso Marx che, oltre a essere il grande
scienziato del capitale, ancora oggi indispensabile e insuperato per la
lettura del presente, ci ha però offerto un’antropologia che si è
confrontata molto poco con le tematiche dell’individuazione, delle
differenze, e del riconoscimento, presenti invece diffusamente nella
filosofia hegeliana. La rivoluzione è stata un’occasione mancata, io
credo, di fecondare il valore della socializzazione con quello
dell’individuazione. Da qui si deve ripartire per ripensare il presente.
Con quali strumenti?
La rivoluzione sovietica è stata il primo tentativo di realizzare una
nuova antropologia, fallito oltre che per la reazione esterna per i
limiti della sua gerarchia di valori. Oggi sono necessari nuovi
esperimenti con un’antropologia fondata sulla pienezza e sull’intreccio
di due assi relazionali: quello orizzontale della relazione con gli
altri e quello verticale della relazione con il proprio sé. Una ripresa
dell’utopia concreta potrebbe permettere di concepire e praticare
istituti della socializzazione che siano contemporaneamente istituti del
riconoscimento.
Quali sono?
Potrebbero essere luoghi di produzione di beni materiali e culturali a
doppia matrice: processi produttivi che, mentre lavorano l’oggetto e il
mondo esterno, contemporaneamente lavorano il soggetto. Ossia, in altri
termini, luoghi di produzione con una duplice valenza ecologica:
produzione di beni che non entrino in contraddizione con il genere umano
e contemporaneamente secondo modalità produttive che non entrino in
contraddizione con la realizzazione emozionale e psichica del proprio
sé.
È d’accordo nel definire questo progetto di politica
comunista in termini di un nuovo umanesimo? Una categoria complessa da
usare oggi, non trova?
Sì, ne sono consapevole, ma non rinuncio a questa categoria. Facciamo un
caso concreto. Ad esempio la scuola. Si potrebbe lanciare in Italia la
proposta utopica di un’estensione dell’obbligo scolastico a 18 anni, di
un rifiuto di qualsiasi connessione tra processo educativo e processo
lavorativo, con la generalizzazione obbligatorio di un liceo unico di
alta qualità a tutta la popolazione scolastica: un liceo
classico/scientifico organizzato sulla comunità del gruppo classe, cioè
di una collettività di studenti, in relazione ma autonoma con la classe
docente, e che, nel mentre realizza il percorso di un’educazione comune,
pratica attraverso l’amicizia ( la philia) la formazione di un
collettivo capace di accogliere e lasciar essere le differenze
emozionali e di crescita dei propri membri. Penso che un nuovo umanesimo
si possa coniugare solo a partire da un nuovo materialismo che per me
significa partire dal corpo rispetto a una mente che freudianamente
segue sempre il corpo e che viene sempre dopo il corpo. Perché è nel
corpo emozionale di ciascuno di noi che si iscrive la nostra
individualità e la sua irripetibilità rispetto a tutti gli altri: in un
corpo che è deposito genetico della storia familiare, sociale, culturale
che ci ha generato e che è in pari tempo il fondo del nostro futuro, in
quanto il luogo emozionale-biologico che con il suo sentire dirige la
nostra vita, anche quella logico-mentale e linguistico-comunicativa.
Senza riconoscere nel corpo biologico ed emozionale di ognuno la fonte
materialistica del senso e di ogni etica dei valori, come ben aveva
inteso Spinoza, non c’è rinascita possibile né di materialismo né di
comunismo.
Tentativi in questa prospettiva sono stati fatti dai
movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta ai quali ha dedicato
spazio nei suoi libri. Cosa ha funzionato e cosa no?
Allora non c’è stata una sufficiente mediazione tra la cultura
dell’uguaglianza e quella dell’individuazione e della differenza. La
repressione della cultura tradizionale e monocorde dell’uguaglianza è
stata così violenta che, a mio avviso, ha condotto all’estremizzazione
la cultura spinoziana del desiderio e dell’individuazione, per cui non
si è riusciti a praticare la mediazione di quei due assi, orizzontale e
verticale di cui parlavo.
Come riprendere questa strada?
Solo praticando un percorso di esperienze in gruppi diffusi che
rifuggano dal praticare dentro di sé lo schema dell’amico e del nemico e
riescano a praticare il lasciar essere delle differenze, unificate però
da obbiettivi comuni. Altra strada non vedo perché ogni politica della
rappresentanza diventa rappresentanza alienata e abbandonata al teatro
della rappresentazione. Del resto credo che oggi sia necessario partire
dalla constatazione di «soggettività povera», in termini di massa, una
soggettività svuotata dai processi accumulativi della ricchezza astratta
del capitale, ma che nello stesso tempo viene mistificata a sé medesima
nel suo apparire come soggettività approfondita e ricca di relazioni e
informazioni.
Come si fa a boicottare questa soggettività e iniziare un nuovo percorso di soggettivazione?
È indispensabile ripartire dal mondo della scuola, dell’istruzione e
della conoscenza. Sono stati l’oggetto della più grande devastazione
compiuta dalla classe dirigente del Pci per transitare da classe di
opposizione a ceto di governo. Oggi tutta la formazione scolastica è il
luogo di un genocidio della nostra gioventù. Sarebbe necessario
contrastare questo svuotamento dei cervelli che crea solo forza-lavoro
abile e ubbidiente ai programmi e alle schede di lavoro depositate nelle
macchine e nella tecnologia informatica. E dunque riorganizzare
l’intera filiera dell’educazione. A cominciare da un anno sabbatico di
assegnare ai docenti della scuola primaria e secondaria ogni cinque anni
d’insegnamento nella classi e da trascorrere con un serio percorso di
aggiornamento e di studio presso istituti di cultura e in primo luogo le
università. Giacché questo implicherebbe una riorganizzazione profonda
anche della docenza e della ricerca universitaria, oggi soprattutto
nelle facoltà umanistiche sprofondata in un autoriferimento e in una
specializzazione, assai più spesso filologica che non filosofica, e del
tutto incapace perciò di proporre visioni d’insieme e sistemi
complessivi di cultura e di civiltà.
Che ruolo occupa la conoscenza in questo progetto neo-comunista?
La conoscenza è ovviamente fondamentale, purché conoscenza significhi
non solo società del «conoscere», ma anche società del «riconoscere». O
meglio società del «riconoscersi» come possibilità per ogni individuo di
entrare con il minor grado di censura possibile in comunicazione con se
stessi. Bisogna coniugare un nuovo umanesimo, una nuova filosofia
politica, che accolga dentro di sé la complicazione psicoanalitica dei
concetti di società e di libertà, per la quale libertà e società
designano non più solo un ordine esteriore ma rimandano anche a un
ordine interiore, riferito a quell’individuo formato da mille individui,
quale ciascuno di noi è. Credo insomma che sia necessario, per la lotta
politica e sociale, accedere a un ideale più ricco di libertà per il
quale la libertà non è più solo la libertà liberale come libertà di, o la libertà comunista intesa come libertà da,
ma libertà come affrancamento dalla paura di rimanere soli con se
stessi. E quindi libertà anche, e direi soprattutto, come libertà di
accedere senza terrorismi al proprio sentire. Insomma società della
conoscenza, ma solo se integrata da una società del sentire, perché il
conoscere non è il sentire. A me sembra che oggi la capacità di sentirsi
ed emozionarsi, in questo mondo formato da un’immane raccolta di merci,
sia divenuta la merce più rara, quando addirittura introvabile.
***Roberto Finelli è professore di Storia della Filosofia
all’Università di Roma Tre. Ha pubblicato numerosi studi dedicati al
pensiero di Marx, Hegel e Freud e le loro influenze sul pensiero
contemporaneo. Si è occupato a lungo, e si occupa tuttora, di
antropologia ed epistemologia psicoanalitica, pubblicando numerosi saggi
sull’argomento e curando per i tipi della Newton Compton una nuova
edizione di diverse opere freudiane. È fondatore e direttore della
rivista elettronica «Consecutio temporum. Hegeliana, Marxiana,
Freudiana» e co-direttore della rivista «post filosofie». Da segnalare
Un parricidio mancato. Il rapporto tra Hegel e il giovane Marx; (Bollati
Boringhieri, 2004) e Un parricidio compiuto. Il confronto finale di
Marx con Hegel» (Jaca Book).
Toni Negri e il comunismo come processo costituente continuo
Intervista a Toni Negri. La
presa del potere rimane sempre il nodo da sciogliere. Ma non si pone
più come in passato. Occorre costruire istituzioni che prefigurino già
la nuova società
Francesco Raparelli Manifesto 18.1.2017, 17:16
Tra i più importanti filosofi politici mondiali, Toni Negri non
smette di pensare il problema del comunismo. Per farlo, si colloca
nell’unica posizione che conta: quella dei movimenti reali. Con lui
abbiamo ripreso il filo della riflessione sulla crisi del
neoliberalismo, ma abbiamo soprattutto insistito sui nuovi soggetti
produttivi e le loro potenzialità rivoluzionarie.
Ne «Il lavoro di Dioniso» (con Michael Hardt) il modo di
produrre contemporaneo viene descritto insistendo sulla centralità dei
«prerequisiti di comunismo»; essendo il linguaggio, gli affetti, la
mobilità divenuti pilastro della valorizzazione capitalistica. Invece di
cancellare questa diagnosi, la crisi esplosa nel 2008 sembra
confermarla. Concordi?
In quel libro si trattò, in fondo, di riassumere una serie di
elementi di analisi del lavoro e delle sue trasformazioni; analisi
avviata molti anni prima, a partire dalla ricerca collettiva di Potere
Operaio. Era una critica del movimento operaio tradizionale, fondata
sulla mutazione profonda della composizione tecnica e politica della
classe operaia. In particolare, ci apparivano radicalmente cambiati i
processi di soggettivazione. Le lotte studentesche, soprattutto dopo il
1986 (come cominciai a chiarire in Fine secolo), sussumevano molti
aspetti delle lotte operaie di allora; così come il lavoro informatico,
digitalizzato, cominciava a conquistare centralità in queste ultime.
Già nel 1986, e poi nel ’94-’95 in Francia, i conflitti enormi che
esplodono – dal sapere alla salute, dai servizi urbani alla previdenza –
insistono sul terreno della riproduzione e si articolano su quello
metropolitano. È chiaro, dunque, che la crisi successiva al 2008 non fa
altro che attaccare questo nuovo contesto. Di più: si tratta di una
crisi che tenta di stabilire una forma di governabilità, come sempre
succede in questi casi, sopra una modificazione radicale del soggetto
produttivo.
In un saggio dedicato a Lenin, Lukács sosteneva che non si dà
materialismo storico senza afferrare l’attualità della rivoluzione come
«sfondo dell’epoca». Tale attualità sembra ormai introvabile. Di fronte
alla barbarie della crisi e della guerra, la rivoluzione è nuovamente
l’unica alternativa?
Certamente è venuta meno ogni mediazione tra il livello del comando come
si configura oggi nella sua dimensione finanziaria e il contesto
generale nel quale opera il lavoro vivo. Venuta meno questa mediazione, è
evidente che un processo rivoluzionario non può che essere la soluzione
di una contraddizione tanto radicale quanto insuperabile. Tuttavia
occorre chiarire cosa significa, oggi, rivoluzione. Già nei miei scritti
degli anni ’80 c’era un’attenzione ai comportamenti attivi, alla
produzione di soggettività che emergeva dalla nuova condizione
proletaria. Credo che parlare di rivoluzione non significhi più parlare
della rottura fra comando e resistenza, forme del capitale fisso e
passività attiva del lavoro vivo nei confronti del comando, e quindi
della rottura della dialettica. Non è più questo il problema centrale.
Ma è quello di capire quali siano i comportamenti, i livelli di
organizzazione, la capacità di espressione che ha il nuovo proletariato.
Perché, quando si dice «non c’è soluzione se non la rivoluzione», si
dice una cosa ormai banale. Il problema non è sapere se è necessaria,
piuttosto sapere come è necessaria e come è possibile. Escludere ogni
soluzione riformista, implica oggi più che mai una soluzione
processuale, definita dalla costruzione di istituzioni di contropotere
reale.
L’altro elemento da tener presente, oltre la forma del processo, è il
fatto che quest’ultimo si sviluppa interamente sul terreno della
riproduzione: la produzione è subordinata alla riproduzione; la fabbrica
alla società; l’individuo al collettivo che si forma nella società. Ci
si trova di fronte alla necessità di costruire istituzioni del comune,
non come risultato ultimo del processo rivoluzionario, ma come
condizione dello stesso. Da questo punto di vista penso che si tratti di
parlare dell’attualità della rivoluzione al presente, non come
attualità di qualcosa a venire.
Torna in auge, nella scena contemporanea (dal bolivarismo ai
populismi di sinistra europei), il tema dello Stato. Di più: la
necessità, per i subalterni, di «farsi Stato». Una ripresa in forze di
Gramsci, letto spesso con le lenti di Togliatti. Può darsi esperienza
comunista senza critica radicale della forma-Stato?
È chiaro che la critica radicale della forma-Stato è necessaria, ma per
molti versi superflua. Nel senso che, se è vero quello che dicevamo
prima, e cioè che si è data una rottura completa della mediazione, la
stessa funzione dello Stato non può più essere recuperata in termini
riformisti: è una funzione semplicemente oppressiva. Da questo punto di
vista, lo Stato è qualcosa di parassitario; come tale, non può più
collocarsi nella riflessione rivoluzionaria. Detto questo, però, bisogna
stare attenti, perché il problema non è l’uso dello Stato in quanto
tale.
In qualsiasi fase di transizione non si può che praticare l’uso di
strumenti generali come quelli che offre lo Stato. Per rovesciarli,
evidentemente; per scarnificarli, mano a mano, dal carico di potere
(oppressivo) che essi hanno in se stessi. Il vero nemico, dunque, è il
feticismo dello Stato. Oggi esistono posizioni, non più ragionevoli, che
nel considerare gli usi di certe funzioni pubbliche – affermate nella
costituzione dello Stato – feticizzano la sovranità, l’autonomia del
potere statale, comprimendo a dismisura la libertà delle lotte. Un
feticismo di avanguardie che stanno sopra i movimenti reali – gli unici
che trasformano il sociale. Occorre precisare, poi, che dietro il
feticismo dello Stato ci sono sempre due ideologie/comportamenti: l’una è
quella dell’avanguardia; l’altra è quella anarchica, dell’immediatezza,
dell’apertura messianica. È di questi riferimenti che bisogna
sbarazzarsi.
La tua militanza comunista è cresciuta nelle lotte
straordinarie dell’«operaio massa»; per poi incontrare, già nei tardi
anni ’70, l’«operaio sociale»: nuova figura proletaria esito della
scolarizzazione, dell’espansione del welfare, delle lotte per il rifiuto
del lavoro. Queste stessa figura, nel mezzo della crisi, si presenta
nel segno della precarietà. Cosa significa, su questo terreno, militanza
comunista?
Significa riuscire a trasformare la sofferenza del bisogno, della
mancanza, nella costruzione di un «noi» desiderante. Nella flessibilità e
nella mobilità, imposte dal regime neoliberale, aumenta la sofferenza
individuale. Il collettivo, invece, va portato con forza dentro la
«condizione operaia» contemporanea. La socialdemocrazia è stata incapace
di cogliere, nella forma stessa del welfare e del lavoro che gli stava
dietro, la necessità di esaltare il collettivo, l’insieme, e cioè il
fatto che le singolarità vivono nel rapporto tra loro. Nella riscoperta
di un collettivo cooperante può nascere oggi un nuovo spirito comunista.
Evidentemente sono necessari passaggi materiali per capire come si
procede dal bisogno al desiderio. Penso alla vecchia formula:
appropriazione, istituzione e presa del potere. Appropriazione è la
pressione che si esercita sul salario e sul reddito. Il momento
ulteriore è quello istituzionale: riconoscersi e agire come «noi».
Passaggio fondamentale, in nessun caso riducibile all’immediatezza o
alla presa di coscienza pura. Poi c’è il problema della presa del
potere, che non è cosa mitica ed è fenomeno del tutto diverso da come
l’abbiamo conosciuto: perché è la messa in atto di un processo
costituente continuo, che non si blocca mai su forme istituzionali
prefissate, ma che apre sempre le istituzioni a nuove capacità di
consenso, di coesione, di cooperazione. E tutto ciò, ormai, deve
avvenire sul terreno della riproduzione.
C’è stata una cosa formidabile lo scorso autunno: la manifestazione
delle donne di Roma. Un fatto che ha innovato, perché non è stata
semplicemente una manifestazione contro la violenza di genere, quanto
una dichiarazione fondamentale contro lo sfruttamento della donna inteso
come elemento legato a tutte le forme del politico, così come oggi si
presenta. Questo è il terreno biopolitico sul quale ci si muove.
Mezzadra: «Superare l’illusione dello Stato-Nazione come argine al capitalismo predatorio»
Comunismo17. Intervista
a Sandro Mezzadra: "La crisi del ciclo politico ventennale in
Latinoamerica deriva dal ripiegamento dei governi «progressisti» sulla
dimensione nazionale e dall’assunzione dello Stato come centro
privilegiato, se non esclusivo, del processo di trasformazione e
governo. Il problema del potere rimane un problema fondamentale per la
politica comunista. Si tratta di ripensarlo tanto sul lato del capitale
quanto su quello della composizione del «lavoro vivo»
Francesco Raparelli Manifesto 18.1.2017, 17:00
La ricerca di Sandro Mezzadra, da qualche anno compiuta in
relazione con Brett Neilson, qualifica una discontinuità teorica nella
tradizione qualificata come operaista: mobilità della forza lavoro e
dimensione globale della governance sono il terreno decisivo su cui si
misurano categorie analitiche e proposta politica.
In «Border as a Method», viene presentata una originale
«costellazione» del capitale. La nozione di «moltiplicazione del
lavoro», in particolare, afferra in modo perspicuo la «grande
trasformazione» nella quale siamo immersi. È ancora possibile una
politica comunista prendendo sul serio l’irriducibile molteplicità delle
figure dello sfruttamento da voi così ben censita?
Il mio lavoro con Brett, Border as Method ma anche il nuovo libro che
abbiamo appena finito di scrivere (The Politics of Operations.
Excavating Contemporary Capitalism), è un tentativo di definire un
metodo per comprendere criticamente la dimensione «globale». Credo che
fosse chiaro già in Border as Method: nel nuovo libro, in ogni caso,
affermiamo esplicitamente che questo metodo ha senso per noi nella
misura in cui nutre la ricerca di una politica comunista. La dimensione
«globale», dicevo. Marx pensa in questa dimensione, già nei suoi anni
giovanili, il comunismo. «Mercato mondiale» e «internazionalismo
proletario»: critica dell’economia politica e politica comunista hanno
per lui come sfondo il mondo. Una straordinaria «forza-invenzione» (per
riprendere una categoria dei nostri classici, dell’operaismo degli anni
Sessanta): è certo più facile oggi di quanto non fosse a metà
dell’Ottocento vedere le connessioni globali che legano la forza lavoro!
Poi, certo, pensare e agire una politica di questa forza lavoro globale
è un’altra storia. Le operazioni del capitale hanno efficacia globale:
come fronteggiarle? La nozione di «moltiplicazione del lavoro» segnala
tutte le difficoltà di questa impresa. Al tempo stesso, tuttavia, indica
anche – «in positivo», per dir così – qualcosa di fondamentale: una
politica comunista, oggi, non può che assumere come presupposto la
«molteplicità», l’irriducibilità della «differenza». La lezione
femminista, su questo punto, è per noi fondamentale.
«Dualismo dei potere» e «rivoluzione permanente», due
concetti chiave per pensare il 1917, di cui quest’anno ricorre il
centenario. Viviamo un’altra congiuntura. Eppure non possiamo in alcun
modo sfuggire, se vogliamo riflettere sull’attualità del comunismo, il
problema del potere. Quale dunque dei due concetti appena citati
salveresti?
Il «dualismo del potere» è per me una categoria di straordinaria
importanza. In The Politics of Operations cerchiamo di indicare,
chiudendo il libro, alcune linee di ricerca su questo tema. Ed è quasi
superfluo aggiungere che parlare del «dualismo del potere» significa
parlare di Lenin. Appena tornato in Russia, nell’aprile del 1917, Lenin
scrisse che dopo la rivoluzione di febbraio c’erano due poteri: quello
del governo provvisorio (il «governo della borghesia») e poi «un altro
governo, ancora debole, embrionale, ma tuttavia reale e in via di
sviluppo: i soviet dei deputati degli operai e dei soldati». Il genio di
Lenin, nelle condizioni assolutamente peculiari (irripetibili) della
guerra mondiale e della rivoluzione, consistette nell’indicare ai
bolscevichi il compito essenziale: attendere l’occasione per spezzare
quel dualismo, per organizzare l’insurrezione. Noi dobbiamo oggi
rivendicare il genio di Lenin: ma questo può significare soltanto essere
capaci di produrre – collettivamente – un’innovazione all’altezza di
quel genio. Non abbiamo tempo per caricature e scimmiottamenti. Certo,
il problema del potere rimane un problema fondamentale per la politica
comunista: ma si tratta di pensare – e agire – questo problema in
condizioni completamente nuove, tanto sul lato del capitale quanto su
quello della composizione del «lavoro vivo». In due parole – come linea
di ricerca e sperimentazione appunto: il nostro compito è pensare il
dualismo del potere come formula politica stabile, che articoli una
dinamica di lotta, trasformazione e governo attraverso l’istituzione di
un sistema di contro-poteri.
Il vento bolivariano dell’America Latina è da molti
interpretato, soprattutto in Europa, come rilancio della funzione
strategica, per il socialismo, dello Stato. Conosci lo scenario politico
latinoamericano e puoi chiarirci quanto anche oggi «socialismo in un
solo paese» sia proposta insufficiente…
Conosco l’America Latina, è vero. Ci sono stato a lungo negli ultimi
anni, ho seguito e in qualche modo vissuto i processi latinoamericani,
in particolare a partire dall’incontro con il colectivo situaciones di
Beunos Aires nel 2002. Che cosa è successo in America Latina negli
ultimi quindici, vent’anni? Un formidabile ciclo di lotte ha aperto gli
spazi al cui interno si sono sviluppate le esperienze dei nuovi governi
«progressisti» (e dobbiamo considerli tutti insieme questi governi,
nella loro eterogeneità, se vogliamo capirne qualcosa: Chavez e Lula,
Morales e Krichner). «Le lotte vengono prima»: non so se funziona
sempre, ma l’America Latina è un’illustrazione didascalica di questo
motto. E le lotte hanno assunto a partire dall’inizio del nuovo secolo,
in modo tanto tumultuoso quanto preciso, una scala continentale. I
governi «progressisti» si sono innestati su questa scala, e i processi
di integrazione degli anni 2000 sono stati una condizione essenziale
della loro forza. In diversi Paesi, quel che dicevo prima sul «dualismo
del potere» è sembrato trovare, sia pure a tratti e sempre in modo
profondamente contraddittorio, un’esemplificazione. Ma oggi siamo di
fronte alla crisi, all’esaurimento di quel ciclo politico.Quali sono le
ragioni di questa crisi? Rispondo molto brevemente, ma anche
chiaramente: da una parte il rallentamento dei processi di integrazione e
il ripiegamento dei governi «progressisti» sulla dimensione nazionale;
dall’altra l’assunzione dello Stato come centro privilegiato, se non
esclusivo del processo di trasformazione e governo. È una questione di
realismo politico: lo Stato, come ho scritto con Brett anni fa, non ha
la forza sufficiente per fronteggiare le operazioni del capitale globale
contemporaneo (né per spezzare il dominio del capitale, né per
«mitigarlo» attraverso riforme più o meno radicali). Come dire? È
necessario un altro potere; ed è necessario un altro spazio, al di là
della nazione.
I tuoi studi sul nuovo regime migratorio ci propongono da
tempo una riflessione sulle nuove gerarchie produttive segnate dalla
«linea del colore», ma anche e soprattutto sull’inadeguatezza di una
pratica politica incapace di attraversare e sostenere le lotte migranti.
È possibile conquistare istanze comuni rifiutando la segmentazione
etnica del mercato del lavoro e, soprattutto, la ripresa in forze, anche
a sinistra, della tematica nazionalista?
È la posta in palio. L’incontro con la migrazione, già a partire dagli
anni ’90, è stato per molti e molte di noi una specie di nuova scoperta
del mondo – o semplicemente la scoperta di quanto era cambiato il mondo.
Da quel momento, è vero, il tema della «linea del colore» è stato al
centro delle mie ricerche, ma anche dei miei continui tentativi di fare
politica. La migrazione mi ha mostrato, da un altro punto di vista
rispetto al femminismo, il rilievo strategico della «differenza».
Strategico nell’organizzazione dei rapporti di dominio e di
sfruttamento; ma strategico anche nella costruzione di una politica
della liberazione. Nessuno lo ha detto meglio di Audre Lorde, non a caso
una scrittrice e poetessa femminista, lesbica, nera. È un brano che
abbiamo citato in Border as Method; lo ripeto qui, in chiusura, come una
sorta di assioma per la politica comunista a venire: «è all’interno
delle nostre differenze che siamo più potenti e più vulnerabili; e
alcuni dei compiti più difficili delle nostre vite consistono nel
rivendicare le differenze e nell’imparare a utilizzarle come ponti tra
di noi invece che come barriere».
***Sandro Mezzadra insegna Filosofia politica all’Università
di Bologna. Il suo lavoro si è a lungo concentrato sulle varie questioni
in gioco nello sviluppo della teoria politica contemporanea. Negli
ultimi anni i suoi studi si sono particolarmente incentrati sulla
relazione tra globalizzazione, migrazioni, cittadinanza e trasformazioni
del lavoro, in dialogo con gli studi postcoloniali che ha contribuito a
introdurre nel dibattito italiano e spagnolo. Tra le sue opere: «La
condizione postcoloniale» (ombrecorte); «Nei cantieri marxiani»
(manifestolibri); «Confini e frontiere» (con Brett Nielsen, Il Mulino).
Balibar: il desiderio comunista di trasformare il mondo e se stessi
Comunismo17. Un’intervista
al filosofo Étienne Balibar. Il desiderio comunista si distingue da
quello cristiano investito dalla grazie e da quello di Nietzsche della
"cura di sé". E' un desiderio da concepire in termini materialisti
perché trasforma le proprie condizioni e quelle del mondo
Chiara Giorgi Manifesto 18.1.2017, 16:40
Étienne Balibar interverrà a «La conferenza di Roma sul
comunismo», il giorno 21 gennaio (ore 16, Esc Atelier Autogestito) su
«Poteri comunisti». Essendo tra i filosofi marxisti più noti e
autorevoli del dibattito europeo contemporaneo relativo ai temi della
cittadinanza e della democrazia, abbiamo deciso di intervistarlo al fine
di anticipare alcune delle questioni più salienti che verranno
affrontate durante la conferenza romana.
La rappresentazione che Marx aveva del comunismo era di alternativa al
capitalismo, il quale d’altronde ne preparava già le condizioni. Su
questo snodo si è aperta la grande questione attorno alla nozione di
transizione.
Lei ha osservato in «La filosofia di Marx» che la
«transizione» è invece «una figura politica della “non contemporaneità”
del tempo storico a sé, ma che rimane iscritta nel provvisorio». Non è
in questo antievoluzionismo e nel suo rinvio all’imprevisto del
comunismo?
L’idea di comunismo ereditata da Marx ha una storia lunga, che
attraversa tutta la modernità ed è legata a doppio filo con eresie
religiose e rivolte sociali. Marx stesso aveva inizialmente praticato
con convinzione le utopie associative romantiche, che rispondevano alla
rivoluzione industriale con progetti di riorganizzazione della società
ispirati a principi di uguaglianza e razionalità, dove il denaro era
abolito. Poi, pensò che si potesse dare fondamento scientifico alla
speranza comunista, iscrivendola nella linea dell’evoluzione storica
come il «modo di produzione» dell’avvenire, che avrebbe condotto una
società fatta di classi verso la società senza classi.Nella formula che
lei cita, ho provato a cercare in Marx degli elementi (e ce ne sono) che
contestino questa forma di evoluzionismo fondamentale, con l’intento di
restituire alla politica quella dimensione di incertezza e di
creatività che le è propria e volendo concepire l’alternativa come un
bivio più che come un punto di arrivo. Ho cercato in questo modo di
avvicinare Marx alle prospettive rivoluzionarie attuali, che vanno al di
là del fallimento catastrofico di quel «comunismo evoluzionista»
incarnato dalle esperienze socialiste del XX secolo.
«Cambiare il mondo» per «trasformare noi stessi», è una delle idee forza in Marx….
Sono d’accordo a presentare le cose in questo modo, a condizione però di
fare due precisazioni. La prima è che Marx non ha mai messo
unilateralmente l’accento sul tema del «comune» e della «comunità» a
scapito dell’individualità. È proprio questo che lo distingue dai
romantici e dai nostalgici delle società precapitalistiche, in cui
l’individuo era soggetto alla totalità.
L’uso alienante che il capitalismo fa dell’individualismo (peraltro oggi
aggravato ulteriormente dal discorso neoliberista e dalla sua
estremizzazione del modello della concorrenza universale tra gli
individui) conduce inevitabilmente a valorizzare il «comune». Marx cerca
una formula esistenziale per cui – come dice il Manifesto comunista –
lo sviluppo di ognuno è condizione della comunità e vice versa. La
seconda precisazione è che intendo attribuire un senso forte
all’espressione «desiderio comunista». Il desiderio comunista è il
motore dell’impegno comunista. È un desiderio in un certo senso
irrealizzabile, perché infinito, ma è possibile concepirlo in modo
«materialista», non tanto sottoponendolo a condizioni, ma introducendo
al suo interno il desiderio delle proprie condizioni, riassunto in forma
allegorica dall’espressione «trasformare il mondo». Questo distingue il
desiderio comunista dal desiderio cristiano, da un lato, che aspira
all’«uomo nuovo» investito dalla grazia, e, dall’altro lato, da quel
desiderio nietzschiano ben riassunto da Foucault nella formula della
«cura di sé».
Le immagini del comunismo sono molte, tra esse Althusser
scelse quella presente nell’«Ideologia tedesca»: il comunismo come «il
movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». È anche la sua
immagine?
Torniamo al problema di poco fa: questa formula magnifica è soggetta al
rischio di essere interpretata in modo evoluzionistico, per cui il
comunismo sarebbe il senso ultimo della storia. Per fortuna la frase è
equivoca. Con essa si sgombera il campo da un’interpretazione del
comunismo come idea regolativa, e si afferma l’«immanenza» del comunismo
alle lotte del presente e alle trasformazioni che queste ultime
producono nella società e nei suoi attori.
Nel contesto attuale, di attacco feroce alla democrazia, ne è
possibile una ri-significazione a partire da conflitti agiti in nome di
rinnovate istanze di «égaliberté»? È l’insurrezione a essere nuovamente
la modalità attiva della cittadinanza?
Quello che mi sembra importante nella proposizione dell’égaliberté è il
fatto che si tratta di un’idea borghese (o «civico-borghese»), che ha
però al suo interno un’imprescindibile dimensione rivoluzionaria,
insurrezionale, eccedente (o «iperbolica»). Ecco perché l’égaliberté
torna in primo piano ogni volta che forme di resistenza e invenzioni
emancipatrici entrano in conflitto con modalità istituzionali fondate
sulla dominazione di classe (o, più in generale, su una gerarchizzazione
sociale). Ma il rapporto genealogico e dialettico tra l’idea borghese
di insurrezione e le forme della politica comunista non è semplice.
Detto questo, le circostanze comportano a volte semplificazioni
strategiche: la «postdemocrazia» che si sta sviluppando oggi sotto il
nome di governance è talmente antitetica rispetto a qualunque idea di
cittadinanza attiva che già iscrivendo la politica sotto il segno di
questa tradizione borghese si ottiene un effetto sovversivo
insopportabile per l’ordine costituito. Ma non penso che questo sia
sufficiente, perché l’égaliberté parla di diritti e di capacità,
individuali o collettivi, e questo non basta a determinare ciò che prima
abbiamo definito «desiderio comunista».
Politicamente, dove si indirizza lo «sforzo», nel senso del conatus spinoziano, dei comunisti?
Beh, ecco che entriamo nel vivo delle più interessanti convergenze e
divergenze tra i vari teorici del «postmarxismo» contemporaneo. Tutti si
rifanno a Spinoza, ma non tutti lo leggono allo stesso modo. Per parte
mia, non vedo difficoltà a interpretare il conatus nel senso di una
«attualizzazione della potenza nella storia» senza una fine
predeterminata. Sarei anche tentato di parafrasare una celebre formula
di Derrida dicendo che abbiamo a che fare con un «profetismo senza
profezia», o senza altra profezia che quella data dal proprio «sforzo»,
dall’incremento della propria potenza di agire e della propria
autonomia.
Il riferimento a Spinoza è utile anche perché spiega molto
bene che i movimenti di massa hanno bisogno di una profezia carica di
immaginario, quindi più ambivalente. Non esiste politica senza
immaginario di massa.
Le divergenze più forti sorgono sul tema dell’organizzazione. Io ho
affermato che il conatus spinoziano è «transindividuale», Negri ha detto
che il suo soggetto è la «moltitudine». Io ne ho tratto la conclusione
che in Spinoza la politica è sempre organizzata, ha bisogno di
mediazioni istituzionali; mentre per Negri essa deve mantenere un che di
«selvaggio», nel quadro di un’opposizione radicale tra autonomia e
organizzazione. Si tratta di una divergenza politica, ma anche
profondamente metafisica. Ma ciò non ci impedisce di fare tante cose
assieme…
L’orizzonte di un «diritto alla differenza nell’uguaglianza»
ha come obiettivo un’uguaglianza che neutralizza le differenze, bensì
«la condizione e l’esigenza della diversificazione delle libertà», come
lei ha scritto. Il comunismo come può «stare» a questa riflessione?
È proprio su questo tema che si potrà pensare una transizione da una
concezione «rivoluzionaria borghese» dell’uguaglianza a una concezione
«comunista». Si deve precisamente passare dall’altro lato
dell’equazione, ossia a una concezione della libertà che sovradetermina
l’uguaglianza. La libertà borghese è universale, quindi
universalizzabile, ma non è veramente differenziale. Cioè la rivolta che
produce è all’insegna del diritto comune degli esseri umani a non
essere discriminati per le loro differenze antropologiche. Ma questa
libertà borghese si astiene dal fare positivamente di queste differenze e
del loro libero gioco il contenuto e, per così dire, la tessitura
ontologica dell’uguaglianza. Includere l’affermazione delle differenze
all’interno dell’idea di comunismo non è un gesto filologico ma
performativo: una forzatura del significato tradizionale di comunismo
che tende ad adattarlo alla nostra concezione dell’universalismo.
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