lunedì 16 gennaio 2017

Fu Palmiro Togliatti a far arrestare Pio La Torre nel 1952 ma forse anche a commissionarne l'omicidio nel 1982, dopo essersi doppiescamente finto morto




Il prigioniero Pio La Torre
A novant’anni dalla nascita affiorano dagli archivi le carte su un episodio dimenticato: giovane capopopolo del Pci fu arrestato per una montatura poliziesca e per un anno e mezzo restò all’Ucciardone Senza l’appoggio del Partito

ATTILIO BOLZONI Rep 16 1 2017
C’è la firma del capoguardia, ci sono le impronte digitali che sporcano d’inchiostro il foglio matricolare dell’Ucciardone, ci sono i dati anagrafici del detenuto con il giorno e l’ora del suo ingresso alla seconda sezione: «La Torre Pio, figlio di Filippo e di Melucci Angela, nato a Palermo il 24 dicembre 1927, ivi residente in via Pasubio 11, sposato con Zacco Giuseppina, studente universitario arrivato alle 8,30 dell’11 marzo del 1950». Sotto la dicitura “contrassegni particolari”, è annotato anche un curioso dettaglio: «Porta con sé due ferri alle scarpe». Da una scheda scolorita dal tempo riaffiora la vergogna della prigionia di un ragazzo che – tanti anni dopo – sarebbe diventato
un simbolo dell’altra Sicilia, un comunista romantico che ha attraversato tre decenni di vicende italiane sino allasua morte violenta avvenuta per mano mafiosa (e non solo) il 30 aprile del 1982.
In una mezza dozzina di pagine è segnata la storia carceraria di un capopopolo imprigionato per una montatura poliziesca, la falsa testimonianza di un tenente della minacciosa “Celere” – i reparti di repressione impiegati nell’ordine pubblico dal ministro dell’Interno Mario Scelba – che ha trascinato Pio La Torre fra le mura della fortezza borbonica dopo un’adunata per l’occupazione delle terre. Una detenzione ingiusta, lunga, diciassette mesi in attesa di giudizio. Con l’Ucciardone che era diventato la residenza abituale di contadini rastrellati nei campi e di sbandati agli ordini di Salvatore Giuliano, il “colonnello” che voleva la Sicilia come quarantanovesima stella della bandiera degli Stati Uniti d’America. La Torre ha condiviso le ore d’aria con i sottocapi della banda, c’era Frank Mannino e c’era Antonio Terranova detto “Cacaova”. Rinchiuso in isolamento anche Gaspare Pisciotta, il cugino traditore di Turiddu che – proprio all’Ucciardone, nel febbraio 1954 – sarà avvelenato da un caffè alla stricnina che gli chiuderà per sempre la bocca. Un carcerato come tutti gli altri. Incatenato durante le udienze del suo dibattimento nel salone di Palazzo Steri, che secoli prima era stata sede dell’Inquisizione. Il suo primogenito Filippo lo vedrà per la prima volta nei bracci, avvolto in un sacco trasportato da una guardia. E mentre lui aspettava una sentenza che sembrava non arrivare mai – l’assoluzione è del 23 agosto 1951– fuori il suo partito lo aveva messo sott’accusa, un processo in stile staliniano per tutti i dirigenti della federazione palermitana accusati di “attività frazionistica”. Una sofferenza nella sofferenza che è finita con un «controprocesso» voluto da Paolo Bufalini, appena nominato da Togliatti vicesegretario regionale del Pci in Sicilia. Il partito fu commissariato, la “linea” cambiata e La Torre riabilitato.
Il foglio matricolare dell’Ucciardone è stato ripescato negli archivi su richiesta del ministro della Giustizia Andrea Orlando, sollecitato dalla famiglia del leader comunista. Carte che raccontano un’Italia lontana, dove anche un ragazzo di ventitré anni rappresentava un pericolo per un potere che assicurava impunità ad agrari e mafiosi. Nella scheda ci sono vari appunti, alcuni illeggibili e altri decifrabili. Come questo: «Nota Bene. La locale Questura con nota n. 5/ 162 del 21/8/1950 avvisa che quando il La Torre venga incarcerato o trasferito altrove sia avvisata per tempo». O come quest’altro: «Lesioni continuate contro agenti di PG per avere il La Torre del fatto di esserne stato l’organizzatore e il direttore».
Tutto era cominciato nel feudo di Santa Maria del Bosco del barone Inglese, duemila ettari di terra incolta che sfiorava il paese di Bisacquino. Il corteo, poi le camionette di Scelba cariche di soldati. Colpi di zappa e colpi di fucile, un ufficiale che indica La Torre e gli sputa addosso: «È lui l’uomo che mi ha colpito con un bastone». Poche ore dopo, il giovane comunista è all’Ucciardone con alcune centinaia di contadini, ai ceppi come un brigante. E senza l’appoggio del partito. I capi del Pci siciliano avevano già aperto un’”inchiesta” contro la federazione palermitana e destituito anche il segretario provinciale Pancrazio De Pasquale, spedito per la «rieducazione » alla scuola di Frattocchie e poi in esilio a Genova.
In carcere La Torre legge le opere di Gramsci, di Labriola, gli scritti di Lenin. Un giorno – è il 25 febbraio ‘51 – scrive a Paolo Bufalini: «Caro compagno, dobbiamo riconoscere che il partito nella nostra provincia non ha reagito sufficientemente al colpo subito nel marzo scorso... dobbiamo rendere coscienti le grandi masse popolari della vera portata di questa lotta... ». Bufalini fa pubblicare la lettera sull’Unità. Pochi mesi dopo cadono le imputazioni e Pio La Torre riprende la sua vita da dove l’aveva cominciata. Dalla Federterra al consiglio comunale di Palermo con Vito Ciancimino e Salvo Lima dall’altra parte della barricata, l’elezione all’Assemblea regionale, il Parlamento, la lunga battaglia nella prima commissione parlamentare antimafia, la sua lucidità e la sua ostinazione per avere in Italia una legge sul reato di associazione mafiosa e sul sequestro dei beni ai boss. Un’esistenza di frontiera. Fino all’agguato.
Il giorno dopo la sua morte sbarca in Sicilia il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, mandato dal Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini – su proposta dello stesso La Torre – a fare il prefetto a Palermo. Chiedono i giornalisti al generale: perché hanno ucciso Pio La Torre? E Dalla Chiesa risponde: «Per tutta una vita». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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