lunedì 16 gennaio 2017

I bookmakers inglesi accettano già scommesse su quando si scioglierà Sinistra Inutile. Feroce scontro tra chi vuole andare con il PD e chi con il Partito Democratico



Sfida delle tessere e patto del rispetto. Così gli ex Sel si preparano allo scontro 


Sinistra italiana. Sedici deputati scrivono al comitato nazionale: delegittimarsi a vicenda è la fine prima dell’inizio 

Daniela Preziosi Manifesto 16.1.2017, 15:24 
«La cultura dell’intolleranza è incompatibile con il progetto politico che insieme stiamo animando». Annunciato ufficialmente il congresso di sinistra italiana – sarà a Rimini dal 17 al 19 febbraio – partono ufficialmente anche le prime polemiche. Sedici parlamentari ex Sel – la metà del gruppo, composto di 31 – scrivono ai colleghi e al comitato promotore e chiedono di abbassare i toni del confronto interno. L’appello pone un tema delicato, quello di riconoscere «sotto e oltre le differenze di posizioni un nucleo condiviso di umanità e dignità, che nessuno tra noi può scalfire, deridere». Il riferimento è all’aria di scontro ruvido che da tempo si respira fra area radicale del ’mai con il Pd’, capitanata da Fratoianni e Fassina, e area possibilista di Smeriglio e Ferrara che conserva un’idea di coalizione, peraltro idea fin qui solo teorica visto che non è chiaro né l’esito della legge elettorale né quello del rilancio di Renzi all’interno Pd in corso in queste stesse ore. 
C’è un riferimento ad un episodio concreto. Nei giorni scorsi un deputato ha definito l’ex sindaco Pisapia come animatore del «partito dei maggiordomi». Parlava a nuora perché suocera intendesse. È noto che un pezzo di Sinistra italiana continua a mantenere un dialogo con l’ex sindaco. Un dialogo anche pubblico: domani a Lecce, nella Puglia di Vendola, all’appuntamento di Campo Progressista ci saranno lo stesso Pisapia, il senatore leccese Dario Stefàno, il sindaco di Cagliari Zedda. Ma anche il vicepresidente della Regione Lazio, Massimiliano Smeriglio: quest’ultimo, dei tre, è l’unico transitato nel nuovo partito. E deciso a confrontarsi al congresso fino all’ultimo voto. Ma tira un’ariaccia, appunto. «In questi giorni», scrivono i sedici deputati, «abbiamo letto in rete espressioni e toni totalmente estranei a questa cultura politica», «considerare qualcuno di noi come “maggiordomo” di Renzi instilla l’idea che chi dissente o avanza dubbi rispetto a una delle linee in campo oggi nel nostro dibattito meriti lo stigma, di essere esposto al pubblico ludibrio». C’è anche la richiesta esplicita – tristemente speculare a quanto accade nel Pd – «di cambiare linea o di andarsene» nei confronti di quelli che considerano essenziale «interloquire con tutte le forze e le personalità dell’area progressista interessate a voltare pagina rispetto alle politiche sbagliate e fallimentari del renzismo e a costruire un nuovo progetto di governo del paese». La conclusione è la proposta di un «patto»: «Invertiamo la rotta, torniamo a rispettarci e ad ascoltarci. È la precondizione perché Sinistra Italiana abbia un futuro». A firmare sono i deputati di quest’area: Bordo, D’Attorre, Duranti, Ferrara, Fava, Folino, Kronbichler, Martelli, Melilla, Nicchi, Piras, Quaranta, Ricciatti, Sannicandro, Zaratti e il capogruppo Arturo Scotto. 
Il contesto è noto, almeno ai militanti. Pisapia tenta di organizzare la sinistra a sinistra del Pd, ma la goffaggine e l’intempestività delle sue prime uscite gli hanno consigliato di rallentare. Anche perché Renzi, affaccendato a capire il suo futuro, latita. Fuori dall’orbita del Pd Civati propone una Costituente per il programma. Si sarà della partita? Sì, secondo i pronostici. 
Invece sull’area dei sedici deputati ex Sel – si chiama Alternative – fin qui gravava il sospetto di preparare una scissione per confluire nella teorica formazione di Pisapia in vista delle eventuali e altrettanto teoriche primarie del centrosinistra. Invece, a dispetto dei boatos, Alternative si prepara a congresso. E si dà da fare. Fin qui le tessere del nuovo partito sono meno di cinquemila. Il termine per l’iscrizione è il 28 gennaio. Ma da qualche settimana qualcosa si muove. Nel Lazio, ma non solo. C’è chi teme le truppe cammellate e corre ai ripari. È probabile che alla fine il tesseramento si attesterà sugli 8mila militanti, comunque un tonfo rispetto alla sola Sel che nel 2013 dichiarava 35mila iscritti. Certo, un’era politica diversa. 
L’attivismo delle opposte aree potrebbe fornire un po’ di adrenalina al confronto congressuale fin qui incanalato su binari prevedibili. I candidati al momento ufficialmente non ci sono. I loro nomi saranno proposti all’apertura del congresso da almeno un decimo dei delegati. È certa, benché mai confermata, la corsa di Nicola Fratoianni, ex coordinatore di Sel, favorito. E benedetto da Nichi Vendola di cui è collaboratore dai vecchi tempi della Rifondazione; è stato anche assessore della sua giunta in Puglia. Al suo fianco c’è Stefano Fassina, ex Pd – che oggi vede come fumo negli occhi – pronto a dare battaglia per inserire nel programma il superamento dell’euro.
Dall’altra parte invece non è ancora certa la sfida del trentenne Marco Furfaro, capofila della nuova generazione, attivo nelle battaglie per i diritti e per il reddito di cittadinanza. Il «patto» per un clima interno diverso potrebbe convicerlo. Ma soprattutto il tempo: quello che c’è, se c’è, per costruire una forza ambiziosa. Prima di scommettersi l’osso del collo alle elezioni politiche.

Si va a congresso: «Noi, un cantiere alternativo al Pd»
Sinistra italiana. Il 17 febbraio a Rimini, a fine mese chiude il tesseramento. Subito dopo il primo test, le amministrative
Manifesto 12.1.2017, 23:59
Slittato a dopo il referendum costituzionale, il congresso fondativo di Sinistra Italiana è ora in arrivo: si terrà dal 17 al 19 febbraio al PalaCongressi di Rimini e sarà preceduto il 4 e 5 dello stesso mese dalle assemblee territoriali per il voto sui testi congressuali e l’elezione dei delegati.
Lo hanno annunciato ieri in una conferenza stampa alla Camera il senatore Peppe De Cristoforo e Alfredo D’Attorre, coordinatori dell’esecutivo provvisorio, insieme all’ex ministro Fabio Mussi e alla giovane Rosa Fioravante che hanno coordinato l’elaborazione della mozione del documento politico. Che, nel caso, verrà emendato. Il cuore del congresso sarà la scelta della linea politica, dello statuto e l’elezione degli organismi: presidente, direzione e naturalmente segretario. Le candidature ancora non ci sono. L’ex coordinatore di Sel Nicola Fratoianni è in pole position, con la benedizione di Nichi Vendola. Ancora incerta la corsa di altri papabili, che del resto non abbondano.
Il documento base si intitola «C’è alternativa»: 16 tesi, quelle di una forza che sarà «europeista ma radicalmente critica», «di governo non governista», che contesta «il mantra del mercato, della libera circolazione dei capitali e del lavoro precario». E propone la lotta all’illegalità, un “green new deal” e il “fortissimo investimento” su scuola, università e ricerca. Quanto alla legge elettorale, è per il proporzionale dopo una lunga stagione di preferenza per il Mattarellum. Si sarà infatti una forza «autonoma», leggasi non propensa a coalizzarsi con il Pd: «Tornerà di certo il tema delle alleanze per il governo. Ma con rapporti di forza mutati», dice la tesi 15. L’uscita dalle formule generali sarà appunto l’oggetto del congresso.
«Non siamo degli ‘alfani’ qualunque», scherza Mussi. Per ora, spiega De Cristofaro, «per noi ‘alleanza’ significa anzitutto ricostruire un legame con milioni di persone che in tutti questi anni hanno smesso di guardare alla sinistra come a una soluzione per i mali e le difficoltà del Paese». Il senatore indirizza un blando invito all’ex compagno di strada Giuliano Pisapia, pronto invece ad allearsi con Renzi: «Piuttosto che dar vita a operazioni politiche di altro genere mi auguro che possa confrontarsi sui temi di Sinistra Italiana, a partire dall’alternatività alla situazione politica di questi anni». «È l’unico cantiere democratico a Sinistra per un’alternativa il Pd», assicura invece D’Attorre, «mettiamo a disposizione di tutti, dei tanti elettori che non hanno più una casa, la possibilità di costruire un nuovo soggetto».
Elettori e iscritti sono infatti la sfida più seria del nuovo partito. I primi si misureranno già alle prossime elezioni, e al netto delle possibili politiche le prime saranno le amministrative. Con test importanti: come quelle di Genova, dove fin qui il sindaco Marco Doria governa in alleanza con il Pd e un cambio di alleati rischierebbe di consegnare la città a qualcun altro. Quanto agli iscritti, il tesseramento online sarebbe stato poco smagliante, almeno fin qui. Ma non ci sono ancora i dati ufficiali. Verrà chiuso il 28 gennaio

“La lezione non è servita su lavoro, fisco e welfare bisogna svoltare a sinistra” L’ex segretario dem Pier Luigi Bersani: “Si rischia di tornare a sbattere. Il M5S? Non è destra, senza di loro ci sarebbe di peggio”STEFANO CAPPELLINI Rep 16 1 2017
ROMA. Pier Luigi Bersani, ha letto Renzi su “Repubblica”? Rifare il Pd con più cuore, valori e ideali.
«Ho letto, ma se il punto di partenza della sua analisi è che il referendum è stato perso a destra ”perché tanto i compagni ci sono”, cominciamo male. Il renzismo non ha capito la lezione, si rischia di tornare a sbattere ».
E dove è stato perso?
«Nell’idea schematica e datata che per la vittoria dei Sì bisognasse fare affidamento su una fantomatica maggioranza silenziosa. Si insiste a voler inseguire un centro che non esiste più, perché il ceto medio è oggi tutto dentro la crisi. Sta cambiando la geografia dell’esclusione. Polemizzo con un’idea di sinistra che si aggrappa ancora alle gloriose parole d’ordine della fase d’avvio della globalizzazione: flessibilità, merito, eccellenze. Basta».
Renzi cita il leader dei laburisti inglesi, Corbyn, per spiegare che con la sinistra- sinistra non si vincono le elezioni.
«E io invece penso che Bernie Sanders avrebbe fatto meglio di Hillary Clinton negli Stati operai decisivi per eleggere Trump. La fase è cambiata, il ripiegamento della globalizzazione, che ha portato grandi conquiste, ha lasciato scorie velenose. Primo, le democrazie nazionali non padroneggiano più la finanza, l’immigrazione, la guerra e presto a queste voci bisognerà aggiungere farmaci e brevetti. Secondo, le disuguaglianze si sono fatte galoppanti non tra Paesi, ma all’interno dei Paesi. Terzo, il ciclo tecnologico ha esaurito la fase rivoluzionaria e oggi toglie lavoro. La parola d’ordine è protezione. Serve una sinistra protettiva sui suoi valori».
Lei accusa Renzi di “blairismo rimasticato” ma a masticarlo è stata la sua generazione di leader della sinistra.
«Errori ne sono stati fatti. Abbiamo lasciato correre l’idea che lo Stato fosse sempre sostituibile o surrogabile dal mercato. Se ora non si cambia strada, si lascerà una occasione eccezionale a una nuova destra in formazione che non è un partito, bensì un campo di idee fondato su protezionismo, sovranismo e identitarismo».
Questa destra in Italia è il M5S?
«I 5stelle, pur con i loro limiti, tengono in un confuso standby qualcosa che potrebbe essere peggiore. Non capisco chi esulta per il rifiuto dei liberali europei di accoglierli. Sarebbe stato un passo avanti. Attenzione a come ci si rapporta al M5S perché a bastonare il cane tutti giorni, in tanti poi prendono le parti del cane».
Il populismo dei 5 stelle è spesso vicino a quello alla Trump o alla Le Pen.
«Non parliamo di populismo quando sarebbe più giusto parlare di demagogia, male da cui non siamo immuni nemmeno noi. Ricorda lo slogan referendario “meno politici”? Il nostro approccio dovrebbe essere alternativo alla destra e sfidante verso i 5 stelle. Il malcontento a volte si esprime in formazioni che non sono classicamente di destra, anche se in comune hanno il messaggio anti-establishment».
Il problema è che una parte di opinione pubblica considera la sinistra parte dell’establishment.
«Non sono insensibile a questa osservazione. La sinistra deve parlare con l’establishment, ma con una sua visione autonoma, altrimenti si perde il confine».
Confine perso anche nel rapporto con le banche?
«Quando da ministro varai la portabilità dei mutui avevo fuori dalla porta le banche che urlavano. Il problema del governo uscente è che sul tema non è stato percepito lineare. Si è avuto paura di annunciare in campagna elettorale un intervento pubblico di salvataggio che sarebbe stato tutt’altro che impopolare».
Avrebbe votato sì al referendum Cgil sull’articolo 18?
«Guardo avanti e dico: vediamo se c’è modo di fare un articolo 17 e mezzo. Servivano correzioni al vecchio articolo? Bene, però il lavoratore non va lasciato completamente in balia del mercato».
Le posizioni sul lavoro nel Pd sembrano inconciliabili.
«Divergenze ci sono sempre state, il fatto è che non se ne discute, come sul risultato delle amministrative. Vogliamo fare una cosa di buon senso sui voucher? Non cancelliamoli, ridimensionamoli. Ammettiamolo: ci sono scappati di mano e sono esterrefatto che ministero del Lavoro, Inps e Istat lo neghino ».
Lei non vuole dare scadenze al governo Gentiloni ma ha spiegato che la sinistra dem valuterà “misura per misura”. Non è una contraddizione?
«Immigrazione, jobs act, riforma della scuola, banche. Cose da fare ce ne sono. Che ragione c’è di fermare il governo? A 40 milioni di elettori cosa raccontiamo, che facciamo cascare a freddo un nostro governo?».
E la legge elettorale?
«Non capisco la passione di Renzi per il ballottaggio. Ragioniamo su un sistema elettorale con due pilastri: un incentivo ragionevole alla governabilità e la possibilità del cittadino di scegliere e i parlamentari. E non sottovalutiamo le virtù del Mattarellum nel compattare i soggetti politici».
Questione alleanze. Renzi rilancia la “vocazione maggioritaria” del Pd di Veltroni.
«Sul piano politico dobbiamo fare inversione a U sull’idea che il centrosinistra si riassume nel Pd e il Pd si riassume nel capo. Costruiamo un campo di idee e un fronte largo e plurale, anche slabbrato ai margini, come fanno a destra. E mettiamoci idee buone: il ritorno ai diritti del lavoro troppo umiliato, raro e precario, il ruolo dello Stato negli investimenti, la lotta alle disuguaglianze con il rilancio del welfare e la fine dei bonus. Prenda il fisco. Si dice: meno tasse. Ma a chi? Per fare cosa?».
Con quali iscritti il Pd andrà a congresso?
I dati sul tesseramento 2016 sono brutti.
«C’è una emorragia. Tanti compagni si sono disamorati, ma si vuol continuare a negare l’evidenza».
Non è anche un demerito della minoranza?
«Ribaltiamo la domanda: quanta gente ci sarebbe oggi nel Pd se non insistessimo a dire “dentro, dentro” mentre ci si grida “fuori, fuori”?».
L’Unità rischia di chiudere ancora.
«Occorre metterci mano con tutto l’impegno. Ma se all’albero togli le radici, non può dare foglie nuove. Vale anche per i giornali».
Il leader anti-Renzi è Speranza?
«Lo stimo, non è un segreto, è raro trovare giovani con la sua passione. Ma al di là dei nomi serve un segretario che si occupi del partito, sdoppiandolo dalla figura del premier. E non escludiamo a priori di pescare da campi che non sono del tutto sovrapponibili alla politica. Qualcuno può escludere che in giro ci sia un giovane Prodi?». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Quelle alleanze obbligatorie sulla strada del voto anticipato Renzi è in difficoltà: rimane lo strappo nel partito e la strategia sembra sbiaditaDI STEFANO FOLLI Rep 16 1 2017
 SE C’ERA bisogno di una conferma in merito alla durata della legislatura, essa è venuta dall’ampia intervista rilasciata da Matteo Renzi a questo giornale.
LA CORSA verso il voto anticipato da tenere fra aprile e giugno era soprattutto un tema propagandistico; o meglio, se si vuole, un modo per farsi coraggio dopo il disastro del referendum, sognando l’immediata rivincita. Oggi si impone il principio di realtà, il cui custode siede al Quirinale. E Renzi, con intelligenza, dice a Ezio Mauro che la data in cui si andrà a votare “mi è indifferente”. Che non sia del tutto sincero, non conta. L’ex presidente del Consiglio ha messo in campo la sua convenienza, distinguendo ciò che oggi può ottenere da ciò che invece può danneggiarlo.
Una corsa scomposta verso le urne, ben sapendo che il lavoro intorno alla nuova legge elettorale richiederà mesi, finirebbe in un vicolo cieco. Di tutto può aver bisogno il segretario del Pd tranne che di un’altra sconfitta, questa volta nelle manovre di palazzo, e magari di una fase di tensione con il capo dello Stato. Gli scenari sono cambiati dopo il 4 dicembre e non c’è che prenderne atto. Paolo Gentiloni è un uomo leale e consapevole di muoversi lungo uno stretto sentiero, ma oggi a Palazzo Chigi c’è lui e non Renzi. Quest’ultimo è il socio di maggioranza della compagine governativa, il che non è poco. Tuttavia non è sufficiente a determinare in modo automatico e semplicistico la durata dell’esecutivo e lo scioglimento del Parlamento. Il 4 dicembre non ha solo messo in crisi un premier che si riteneva forte e pressoché invincibile. Ha anche spostato di nuovo verso il Quirinale il pendolo del potere istituzionale. In parole povere, il presidente del Consiglio in carica è e resta il primo interlocutore del capo dello Stato. Situazione che può dare buoni risultati quando si crea una sintonia, come nel caso attuale. Ne derivano riflessi significativi sul piano delle priorità di governo, del rapporto con l’Europa, dei contatti con i centri di potere: dalle cancellerie alla Commissione, fino alla Banca Centrale. A Renzi spetta di occuparsi del Pd, ricostruendo un rapporto con l’opinione pubblica. E spetta soprattutto di tessere il filo della legge elettorale all’indomani della decisione della Consulta. Il che lo indirizza una volta ancora verso l’eterno Berlusconi: il partner di ieri che egli giocò quando si trattava di scegliere il presidente della Repubblica (fu eletto Mattarella in luogo di Amato).
Ieri la coincidenza ha voluto che sia apparsa sul “Corriere della Sera” un’intervista a Berlusconi in cui si affrontavano, come è logico, gli stessi temi: legge elettorale ed elezioni. Il parallelismo non è piaciuto a quanti, specie a sinistra, vedono con sospetto qualsiasi riavvicinamento fra Renzi e il fondatore di Forza Italia. Non è piaciuto nemmeno a coloro che considerano il solito balletto fra i due la prova che il sistema è incapace di rinnovarsi e tende a ripetere sempre gli stessi rituali. D’altro canto, dopo il successo del “no” referendario, la riforma elettorale impone una trattativa che può svilupparsi solo fra Pd e centrodestra. Il punto è che Berlusconi oggi ha in mano il bandolo della matassa. Sa cosa vuole - un sistema proporzionale - e non si preoccupa di apparire incoerente.
Renzi invece ha perso la sua occasione e oggi non ha più una linea strategica ben definita. Non a caso oscilla fra il sogno di una “democrazia all’americana” e la Democrazia Cristiana, in questo caso immaginando se stesso come il baricentro del sistema. Si prepara, cioè, a trarre il massimo profitto da un modello elettorale plasmato sul proporzionale più o meno corretto. Ma la Dc degli anni migliori era solo in parte il prodotto di un sistema elettorale. Sarebbe pericoloso ignorare oggi le differenze storiche e sociali fra due Italie molto lontane fra loro. E non sarà facile per Renzi, dopo esser stato una specie di Fanfani del Duemila, adattarsi a una guerra di logoramento nel Pd e nel paese, in un’Italia ingessata tipo quella della fine degli anni Ottanta. E allora non c’era Grillo.
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LE SFIDE DA VINCERE PER ESSERE LEADER MARC LAZAR Rep 16 1 2017
NEL SUO colloquio con Ezio Mauro, Matteo Renzi ci ha consegnato una riflessione critica sulla propria azione a Palazzo Chigi.
COME sembra lontano il tempo in cui era bardato di certezze, peraltro condivise con vari responsabili della sinistra fuori dall’Italia. Ricordiamo che a una festa dell’Unità, il 7 settembre 2014 a Bologna, tre leader pieni di entusiasmo — Matteo Renzi, Pedro Sánchez e Manuel Valls — sostenevano di voler aprire una nuova era della sinistra riformista. Il primo, oltre che segretario del Pd, era capo dell’esecutivo, come lo era Valls in Francia, mentre lo spagnolo Sanchez dirigeva il Psoe. Oggi, dopo il fallimento del referendum costituzionale, Renzi si è dimesso dalla presidenza del Consiglio; Pedro Sánchez è stato eliminato dalla direzione del suo partito; Manuel Valls non è più primo ministro, e parteciperà alle primarie — dall’esito quanto mai incerto — per la designazione del candidato socialista alle elezioni presidenziali del prossimo mese d’aprile. Ognuno di questi leader è confrontato con le realtà politiche, economiche e sociali dei rispettivi Paesi. Matteo Renzi deve rilanciare il Pd. Pedro Sánchez tenta di riconquistare il suo partito. Quanto a Manuel Valls, se vincerà alle primarie socialiste dovrà imporsi su due concorrenti — Emmanuel Macron al centro e Jean-Luc Mélenchon alla sua sinistra — e cercare di rivaleggiare con i candidati della destra e dell’estrema destra, François Fillon e Marine Le Pen. Al tempo stesso le loro traiettorie da meteoriti rivelano la portata della crisi — una della più gravi della sua lunga storia — in cui versa ormai da decenni la sinistra europea.
Eppure quei tre protagonisti — ma soprattutto Matteo Renzi e Manuel Valls, in quanto capi di governo — volevano dare una soluzione a questa crisi. Si proponevano entrambi di rilanciare la competitività delle imprese per favorire il ritorno della crescita e la creazione di posti di lavoro. Speravano di allentare l’austerità a livello europeo, mostrandosi al tempo stesso virtuosi grazie al risanamento dei conti pubblici e a una sempre maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Avevano promulgato diverse misure in campo sociale e in quello dei diritti civili (in Francia il matrimonio per tutti era stato approvato prima dell’arrivo al potere di Manuel Valls, mentre in Italia è stato il governo Renzi a far adottare la legge sulle unioni civili). Inoltre, Renzi ha tentato una riforma costituzionale che non ha equivalente in Francia. Il loro modo di fare politica presentava molte analogie — ad esempio nelle dure polemiche con le sinistre dei rispettivi partiti, che a loro volta non cessavano di attaccarli, e continuano a farlo. Combattevano i sindacati — la Cgil in Italia, la Cgt in Francia — che contestavano le loro riforme del mercato del lavoro; e infine cercavano di affermare uno stile di leadership molto personalizzato e quasi brutale, soprattutto nel caso di Manuel Valls, anche in seguito ai terribili attentati terroristici subiti dalla Francia. Queste politiche, portate avanti con esiti positivi ma anche con vari insuccessi, hanno diviso profondamente la sinistra, soprattutto in Francia dove il partito socialista rischia una grave batosta alle presidenziali, mentre il Pd può ancora contare su una base elettorale reale.
Al di là degli attuali giochi della competizione politica (i dibattiti sulle elezioni anticipate in Italia, sulla leadership della sinistra francese in vista delle presidenziali e sulle alleanze da favorire — con la sinistra radicale o col centro) la sinistra deve risolvere una serie di problemi essenziali, alcuni dei quali sono stati affrontati da Renzi nel suo colloquio. Ad esempio, come cambia il lavoro al tempo del digitale nelle nostre società presenti e future? Il lavoro dipendente continuerà ad essere organizzato allo stesso modo? E inoltre, la questione del divenire dell’Unione europea a fronte delle attuali minacce di disgregazione. L’at-teggiamento di larga parte dei ceti medi e popolari, dei giovani e di tutti coloro che soffrono delle crescenti disuguaglianze e si sentono minacciati, penalizzati o esclusi dall’evoluzione del nostro mondo. L’immigrazione, che sta sconvolgendo dalle fondamenta le nostre società. La questione della democrazia: da un lato il massiccio rifiuto dei partiti tradizionali, e dall’altro l’aspirazione a una maggior partecipazione, che dovrebbe passare anche per un cambiamento della classe politica, dell’esercizio della leadership e delle forme di adesione agli schieramenti. Infine, il problema dei cosiddetti populismi, che prosperano in questo clima, con le loro risposte semplici, e per ciò stesso seducenti. Nel segno dell’urgenza, la politica obbedisce a ritmi sfrenati. Ma su questi temi sia Renzi che Valls e Sánchez devono fare chiarezza, se vogliono avere un futuro. Le idee non mancano. Ma la loro enunciazione e attuazione provocheranno inevitabilmente profonde ricomposizioni politiche. E non solo a sinistra.
Traduzione di Elisabetta Horvat
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