mercoledì 11 gennaio 2017

Leonardo Benevolo

Proposte utopistiche tecnicamente fondate 
LEONARDO BENEVOLO. Tra scienza, storia e impegno sociale, dal «Progetto Fori» alla nuova fisionomia delle periferie. La sua è una profetica avvertenza dei rischi a cui è sottoposto il futuro incerto di Roma. Ha sempre creduto nel pensiero olivettiano sull’analisi e lo sviluppo del territorio urbano intesi come essenziali per le sorti di una democrazia
Maurizio Giufrè Manifesto 7.1.2017, 21:26 
Nella sua ultima lunga intervista rilasciata nel 2011 a Francesco Erbani, Leonardo Benevolo racconta di essere approdato alla scelta di diventare architetto attraverso la curiosità e l’attrazione per il paesaggio. Quando giunge a Roma nel 1941 da Novara lo affascina la geometria descrittiva, la sola disciplina in grado, attraverso il calcolo matematico, di impossessarsi dello spazio tridimensionale. 
QUESTO PROFONDO interesse per la scienza unito alla passione per la storia sono i due poli entro i quali graviterà nel corso degli anni l’impegno professionale di Benevolo, non solo quello di storico, ma anche quello di progettista di architetture e urbanista. Come rappresentante di quella figura ormai desueta di architetto-storico, ma più in generale di architetto-intellettuale, egli è stato tra i primi, nel 1960 – quattro anni dopo l’ottenimento della sua docenza a Roma (1956) – a scrivere una Storia dell’architettura moderna che non fosse «avversa» – come riconobbe Bruno Zevi – al Movimento Moderno. 
Lo storico Giovanni Klaus Koening scrisse che la Storia di Benevolo – per lui in assoluto «la più letta al mondo» – fu «un enorme sforzo di documentare con foto di prima mano delle architetture conosciute solo sulle riviste» scoprendo, per esempio, nelle sue «esplorazioni» il cattivo stato di conservazione del Bauhaus a Dessau di Gropius. La sua passione e impegno nell’attività di storico e di insegnante non gli impediscono di svolgere la sua attività professionale. In sodalizio con Carlo Melograni e Tommaso Giura Longo progetta la nuova sede della Fiera di Bologna (1964-1965), ma pochi anni dopo dà alle stampe Storia del Rinascimento (1968) e a distanza di un po’ di tempo, ma con progressione, Storia della città (1975) e Storia della città orientale (1988) tutte edite dall’editore Laterza. 
ALLA FINE degli anni Cinquanta Benevolo si avvicina sempre più ai temi della tutela e conservazione del patrimonio culturale e ambientale aderendo alle iniziative provenienti dai gruppi più vicini al movimento moderno. Aderisce all’Associazione dell’Architettura Organica (Apao) e attraverso l’esperienza del programma del Cepas e Unrra-Casas per l’Abruzzo – l’agenzia promossa dalle Nazioni Unite e dagli americani per la ricostruzione delle zone bombardate durante la guerra – ha l’opportunità di conoscere il mondo di Adriano Olivetti: stringe amicizia con Paolo Volponi, Attilio Bertolucci e Pasolini, lavora al fianco di Angela Zucconi e Manlio Rossi-Doria. È in quel contesto di umili genti alle prese con la costruzione di una scuola e le infrastrutture necessarie a uno sviluppare iniziative turistiche a supporto della modesta produzione agricola che Benevolo matura la convinzione «che l’architettura non dovesse nascere da altra architettura. Né per conformarsi né per contrastarla. E che invece dovesse formarsi in una realtà esterna, oggettivamente considerata». 
IN QUESTA COMPRENSIONE di ciò che si sarebbe dovuto chiamare «realismo», l’impegno (politico) di Benevolo proseguirà con le sue ricerche per il Progetto 80 e sullo «spreco edilizio» insiemi ad altri architetti e urbanisti «compagni di strada»: da Quaroni a Campos Venuti, da Giancarlo De Carlo a Italo Insolera, da Francesco Indovina a Giovanni Astengo. Il lavoro di Benevolo, sempre più segnato dall’impegno sociale, si muove nel non perdere un momento per denunciare la cattiva gestione del territorio. Lo stesso che sul piano giornalistico farà Antonio Cederna o su quello politico Fiorentino Sullo. 
Negli anni dell’insegnamento romano che durerà fino al 1976, anno delle sue polemiche dimissioni poco più che cinquantenne, si dedicherà molto ai problemi urbanistici ed edilizi della capitale. In un numero memorabile di Urbanistica, insieme ad altri (Insolera, Tafuri, Manieri Elia, ecc.) cerca di raccontare il nuovo piano regolatore di Roma, il primo dopo quello piacentiniano del 1931. Un piano che firmato da Piccinato e Quaroni doveva configurarsi «funzionale e moderno» ma che Benevolo riconobbe di recente «una cantonata» perché al momento della sua attuazione il piano restò inapplicato nelle sue linee-guida di crescita verso est, per salvaguardare il centro storico «attrezzando» infrastrutture e servizi nella periferia orientale della capitale. In questa riconosciuta inadeguatezza a occuparsi degli aspetti sia amministrativi sia economici dell’attuazione delle procedure di pianificazione Benevolo, forse, ci ha lasciato una profetica avvertenza dei rischi che oggi come ieri corriamo nel pensare il futuro di Roma. 
LA PRESENZA dell’economia finanziaria, oggi più scaltra dei proprietari fondiari di un tempo, con le sue numerose società immobiliari che si contendono ogni ettaro di suolo della capitale, è ancora lì a decidere la forma urbis romae. Benevolo ha sempre creduto nel pensiero olivettiano sull’urbanistica che veniva concepita «come una disciplina essenziale per le sorti di una democrazia».
Quando nel 1970 Luigi Bazoli (Dc) lo incarica per Brescia di redigere la variante generale al piano regolatore dimostra cosa significa interpretare in termini complessi un territorio, intrecciando dati fisici, sociali ed economici, sullo sfondo di una «comunità» di cittadini che vive e lavora. A Brescia Benevolo mette in atto una pianificazione che permette a Bazoli di «spezzare l’alleanza dei costruttori con gli utenti, emarginando i proprietari terrieri» complici dei costruttori. 
L’esperimento riuscì permettendo di salvaguardare il territorio comunale dallo scempio visto in altri città di un’edificazione senza controllo rispetto ai fabbisogni reali di crescita. È degli anni Settanta la realizzazione del Quartiere residenziale S. Polo (1973-1975): purtroppo solo in parte realizzato secondo le previsioni mancando il parco urbano. Tuttavia negli stessi anni si avvia anche il recupero di circa ottocento alloggi del centro storico ritornati dopo il restauro a essere occupati dalle famiglie che li possedevano senza produrre alcun effetto di gentrificazione. Per concludere non possiamo ricordare la figura e l’insegnamento di Benevolo senza menzionare, forse, il progetto che più l’ha tenuto impegnato fino ad oggi insieme al piano particolareggiato per il centro storico di Palermo (con Pier Luigi Cervellati e Insolera): la sistemazione dell’area archeologica centrale di Roma, altrimenti detto «progetto Fori» (1985-88). 
È probabile che quella sfida, della stessa natura di «groviglio inestricabile» del quale è fatta ogni pagina dell’urbanistica romana, restata aperta per mille questioni, perde oggi il suo principale protagonista. Se vorremo in un prossimo futuro ancora interessarci a come superare «l’incompatibilità fisica» tra l’antico e il moderno a Roma non si potrà che ritornare al lavoro di Leonardo Benevolo, ai suoi scritti e ai suoi disegni.
In un suo pamphlet del 1996, L’Italia da costruire, un programma per il territorio riferendosi alle «poche speranze» che il dibattito faceva presagire comunque esortava a non rinunciare, citando uno dei suoi maestri De Menasce, a «proposte utopistiche tecnicamente fondate». Quell’esortazione non può cadere nel vuoto.

Addio Leonardo Benevolo sognatore di città più giuste
FRANCESCO ERBANI Rep 7 1 2017
È morto a 93 anni a Brescia il grande studioso di architettura Iniziò con Olivetti, rivoluzionò l’urbanistica e le periferie
Leonardo Benevolo, che si è spento a 93 anni nella sua Cellatica, in provincia di Brescia, ha attraversato da storico dell’architettura e da urbanista l’intero secondo Novecento. Che è stato un periodo drammatico per il territorio italiano, i paesaggi e l’assetto delle città. I suoi volumi, editi da Laterza, hanno raccontato le origini della città e dell’urbanistica, una disciplina che, nei primi anni dell’Ottocento — raccontava — si specializzò per evitare che la rivoluzione industriale, che aveva disseminato stabilimenti nelle aree immediatamente esterne ai centri storici, minasse la salute e la qualità della vita di milioni di persone. Era dunque una disciplina che si proponeva di tutelare l’interesse generale e in particolare quello dei più deboli.
Benevolo era di formazione cattolico- democratica, ma seppe attingere ai repertori della socialdemocrazia europea. Sulle sue analisi si sono formati molti professionisti i quali hanno interpretato l’urbanistica come un servizio collettivo, un argine agli spiriti proprietari che sempre sono attivi nella costruzione della città. Benevolo ha vissuto molte esperienze, anche fuori dell’urbanistica, come l’insegnamento al Cepas, la scuola per assistenti sociali diretta negli anni Cinquanta da Maria e Guido Calogero e finanziata da Adriano Olivetti. È stato fra gli animatori del Progetto Abruzzo, insieme a Manlio Rossi-Doria e Angela Zucconi, che si proponeva una ricostruzione non solo materiale dei paesi abruzzesi distrutti durante la Seconda guerra mondiale. Il progetto faceva capo al community development, lo sviluppo di comunità di marca, appunto, olivettiana.
È stato comunque nell’urbanistica che Benevolo ha sperimentato la sua cultura e una sensibilità sociale e politica che oggi appaiono quasi un gesto eroico. «Io non faccio letteratura urbanistica », diceva. Si proponeva quello che era realizzabile, senza però piegarsi a un riformismo esangue. Guardava alle esperienze europee, la sua città doveva crescere pianificata, affidata al controllo pubblico.
Questi precetti lo hanno accompagnato nel lavoro con Carlo Melograni e Tommaso Giura Longo, poi con Ludovico Quaroni e Luigi Piccinato al piano regolatore di Roma negli anni Sessanta (che sarebbe diventato altra cosa rispetto alle premesse), nella pianificazione di Venezia, del centro storico di Urbino e di Palermo (insieme a Italo Insolera e Pierluigi Cervellati). Ma fra i suoi interventi emerge quello di Brescia, dove si trasferisce nel 1976. Chiamato da Luigi Bazoli, assessore all’urbanistica di una giunta democristiana sostenuta dai comunisti, ridusse a un decimo le previsioni edificatorie del piano regolatore, fece comprare dal Comune i terreni sui quali far crescere la città, li dotò delle infrastrutture e vendette ai costruttori il diritto a edificarvi concordando un prezzo. In questo modo tagliò le unghie a chi speculava sul valore delle aree. Una rivoluzione che realizzò nei fatti quel che la riforma del ministro Fiorentino Sullo proponeva per via legislativa — ma quella riforma fu fatta fallire prima di essere varata.
Dagli anni Settanta Benevolo era impegnato sul Progetto Fori, la ricomposizione dell’area archeologica centrale di Roma, con l’eliminazione della via dei Fori imperiali e la creazione «di un sublime spazio pubblico». In quel piano, redatto con Vittorio Gregotti, ebbe come compagni il soprintendente Adriano La Regina, Insolera, il sindaco Luigi Petroselli e soprattutto Antonio Cederna, amico di una vita. Non se ne fece nulla. «Il nostro progetto era troppo bello», disse forzando oltremisura la sua modestia. «Occorre essere pazienti », diceva Benevolo, citando Le Corbusier e rivolgendosi ai suoi colleghi più giovani, quei «protagonisti impazienti della scena attuale che arrivano al successo e si sentono prematuramente soddisfatti». «L’architettura», insisteva, «non è un’attività che si realizza producendo cose dall’oggi al domani ».

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