Esistono due discipline imparentate tra loro che spesso, come
accade in ogni famiglia degna di questo nome, si guardano in cagnesco.
La prima è la linguistica, scienza rigorosa che punta a una descrizione
fine dei più diversi fatti di parola: la sintassi e la grammatica, la
trasformazione fonetica o i problemi generati dal lessico di qualunque
lingua umana. La seconda, una strana creatura dal nome «filosofia del
linguaggio», sembra librarsi, eterea, nel cielo della speculazione
teorica. Non di rado questa diffidenza produce una cecità al quadrato.
La linguistica rischia di perdersi nel dettaglio, senza riuscire a
fornire uno sguardo di insieme circa il significato antropologico di
quel fenomeno, umano e multiforme, che chiamiamo «parlare».
DI CONTRO, LA FILOSOFIA del linguaggio mainstream
si ritrova sull’orlo di una crisi di nervi perché cede volentieri alla
tentazione di fare filosofia a partire da una lingua, la propria:
stranamente le forme più diverse che il linguaggio assume nella vita
umana non collimano con le idiosincrasie del parlante di Oxford o della
Stanford University.
Tullio De Mauro è stata una figura decisiva del Novecento italiano
poiché ha puntato a un profondo rinnovamento teorico proprio a partire
dall’incontro tra linguistica e filosofia. Ha lavorato con metodo a
smantellare la caricatura che contrapporrebbe il linguista pignolo al
filosofo evanescente. Ricerche divenute oramai classiche come la Storia linguistica dell’Italia unita (1963) o il Grande dizionario italiano dell’uso (Utet, 1999-2007) rischiano di mettere in ombra una parte decisiva della sua produzione intellettuale.
Tramite la traduzione (con note di commento teorico e ricostruzioni storico-biografiche tuttora imprescindibili) del Corso di linguistica generale
di Ferdinand de Saussure (1967), De Mauro ha offerto agli studiosi di
tutto il mondo il profilo di un pensatore decisivo per la riflessione
sul linguaggio del Novecento. Il titolo dell’opera non deve ingannare.
Si tratta di un testo fondamentale non solo per le scienze del
linguaggio. Saussure insiste, infatti, nel far vedere perché le lingue
siano dei fenomeni storici.
Negli scritti del Saussure esplorato da De Mauro diventa evidente
come le lingue siano per molti versi il cardine delle trasformazioni
storiche umane e degli assetti istituzionali. Il tempo delle lingue non è
il tempo della deriva dei continenti, né quello delle mutazioni
genetiche. È il tempo propriamente umano nel quale reale e possibile si
intrecciano in modo inscindibile: nel futuro anteriore di chi pensa a
come sarà il mondo dopo averlo ribaltato; nel congiuntivo delle Slinding Doors
che animano la vita di ciascuno («se quel giorno fossi tornato
prima…»), nel presente storico di chi parla del passato come se quel
momento fosse qui e ora.
Non importa si parli del ruolo della televisione nella diffusione
nazionale di una lingua standard, dei problemi presenti nel Tractatus di
Wittgenstein o nel rapporto di somiglianze e differenze tra la
comunicazione delle api e il linguaggio umano.
La dimensione storica rimane al centro di una produzione teorica
multiforme ma null’affatto sfocata. Senza cedimenti al pensiero debole
degli anni Ottanta, questo filosofo-linguista continua a far battere la
lingua dove il dente ancora duole. Si provi, oggi, a parlare della
storia come categoria decisiva per la filosofia del linguaggio e si farà
la fine di un centrifugato di verdure: sbarellati tra riduzionismo
evoluzionista (gli umani parlano perché conviene), rigidità del logico
(l’italiano è brutta approssimazione di un sistema formale) e le
suggestioni post-coloniali di chi si perde nella sfumature dello slang,
sempre anglofono, di Baltimora.
SENZA CONCEDERE NULLA al relativismo di chi sostiene
che in fondo il significato non esiste e tutto è interpretazione, De
Mauro insiste su un punto antropologico fondamentale. Non si pensa e poi
si parla; non si sente e poi si cerca di mettere in parole sentimenti
poiché la facoltà biologica del linguaggio è la lente focale in grado di
dare definizione ai nostri pensieri, alle nostre pulsioni e alle nostre
azioni. Se si tiene a mente questo nodo, il lavoro di ricerca teorica e
di insegnamento accademico di De Mauro mostra con chiarezza la coesione
che lo ha animato.
La facoltà è biologica, non c’è dubbio, ma senza storia essa è nulla:
ben che vada, può condurre allo sgambettio quadrumane di un piccolo
d’uomo allevato dai lupi. Le parole, infatti, non sono il prodotto
secondario di pensieri precedenti, ma una forma tipica della cognizione
umana: lavorare a vocabolari o lessici di frequenza significa spalancare
le porte a veri e propri laboratori viventi. Significa guardare dal
vivo il modo nel quale pensa, soffre e desidera un gruppo di parlanti in
carne e ossa.
Uno dei testi internazionalmente più noti, Introduzione alla semantica
(1965), insiste proprio su questo punto. L’obiettivo è la costruzione
di una piccola genealogia del Novecento nella quale individuare alcuni
riferimenti decisivi per chi concepisce il linguaggio come forma cardine
delle istituzioni e della vita umana: «primato della prassi», queste
sono le parole con le quali si conclude un libro che mette in fila il
linguista Saussure con i filosofi Benedetto Croce e Ludwig Wittgenstein.
Per la medesima ragione, ancora negli anni Novanta, durante i corsi
universitari alla Sapienza che De Mauro organizza con alcuni compagni di
viaggio della cosiddetta «scuola linguistica romana» era possibile fare
gli incontri più diversi.
DALLA LETTURA SISTEMATICA de La diversità delle lingue
di Humboldt si passava a un seminario sui sistemi di comunicazione dei
delfini. Il giovedì mattina il laboratorio per una scrittura
comprensibile e chiara (il contrario della mitologica «scrittura
creativa») era seguito dalla lettura delle Ricerche filosofiche, dalla discussione della semiotica di Louis T. Hjelmslev, della linguistica di Antonino Pagliaro o del libro Pensiero e linguaggio del sovietico Lev S. Vygotsky. E non vi era nulla di cui stupirsi.
De Mauro, il linguista in cammino che non aveva paura del web Morto a Roma a 84 anni. Alla testa del premio Strega, un’esperienza come ministro dell’Istruzione Tra cultura e impegno politico, ha studiato le trasformazioni dell’italiano e il ruolo dei dialetti Mirella Serri Busiarda 6 1 2017
«Sono un ostinato camminante», diceva di sé stesso: fino a qualche giorno fa per le strade alberate del romano quartiere Coppedè ci si poteva imbattere nel professor Tullio De Mauro che procedeva con la sigaretta in mano e il bavero del giaccone rialzato. Da ieri non incontreremo più il grande linguista, docente universitario, collaboratore di prestigiose testate come Il Mondo, che se n’è andato improvvisamente all’età di 84 anni.
Notissimo anche a livello internazionale per i suoi saggi, ministro dell’Istruzione dal 2000 al 2001, De Mauro, nato a Torre Annunziata, è stato uno dei più importanti intellettuali del Novecento e ha imposto straordinarie novità alla cultura italiana con le sue «camminate» scientifiche. Ha sempre avuto un «paso doble»: cultura e politica si sono strettamente intrecciate nella sua intensissima attività. È stato fondatore e presidente della Società di Linguistica Italiana, membro dell’Accademia della Crusca, animatore di ricerche di linguistica teorica, di storia della lingua, di semantica e di semiotica. E si è sempre impegnato anche nelle istituzioni: consigliere della Regione Lazio, presidente delle Biblioteche di Roma, è poi giunto alla carica di ministro. Nelle sue opere ha tenuto insieme le trasformazioni del linguaggio e quelle degli italiani, l’industrializzazione, i mutamenti sociali e l’importanza del cinema, della radio e della televisione, la dialettologia, il parlato comune (analizzato in Guida all’uso delle parole), la cultura popolare, la didattica e il ruolo degli insegnanti (approfonditi in Scuola e linguaggio).
Laureatosi in Lettere classiche nel 1956, De Mauro si è imposto all’attenzione dei lettori con L’introduzione alla semantica, che apriva orizzonti assolutamente sconosciuti per il pubblico dello Stivale, seguita da Senso e significato sui problemi della semiologia. Ha insegnato nelle università di Napoli, Chieti, Palermo e Salerno, per approdare alla Sapienza di Roma: rigoroso, sempre disponibile e per nulla severo, era amatissimo dai suoi allievi. A quelli che si lamentavano per la fatica degli studi ogni tanto ricordava che, diretto in pullman verso le sue sedi universitarie, aveva scritto diversi libri con il dizionario sulle ginocchia. Così aveva visto la luce un testo fondamentale: la traduzione, l’introduzione e il commento al Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure, che portava in Italia le rivoluzionarie acquisizioni del linguista ginevrino.
De Mauro era un parlatore facondo e ricco di aneddoti. Solo su una vicenda preferiva tacere: la tremenda scomparsa del fratello, il giornalista dell’Ora Mauro De Mauro che stava indagando, per conto del regista Franco Rosi, sugli ultimi giorni di vita di Enrico Mattei e che venne rapito da sconosciuti la sera del 16 settembre 1970, senza mai essere ritrovato.
Tra i molteplici interessi del docente un posto di rilievo toccava alla letteratura italiana: nella monumentale Storia linguistica dell’Italia unita, più volte ripubblicata, e nella Storia linguistica dell’Italia repubblicana De Mauro sovvertiva i canoni interpretativi e si applicava all’uso della lingua italiana nella poesia e nella prosa letteraria. Il suo cuore palpitava non solo per i grandi classici, Dante, Petrarca, Boccaccio, ma anche per gli autori moderni, da Leonardo Sciascia a Pier Paolo Pasolini ad Andrea Camilleri con cui scrisse La lingua batte dove il dente duole, dedicato al rapporto degli italiani con il dialetto «che non è solo la lingua delle emozioni. L’ho capito proprio in Sicilia, quando sono arrivato come professore all’università, accolto dalle famiglie dei colleghi che quando si mettevano a discutere abbandonavano l’italiano e scivolavano verso il dialetto».
Da presidente della Fondazione Bellonci che gestisce il premio Strega era solito dire che si sentiva con «le mani in pasta» ovvero che quell’incarico gli permetteva di captare i cambiamenti della letteratura più recente. Raccontava che il suo compito di ministro dell’Istruzione lo aveva aiutato ad allontanare tanti pregiudizi sul funzionamento della macchina burocratica e gli aveva fatto toccare con mano che «l’indice di produttività» di un paese è assolutamente interconnesso con il suo livello di cultura. Se ne era reso conto, per esempio, quando in Parlamento aveva risposto all’interrogazione di una deputata (che peraltro era insegnante). «Dissi: “L’onorevole preopinante” (colui che ha appena dubitato, opinato). Lei mi interruppe: “Come si permette di offendere?”».
Non a caso, lui che aveva curato il Dizionario della lingua italiana e il Grande dizionario italiano dell’uso, di recente si era rivolto sempre più all’analisi della perdita delle competenze linguistiche dopo la fine della scuola. Ma il professore era abituato a guardare avanti: nutriva così una notevole fiducia nel web e nella capacità di integrare insegnamento e uso della rete da parte di docenti e allievi. Il linguista-viaggiatore non amava mai fermarsi.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
Amava i numeri: per guardare in faccia la realtà del Paese Linda Laura Sabbadini Busiarda
Il linguista che amava i numeri. Non i numeri qualunque, i numeri ufficiali, su fenomeni rilevanti socialmente, per misurare il progresso sociale e culturale del Paese. Ho avuto il privilegio di collaborare con Tullio, da quando ero giovane ricercatrice dell’Istat, e cercavo di trovare le soluzioni adeguate, in termini di misurazione, agli interrogativi che poneva per capire lo sviluppo culturale del Paese. Era la fine degli Anni 80. Ho continuato fino a quando, direttora del Dipartimento delle Statistiche sociali e ambientali, abbiamo insieme lavorato per la misurazione del benessere equo e sostenibile.
Il suo contributo è stato fondamentale per lo sviluppo delle statistiche culturali. Il suo spessore intellettuale era entusiasmante. Sempre nuove sfide. Prima la misurazione dell’uso dei dialetti nel nostro Paese, esclusivo o alternato all’italiano nei diversi ambiti sociali, in famiglia, con amici, con estranei. Poi la necessità di individuare quante persone usavano le lingue protette per legge, della cui reale diffusione sul territorio nulla si sapeva. Poi la misurazione della lettura non solo dei libri, ma dei giornali di tutti i tipi, e dei piccoli dettagli, delle notizie lette, perché - diceva - bisogna scovare tutti quelli che leggono nel nostro Paese, anche se si interessano solo delle lettere al direttore. Perché quanto meno leggono, tanto più sono a rischio di non leggere più.
Quindi il contributo alla misurazione delle difficoltà nell’uso della lingua italiana da parte dei migranti e l’analisi e la misurazione del linguaggio d’odio veicolato dai mezzi di comunicazione tradizionali e dai nuovi social media. Infine, la grande attenzione all’analfabetismo, sia funzionale sia strumentale. Si trattava di misurare non solo il numero di persone che non erano capaci di decifrare uno scritto, ma anche quello di chi non riusciva a comprendere un testo.
Si arrabbiava tantissimo, se si consideravano analfabeti solo coloro che non sapevano leggere e scrivere. Esortava a misurare le reali competenze linguistiche e di calcolo della popolazione. E fu molto contento quando Statistics Canada avviò la progettazione delle indagini sulle competenze degli adulti e l’Ocse se ne fece carico in numerosi Paesi. Perché non basta aver imparato a scuola a leggere, scrivere e fare i conti. Si può tornare indietro. E se si è più analfabeti e meno istruiti, e competenti, si diventa più manipolabili e più esclusi.
Tullio De Mauro è stato un linguista, ma ha inciso tanto anche sui numeri del Paese. Come ha scritto, voleva numeri ufficiali per «guardare in faccia la realtà italiana, maschile e femminile».
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LA VERA EREDITÀ DI TULLIO DE MAURO
PAOLO DI PAOLO Rep 8 1 2017
SI TRATTA di una coincidenza, ma fa effetto. Ieri, nella stessa giornata della commemorazione pubblica di Tullio De Mauro, sono apparsi sulla stampa gli ultimi dati Istat sui consumi culturali nel nostro Paese: un italiano su cinque non sfoglia mai i giornali e non apre un solo libro all’anno. È intorno a queste cifre — preoccupanti e purtroppo stabili — che De Mauro si è battuto per decenni, richiamando la necessità di proiettarle su un piano concreto di azione politica.
«SAREI felice se sapessi parlare della cosa con sorridente levità. Mi riesce difficile», scriveva su questo giornale nel gennaio del 2008. Commentava un dato parallelo a quelli emersi ieri: solo il 20 per cento dei bambini e ragazzi italiani cresce in case con più di cento libri. Nelle prime, sincere parole dell’articolo c’è già tutto lui: era tra i pochissimi a non ragionare di cultura come di un lusso, di un privilegio. Non gli interessavano gli aspetti esteriori, compiaciuti e perfino frivoli del discorso culturale; non era fra chi esibisce la propria biblioteca domestica come un museo del narcisismo. Semmai, si preoccupava del fatto che la distanza media dalle biblioteche pubbliche, nei piccoli centri e nelle periferie, non rispettasse quella suggerita dagli standard internazionali. Gli stava a cuore la “crescita complessiva” delle capacità culturali della popolazione adulta, la necessità di elaborare in questa prospettiva strategie, programmi, di rinsaldare l’alleanza fra scuole, università e società civile. Basta affiancare interventi scritti a distanza di anni per avere la prova di un impegno inesausto e coerente, mai inquinato dai pregiudizi: nel novembre del 1992, ancora su Repubblica, provava a smontare l’intramontabile luogo comune «i giovani non leggono, i giovani sono ignoranti, i giovani parlano male». Si arrabbiava vedendo alterati malamente, da «lamentosi e superficiali anziani», i dati di fatto: nella lettura di libri non scolastici le fasce giovani occupano una posizione di primato. È ancora così. «Se ragli si sentono, vengono da un’altra parte».
Abbiamo perso anni dietro agli stessi luoghi comuni, abbiamo perso tempo con campagne discutibili sul “piacere della lettura”, a propagandare in modo patetico e inefficace solo la nostra presunta nobiltà di lettori. «Leggere è tutt’altro che facile: osserva un bambino mentre sta imparando e lo capisci», sono parole di De Mauro. Eravamo davanti a un pubblico, un paio di anni fa, gli sottoponevo la solita solfa sul bello della lettura; ricordo che le pronunciò voltandosi verso di me e guardandomi. L’effetto di una doccia gelata. Non è forse questo, un maestro? Qualcuno che ti riporta davanti agli occhi una verità elementare e inoppugnabile che ignoravi o che avevi trascurato. De Mauro, in mezzo secolo di lavoro, lo ha fatto spesso, ponendo una fitta serie di domande. Per esempio: perché, a tutt’oggi, nell’opinione comune, «chi conosce a memoria una poesia di Montale è colto, chi non la conosce non lo è? Può essere un grande matematico o biologo, ma non conosce Montale: non è colto». Perché siamo ancora così indietro nel chiamare cultura intellettuale la dimensione scientifica, tecnologica e operativa del sapere? Perché non facciamo sforzi sufficienti — fino a renderli «il fulcro della politica» — sulla cultura diffusa, su ciò che consente a ciascun cittadino «la piena autonomia di movimento nella società »? Perché (e se ne è occupato nell’ultimo articolo pubblicato su Internazionale) in uscita dalle scuole superiori non si registrano progressi ma stasi o regressi? Perché ragioniamo, anche giornalisticamente, di “spese scolastiche” e non di “investimento redditizio”? Perché digeriamo ancora male l’idea che la capacità di inclusione costituisca il merito di una scuola «non meno della capacità di far ottenere bei voti agli allievi»? Perché non ci preoccupiamo di quell’ampia percentuale di italiani adulti succubi di maghi e guaritori? Perché non mettiamo in cima alle priorità il 70 per cento di cittadini con competenze insufficienti di lettura e ragionamento matematico? Perché il tema dell’«istruzione permanente degli adulti» è così poco frequentato? Ecco, direi così: sul tema dello sviluppo culturale, accanto a molte risposte, Tullio De Mauro ci ha lasciato tutte le domande giuste. È un’eredità grande e impegnativa.
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COSA MI HA INSEGNATO IL MAESTRO DE MAURO
MARCO ROSSI-DORIA Rep 6 1 2017
LA MORTE di Tullio De Mauro — per migliaia di persone di scuola — suscita un sentimento di grande perdita e, insieme, di riconoscenza e gratitudine. È stato per tanti di noi un maestro. Noi giovani insegnanti degli anni Settanta e Ottanta eravamo “presi in mezzo” tra il dialetto, spesso vivissimo, dei nostri ragazzini poveri, che dava vita ai loro sogni e alle mille vicende dell’esperienza quotidiana e la urgenza di insegnare bene l’Italiano perché era — lo sapevamo — la vera porta verso il mondo, il sapere in ogni disciplina, l’emancipazione da una marginalità che minacciava di essere per tutta la vita. Noi volevamo dare piena dignità all’una e all’altra cosa. Per questo, leggere quel capolavoro che è la Storia linguistica dell’Italia unita è stato come una mano che ti accompagna e ti fa mettere insieme, ogni giorno in classe, lingua e vita.
Questo è stato grazie a quella rarissima qualità di un grande accademico che ha sempre lavorato con la scuola di ogni giorno, la scuola dell’infanzia, primaria, media. Su un piano di assoluta, naturale parità. E oggi ancor più proviamo riconoscenza — in questo tempo di troppe parole vaghe — per il suo parlare e scrivere tanto rigoroso quanto comprensibile a tutti e ogni volta costruttivo, ironico, divertente. E ci mancherà la passione civile incrollabile che gli faceva ripetere che avrebbe voluto avere «una voce ben più tonante» per denunciare la tragedia rappresentata da ciò che egli chiamava la de-alfabetizzazione degli italiani che è il grande, crescente vuoto che sta alla base della crisi politica, economica, sociale e etica che viviamo.
Una parte grande della sua passione di intellettuale che pensa alla politica come autentico servizio, Tullio la ha dedicata alla difesa della scuola della Repubblica nel nome dell’articolo 3 della Costituzione. Perché riconosceva nella scuola la più grande arena nella battaglia per l’eguaglianza.
Ricordo quando venne, da ministro, nelle aule della scuola “Pasquale Scura” nel mezzo dei Quartieri Spagnoli di Napoli per sostenere il nostro sperimento di scuola di seconda opportunità, Chance: «Sono venuto a capire cosa state combinando qui e se ci può essere utile, per tutti». Lo ricordo in piedi, a parlare, anche in dialetto, a tu per tu, faccia faccia, con i ragazzi, il suo sedersi, non badando ai tempi della visita ministeriale, con noi tutti — docenti, dirigente, bidelle, mamme, educatori — per ascoltare a lungo e capire come generalizzare il nostro programma d’azione, per riportare a scuola chi era già fuori.
Tullio non si è mai rassegnato alla marginalizzazione dei ragazzi poveri e alla caduta della funzione di promozione culturale e sociale della nostra scuola, anche nel confronto internazionale. La sua severa e informata indignazione non era solo perché la de-alfabetizzazione funzionale di troppa parte della popolazione è un danno per il Paese; Tullio sapeva davvero bene che era, al tempo stesso, un danno per quel ragazzo lì, per la sua vita. E per questo si batteva per una scuola pubblica davvero capace di accompagnare tutti ma soprattutto ciascuno.
Tullio De Mauro L’erudito gentile che restituì valore civile alla nostra lingua
FRANCESCO ERBANI Rep 6 1 2016
TULLIO DE MAURO conobbe don Lorenzo Milani a metà degli anni Sessanta, poco prima che il priore di Barbiana morisse. La sua scuola nel Mugello la visitò soltanto dopo. Una volta, qualche tempo fa, descrivendone le povere suppellettili, la carta geografica sdrucita su una parete e andando con la memoria a quella dedizione totale per il fare scuola, portò di scatto le mani al volto e la commozione compressa sfociò in un pianto. Quando si riprese, fece per scusarsi e passò al registro dell’ironia, come a dire: ci sono ricascato. Un po’ di anni prima, infatti, parlando in pubblico della condizione degli insegnanti — forse era già ministro dell’Istruzione — gli era capitato ancora di commuoversi. Suscitando anche commenti non benevoli.
De Mauro, che ieri si è spento a 84 anni — era nato a Torre Annunziata, in provincia di Napoli, nel 1932 — era fatto così. La tempra di studioso irrorava quella emotiva. La vita lo aveva scosso. Il fratello Franco morì in guerra. Mentre Mauro, l’altro fratello, dopo una giovinezza tormentata, arruolato nella Repubblica di Salò, giornalista d’inchiesta all’”Ora” di Palermo, grande tempra di cronista investigativo, fu se
questrato e ucciso dalla mafia nel 1970 e il suo corpo non è mai stato rinvenuto. Tullio parlava poco di Mauro, riversando però ogni energia affinché sulla sua fine fosse fatta piena luce.
Tullio De Mauro veniva da una rigorosa formazione classica e aveva introdotto in Italia una disciplina non proprio aderente ai canoni dominanti, la linguistica. Possedeva un profilo scientifico indiscusso in ambito internazionale dovuto allo straordinario merito di aver ricomposto filologicamente, nel 1967, il Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure, fino ad allora conosciuto in una versione fondata soprattutto su appunti di allievi e che però ne riduceva la forza innovativa non solo per la linguistica ma per la cultura tutta del Novecento. Il rapporto fra langue e parole, l’arbitrarietà del segno linguistico sarebbero entrate, dopo la sua edizione laterziana, nel lessico scientifico e avrebbero emancipato la linguistica dalle sue radici glottologiche o storico-comparative, rendendola una disciplina autonoma, sia di impianto filosofico sia di rilevanza sociale. De Mauro fu il primo insegnante di Filosofia del linguaggio e poi di Linguistica generale. E dalla sua scuola sono uscite generazioni di studiosi.
Ma pur avendo frequentato stabilmente i piani alti della cultura, De Mauro era uno dei pochi intellettuali che non si è mai stancato di percorrere per intero il tracciato della produzione e della trasmissione del sapere, dalle vette più elevate della riflessione fino all’ordinamento delle scuole primarie. Un impegno manifestato anche presiedendo la Fondazione Bellonci, e curando il Premio Strega. Lo interessavano il sapere che produce altro sapere e ciò che accade nella cultura diffusa, convinto che un Paese civile, se ha a cuore la tenuta democratica, deve curare entrambe le faccende. Una rivista che dirigeva all’università di Roma aveva come titolo Non uno di meno. E fra i maestri ai quali era devoto figurava Guido Calogero, grande studioso di filosofia teoretica, che però, dalla fine degli anni Quaranta in poi, animò il dibattito sulla scuola che poi produsse, nel 1962, una delle vere, profonde riforme italiane, quella della media unificata. «Poco male», aggiungeva De Mauro, «se Calogero per girare l’Italia discutendo di pedagogia, di filosofia del dialogo, non abbia mai completato la storia della logica antica cui teneva tanto». Quasi a dire che l’innalzamento dell’obbligo scolastico a tutte e a tutti poteva anche valere qualche sacrificio scientifico. La Storia linguistica dell’Italia unita, uscita da Laterza nel 1963, sta in questa linea di pensiero. Il saggio ebbe grande fortuna. Non è una storia della lingua italiana, ma degli italiani attraverso la loro lingua. È una storia sociale e culturale, economica e demografica, narra di un paese che ha mosso passi da gigante, ma in cui nel 1951 quasi il 60 per cento della popolazione non aveva fatto neanche le elementari. Si parla di città e campagna, periferie urbane, Nord e Sud. Quando nel 2014 pubblicò un prolungamento di quell’indagine in Storia linguistica
dell’Italia repubblicana
(sempre Laterza), De Mauro specificò che una storia linguistica racconta una comunità che può parlare anche altre lingue. Per esempio il dialetto, che per lui non era per niente morto e anzi arricchiva le modalità di comunicazione. Comunque non si poteva non rilevare il tumultuoso convergere della comunità nazionale verso una lingua unitaria. Un fenomeno che induceva a guardare al nostro Paese senza categorie semplificatorie, tutto bianco o tutto nero, ma distinguendo, analizzando — uno degli attributi fondamentali nell’insegnamento e della pratica scientifica di De Mauro.
Restavano ai suoi occhi e un velo di sofferenza gli procuravano i veri fattori di arretratezza. Le indagini internazionali attestano che in Italia, al di là dell’analfabetismo, solo una quota oscillante fra il 20 e il 30 per cento della popolazione, ma paurosamente declinante verso il 20, ha sufficienti competenze per orientarsi in un mondo complesso. Per leggere e capire, spiegava, le istruzioni di un medicinale o le comunicazioni di una banca. E dunque per essere cittadini. La scuola, agli occhi di De Mauro, aveva meno responsabilità di quanto si pensasse e di quanto succedeva fuori di essa e dopo di essa. È qui, in famiglie dove non circolano libri, che si disperde quello che la scuola, con tutti i suoi limiti, trasmette. E di qui muoveva la sua invocazione insistente di un sistema capillare di biblioteche o del long life learning, che un tempo si chiamava educazione permanente, educazione degli adulti.
Al fondo delle tormentate indagini di De Mauro c’è sempre la critica a una nozione restrittiva della parola “cultura”, una nozione che vedeva dominante in Italia, una nozione per cui è cultura ciò che ha a che fare con l’erudizione (e De Mauro erudito lo era a titolo pieno). La sua era invece una nozione larga, che assimilava concetti dall’antropologia all’etologia, che si riferiva alla tradizione di Carlo Cattaneo e Antonio Gramsci. E che risaliva al Kant della Critica del giudizio, laddove il filosofo istituiva un continuum fra la cultura delle abilità necessarie alla sopravvivenza e la cultura delle arti, delle lettere e delle scienze. Kant e don Milani: un tracciato che De Mauro ha colmato con i suoi studi e una vita militante.
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Si sporse dalla sua sedia e mi parlò lontano dal microfono.
Di fronte a noi, cinquecento insegnanti seguivano una tavola rotonda su lingua italiana e comprensione del testo; si stava avvicinando il momento topico delle domande ai relatori. A bassa voce, mi disse così: «Sei il moderatore di questo incontro.
Prima di dare la parola al pubblico ti suggerirei di ricordare che per “domanda” si intende una (e una sola) frase, seguita da un punto interrogativo». Ovviamente lo feci, ovviamente non servì a nulla (con un saluto alla «comprensione del testo»), se non a confermarmi quello che avevo intuito la prima volta che incontrai Tullio De Mauro (si era casualmente seduto vicino a me in treno): era un uomo eminentemente spiritoso. Dalla sua Storia linguistica dell’Italia unita del 1963 all’edizione del
Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure, dall’idea della collana dei Libri di Base per gli Editori Riuniti al suo Grande dizionario italiano dell’uso
(Utet), dall’attività accademica a quella politica, i meriti della sua attività scientifica, divulgativa, sociale e istituzionali andranno valutati assieme ai limiti. Ma nel frattempo a me non sfugge che la dolorosa notizia è arrivata il 5 gennaio, il giorno in cui Umberto Eco avrebbe compiuto 85 anni.
Anche lui del 1932, De Mauro li avrebbe compiuto a marzo. Erano coetanei, oltre che amici e spesso complici, questi due punti di riferimento di mezzo secolo abbondante di cultura italiana.
Linguaggi e comunicazione erano per entrambi oggetti di sguardo disciplinare, ma anche di rapporto con società, politica, filosofia, scienza, didattica. Per entrambi il grado di diffusione della cultura era un indice sicuro di civiltà e per entrambi il sense of humour era un indice sicuro di propria versatilità mentale. Nel libro-intervista La cultura degli italiani con Francesco Erbani, De Mauro cita un dato che dà da pensare. In passato, il grado individuale di cultura era in rapporto diretto con il reddito della famiglia di origine. Oggi è invece in rapporto con il numero di libri presenti nella casa in cui si è nati. Forse è stata proprio la capacità di cercare dati come questo, e interpretarli, a fare in modo che figure come quella di Tullio De Mauro abbiano rivestito un ruolo in cui oggi appaiono insostituibili. Gli intellettuali non si distinguono per serietà. Si distinguono per le frasi alla cui fine aggiungono un punto interrogativo e per quelle nuove, con cui hanno saputo rispondere.
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