martedì 31 gennaio 2017

Macaluso sulla nemesi della sinistra e la genealogia del PD. In Francia vince Hollande 2.0


"È un partito al capolinea, colpa di Renzi Ma il fallimento è anche di Bersani e D’Alema” 
Macaluso: “Il segretario non ha capito il mondo nuovo, la vecchia dirigenza ex Pci viene da una sconfitta elettorale e politica. Tra Massimo e Matteo gara fra bugiardi” 
Mattia Feltri  Busiarda 30 1 2017
Emanuele Macaluso (nella segreteria politica del Pci con Palmiro Togliatti poi con Luigi Longo ed Enrico Berlinguer, parlamentare per sette legislature, direttore dell’Unità e del Riformista) ricorda di non essersi iscritto al Pd perché «contrariamente a quanto scrisse Eugenio Scalfari, che Ds e Margherita dovevano fondersi perché erano due partiti al capolinea, ritenevo che due partiti al capolinea, se si fondono, al capolinea restano. E così è successo».
Le due manifestazioni di sabato, di Matteo Renzi a Rimini e di Massimo D’Alema a Roma, sembrano infatti preludere a una scissione.
«Fino a quando ha prevalso il vecchio gruppo che aveva origini nel Pci - D’Alema, Bersani e Veltroni - il Pd ha avuto un po’ di solidità, ma questo gruppo dirigente ha sottovalutato la parte proveniente dalla Dc, che s’è ricompattata. E come nasce Renzi? Dal fallimento di D’Alema e Bersani, dalla loro incapacità di essere davvero gruppo egemone».
E dall’incapacità di avere successo alle elezioni.
«E’ così. Nasce soprattutto dall’insuccesso elettorale e di leadership di Bersani che, intendiamoci, è anche una brava persona, è stato un bravo ministro. E pure D’Alema è stato un buon ministro, non come Bersani ma buono. E loro due non possono adesso tirarsi fuori dalla storia del Pd, dal suo fallimento».
Sono sempre stati fieri oppositori di Renzi.
«D’Alema è uno dei massimi responsabili: lui è uno di quelli che ha voluto il Pd. All’inizio poi ci andava da Renzi, hanno presentato un libro assieme, sono andati al ristorante, lì Renzi gli ha promesso un posto di commissario europeo, e poi certo, bugiardo contro bugiardo ha prevalso il bugiardo più grosso. E Bersani che si indigna per i capilista nominati? Sono d’accordo con lui, è una vergogna, ma Bersani che battaglie ha fatto contro il Porcellum, che era la sublimazione dei nominati? Lui si mise d’accordo con Silvio Berlusconi per tenerselo, e nel 2013 grazie al Porcellum la sua coalizione ha preso il 55 per cento dei deputati col 29 per cento dei voti. Ora che vuole? Bersani e D’Alema non sono fuori dalla tempesta, non sono due vergini».
Faranno la scissione?
«Dico solo che il fallimento sarebbe la base per fare un altro partitino».
Senza elettori?
«Ma il problema non è tanto un nuovo partito ma farsi delle domande su quello vecchio. E cioè: viviamo in una società in cui cambia tutto, con la globalizzazione, l’economia digitale, giovani che hanno bisogni diversi, un altro approccio alla politica, un cultura che non è la nostra, e questa nuova generazione doveva essere il nucleo nuovo del Pd. Dov’è questa generazione? Siamo ancora alle due vecchie componenti, comunista e democristiana. Come è possibile? Poi si stupiscono che i giovani, gli operai, gli studenti, i ricercatori votano Beppe Grillo. E per forza».
E allora perché Renzi nel 2014 prese il 41 per cento?
«Ma è la dimostrazione di quello che dico. Lui era una speranza per un mondo che la politica non ha compreso, ma è stata una speranza andata delusa, perché Renzi a quel mondo non ha dato risposte. E qui nessuno che si chieda per quali ragioni il Pd abbia perso il referendum e tanti consensi. Non c’è un’analisi, né di D’Alema né di Renzi».
Che dovrebbe fare Renzi?
«Intanto non può andare a votare. Se voleva andare a votare doveva dirlo al capo dello Stato subito dopo essersi dimesso. Il governo lo ha voluto e sostenuto e non può buttarlo quando gli pare. Non è da statista. E poi a maggio c’è il G7. Si può affrontare un G7 in campagna elettorale? Perché i G7 sembrano cosucce da niente, ma in questo G7 si presenteranno Stati Uniti e Inghilterra per la prima volta dichiaratamente contro l’Europa unita. Non so se la cosa sia stata ben compresa».
Vero. E poi?
«E poi Renzi deve indire un congresso in cui finalmente ci si chiede che cosa è il Pd e che cosa deve essere domani. Che cosa intende fare, a chi intende rivolgersi e come. Ma queste sono le basi. Se non capiscono questo non hanno proprio capito niente, né l’uno né l’altro».
Bè, D’Alema cita Piketty e Atkinson, filosofi della politica di una sinistra più radicale. A parte il percorso ondivago dai funerali di Breznev all’Ulivo mondiale fino a questa nuova svolta a sinistra, sembra una posizione di cui discutere.
«Ma quelle di D’Alema sono frasi senza conseguenze, per mostrare una cultura dentro quella che è la sua storia, tradita o almeno mai rinnovata. Non c’è mai corrispondenza fra quello che D’Alema dice e quello che vuole fare».
E, se sarà scissione, saremo alle solite: la sinistra che si sfalda davanti al nemico, da Mussolini nel ’21 a oggi, con Grillo.
«Gli apriranno delle autostrade, a Grillo. È così evidente. Ma io che ci posso fare? Sono così vecchio: a marzo compirò 93 anni. Ma loro, che hanno l’età per ragionare...».
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Il rilancio di Matteo “Votare ad aprile si può e il G7 lo presiedo io” 
Restano due incognite: i dubbi di Franceschini e le modalità per sfiduciare il governo Gentiloni 
Fabio Martini Busiarda
A Rimini Matteo Renzi si è ridato la parola dopo un mese e mezzo di silenzio audio-video, ma curiosamente non ha detto una sola parola sulla questione più attesa, le elezioni anticipate. Il segretario ha delegato il suo pensiero al presidente del Pd e al capogruppo dei deputati, che sono tornati ad invocare un «dentro o fuori» nel giro di pochi giorni. Per poter votare in primavera, possibilmente ad aprile. Un ultimatum per interposta persona, ma Renzi ci crede. Come ha confidato in queste ore ai suoi fedelissimi: «Votare ad aprile si può e a quel punto il G7 di Taormina lo presiedo io». 
Avere mission chiare e perseguirle con tenacia è sempre stata una delle prerogative del Renzi «vincente». Stavolta, tra lui e le elezioni ad aprile, ci sono di mezzo diversi ostacoli, non tutti insormontabili, ma neppure trascurabili. Il primo è il più importante: per poter indurre il presidente del Consiglio in carica a dimettersi, Renzi deve poter contare su un Pd compatto e la novità, la vera «notizia» di questi ultimi giorni è che sullo scenario del blitz è entrata in crisi la «maggioranza renziana». Il cartello che sinora ha sostenuto Matteo Renzi si è quantomeno incrinato. 
Al netto delle minoranza (Bersani, D’Alema, Cuperlo, Speranza), nella Direzione del Pd Renzi ha sempre nettamente prevalso grazie al sostegno di una maggioranza formata da tre componenti: i renziani (della prima e della seconda ora), gli ex popolari di Franceschini e Fioroni, gli ex Ds di Orlando, Martina, Orfini. Ebbene in tutte e tre le aree della maggioranza si registrano dissociazioni dalla linea della «fretta». Alcune esplicite, altre espresse in colloqui diretti con Renzi, altre covano in silenzio, in attesa di vedere come «butta». Nell’area ex Ds il ministro di Grazia e giustizia Andrea Orlando, in una intervista al «Corriere della Sera», ha espresso dubbi su uno scioglimento anticipatissimo. Tra gli ex popolari, il ministro Dario Franceschini, ben prima che si conoscesse la sentenza della Consulta, si era smarcato, auspicando una legge elettorale di impianto proporzionale e un dialogo con i moderati del centro-destra. Ed è da questa area che possono arrivare i grattacapi più seri per Renzi: sono loro quelli che hanno il rapporto più «naturale» col Capo dello Stato, che ha pubblicamente auspicato norme elettorali non difformi per Camera e Senato. Ma per i popolari c’è anche un problema di «cucina» interna: senza un accordo soddisfacente sulle liste elettorali, gli ex Ppi potrebbero presentare un proprio candidato ad eventuali primarie per la leadership. Tutte procedure e rituali che richiedono tempo. E anche tra i renziani della primissima ora aumentano i dubbi. Matteo Richetti, nella intervista a «La Stampa»: «Non cediamo alla demagogia di Grillo e Salvini anche su questo: dobbiamo dirlo che andando a votare c’è un grave rischio paralisi». Una posizione che sinora non è stata condivisa da Graziano Delrio, che di Richetti è amico, ma in caso di «redde rationem», in tutto il Pd potrebbero incrinarsi antiche certezze. Come conferma l’iniziativa potenzialmente scissionista di Massimo D’Alema e la richiesta del governatore della Puglia Michele Emiliano di congresso Pd. Un messaggio in codice: se Renzi rompe, potrei rompere anche io.
Ma poi resta il problema più grande per Renzi: come sfiduciare Paolo Gentiloni? Il presidente del Consiglio, in pubblico e in privato (anche ieri) mantiene la stessa linea: mi rimetto a quel che decide il Parlamento. Persino lo sgarbo di Renzi, ignorare il governo nel suo intervento riminese, non ha lasciato tracce. Certo, il «partito del governo» si sta rafforzando. Non è sfuggito agli amici di Renzi quanto è accaduto a Rimini alla kermesse degli amministratori locali: il ministro dell’Interno Marco Minniti, senza mai toccare temi politici, alla fine è stato salutato da una standing ovation e da un applauso superiore a quella di tutti gli interventi precedenti. Nessuno escluso.
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Legge elettorale, si scommette sul fallimento della trattativa “E Gentiloni non andrà oltre” 
I renziani hanno fretta di tornare alle urne, l’ipotesi del passo indietro del premier quando sarà ufficiale lo stallo sulla riforma dell’Italicum

TOMMASO CIRIACO
Più che un piano, quello elaborato da Michele Emiliano assomiglia a un blitz per mettere Matteo Renzi con le spalle al muro. Prevede una rapidissima raccolta di firme per ottenere un referendum tra gli iscritti del Pd. E immagina una consultazione su due quesiti, proprio là dove la carne della sinistra è viva: il primo sulla scuola, le politiche economiche e il Jobs act, il secondo sulla necessità di un congresso anticipato. Congresso che difficilmente si celebrerà nei tempi stretti chiesti dal governatore della Puglia, dato che l’agenda Renzi prevede il voto a giugno e non contempla fermate intermedie. Ad agevolare il ritorno alle urne potrebbe essere il previsto fallimento della trattativa per una legge elettorale omogenea tra Camera e Senato. Del resto, si ragiona al quartier generale renziano, è lo stesso Gentiloni che potrebbe a quel punto prendere atto che la legislatura non ha più nulla da offrire rassegnando le dimissioni. Il passo indietro del premier risolverebbe il problema chiaro sin dall’insediamento del governo: come farà il Pd a staccare la spina al suo governo? «Gentiloni sa che non avrebbe senso restare oltre», si spiega tra i renziani ortodossi.
Ma prima di allora il problema di Renzi sarà rintuzzare il primo reale assalto alla segreteria del leader di Rignano: «Dobbiamo colpirlo dov’è più debole – ha confidato Emiliano in privato – E dobbiamo costruire un campo comune per tenere assieme i suoi avversari».
È come se all’improvviso tutte le truppe antirenziane avessero deciso di marciare divise per colpire unite. Sia chiaro, nessun patto “di minoranza” è stato ancora siglato, perché pesano gelosie antiche e nuovi rancori. Stavolta però i nemici interni del leader sembrano aver fiutato una debolezza. E non intendono fermarsi: «Michele è un grande – confidava ieri Francesco Boccia ad alcuni dirigenti, reclutando “risorse” per la battaglia – e quando si mette in testa qualcosa è pronto a fare il “pazzo” per ottenerla».
Il varco è stato individuato di recente, spulciando lo statuto. Basta il 5% degli iscritti per chiedere un referendum interno. E l’ala meridionale del partito è capace di raccogliere le firme in men che non si dica. Poi scatterà la richiesta di consultazione, se possibile in occasione della direzione del 13 febbraio, comunque prima di marzo. I quesiti sono praticamente già pronti e si concentrano, come detto, sui nervi scoperti del Pd a trazione renziana e sul congresso. Anche per rispettare il dettato statutario che Dario Ginefra si incarica di ricordare: «Entro sei mesi dalla scadenza della segreteria bisogna avviare la stagione congressuale nei territori, quindi entro aprile bisogna cominciare».
In teoria, Emiliano arriva tardi rispetto alle candidature di Enrico Rossi e Roberto Speranza, così come alla sfida “di sinistra” lanciata da D’Alema. Il governatore è però convinto di essere l’unico, al momento, capace di unire queste minoranze. Pensa anche di riuscire ad arruolare quei cattolici dem mai teneri con Renzi. Serve però un passo indietro degli altri candidati, magari a favore di un ticket per la segreteria. «Io sono in campo, dopodiché vedremo – non chiude al dialogo Speranza - Bisogna innanzitutto allontanare una folle corsa al voto, poi rendere contendibile la leadership con un congresso o primarie vere. Ma serve anche un passaggio pubblico su Jobs act, scuola, politiche economiche ». Esattamente lo stesso schema del referendum di Emiliano.
Massimo D’Alema, intanto, osserva interessato. Come Emiliano, è convinto che proprio da Sud bisognerà ripartire per scippare al leader il controllo della sinistra. Fuori dal Pd, se necessario. «Se usciamo – ha confidato alla vigilia del raduno di sabato nel Mezzogiorno rischiamo di prendere più di Renzi». O dentro il partito, se si creeranno rapidamente condizioni favorevoli per la sfida. Certo, con il governatore i rapporti sono altalenanti, ma a volte la politica fa miracoli.
Per i bersaniani è diverso. Non spingono per la scissione, ma non vogliono neanche cedere del tutto l’iniziativa ad Emiliano. Il rischio dei prossimi mesi è però quello di restare in mezzo al guado. E quindi sempre all’operazione del governatore si torna: «Se la gara è per la segreteria va benissimo Roberto – confidava Guglielmo Epifani qualche giorno fa alla Camera – ma se invece diventa quella per la premiership, serve un altro nome».
Si vedrà. La guerriglia interna, intanto, rischia di precipitare il Pd in un duello a colpi di carte bollate. Nulla si può escludere, neanche una scissione a sinistra guidata da Emiliano e appoggiata dal “partito dei governatori”. Il governatore ha ripreso a dialogare con il presidente della Campania Vincenzo De Luca e si confronta spesso anche con il sindaco di Napoli Luigi de Magistris. «Se finisce in rottura – si è lasciato sfuggire proprio Boccia con un collega di partito – il Pd in alcune regioni del Sud non supera il 15%». E guerra sia.
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AVANTI, VERSO IL PASSATO 
ILVO DIAMANTI Rep
IN MENO di due mesi è cambiato molto, se non tutto, nel sistema politico italiano.
Quantomeno, sono cambiati il percorso e le destinazioni che lo orientavano. Fino a pochi mesi fa si marciava verso un bicameralismo, finalmente, imperfetto. Con un Senato ridimensionato. Con poteri limitati.
ASOSTEGNO di una democrazia maggioritaria e “personalizzata”, per effetto dell’Italicum, una legge elettorale a doppio turno. Che, nella versione originaria, prevedeva un ballottaggio fra i primi due partiti, nel caso, probabile, che nessuno superasse la soglia del 40% al primo turno. Si trattava della soluzione finale del percorso “renziano”. Passato attraverso la “personalizzazione” del Pd e del governo. Ma negli ultimi due mesi questo “viaggio” si è interrotto. Complicato da due incidenti. Anzitutto: la bocciatura del referendum, che ha mantenuto il Senato. E, dunque, il bicameralismo. Così com’è adesso. Poi, è giunta la sentenza della Corte Costituzionale, che ha emendato l’Italicum, dichiarando illegittimo il ballottaggio. Così, se oggi si votasse, come auspicano alcuni leader e alcuni partiti, ci troveremmo (troveremo?) in una prospettiva, a dir poco, confusa. Senza maggioranze né leadership precise. Perché questi passaggi a vuoto hanno complicato — se non compromesso — il progetto renziano della personalizzazione dei partiti e del governo. D’altronde, Matteo Renzi, per primo, è stato ”sconfitto”, insieme al referendum. Un referendum, peraltro, senza “vincitori”. Perché mentre i Sì sono, in larga misura, riconducibili al Premier (precedente), i No avevano — e hanno — molti volti. Molti riferimenti politici. Largamente incompatibili. In altri termini, il referendum ha espresso una larga maggioranza anti-renziana. Ma la minoranza renziana appare, senza dubbio, la più coerente e identificata. E, in una competizione proporzionale, in un Parlamento con due Camere senza maggioranze chiare e omogenee, la minoranza renziana rischia di risultare maggioritaria. Comunque, il soggetto maggiormente dotato di capacità coalizionale, in un contesto politico e istituzionale che imporrà mediazioni e alleanze, dato che non si vede un partito in grado, da solo, di superare il 40% dei voti al primo turno.
Un ulteriore mutamento degli ultimi mesi è determinato dall’appannarsi della prospettiva “personale”. Perché i sistemi elettorali di Camera e Senato, oggi, favoriscono, semmai, il ritorno dei “partiti”, come ha suggerito, con qualche ironia, Giuliano Ferrara, intervistato dall’Unità. D’altra parte, gli “uomini forti” oggi vengono evocati e invocati dagli italiani perché non ci sono. E perché i partiti, gli attori e i canali della rappresentanza, sono sempre più deboli. Lontani dalla società e dal territorio. Il Pd, in particolare. Erede e confluenza dei due partiti di massa. Appare sempre più diviso, all’interno. Il malessere delle componenti di sinistra è palese. Espresso, come altre volte, da Massimo D’Alema. D’altra parte, il “radicamento” del Pd nella società e nel territorio declina. I suoi iscritti sono in calo sensibile. Da anni. Anche (forse, tanto più) vicino alle “radici”. Nelle zone di forza tradizionali. In Emilia Romagna, negli ultimi tre anni gli iscritti si sono dimezzati. Erano 76 mila del 2013. Nel dicembre 2016 si sono ridotti a 37mila. D’altronde, non è solo un problema italiano. La Sinistra “riformista” è in grande difficoltà in tutta Europa, come ha rammentato Marc Lazar, in un’intervista su
Le Monde. In Francia, anzitutto, dove, in vista delle presidenziali, il Ps non mai apparso tanto debole, nelle stime elettorali. Stretto fra la Sinistra di Mélenchon e il Centro di Macron. Ma anche altrove. In Germania, in Spagna. E, ovviamente, in Gran Bretagna. Quanto agli altri soggetti politici in campo, il M5s è, per (auto)definizione, un non-partito. Meglio, un “partito-non-partito”. Forza Italia, idealtipo del “partito personale”, si è afflosciata, dopo il declino del suo “capo”. E la Lega, il soggetto politico più simile ai tradizionali partiti di massa, è cambiata profondamente. Si è, a sua volta, personalizzata e, con fatica, insegue la prospettiva di una Destra lepenista-nazionale.
Non è un caso che a guidare il governo, oggi, sia Paolo Gentiloni. Un politico impopulista, abile a mediare e a negoziare. Lontano dall’icona del Capo, oggi di moda.
Così, in vista di possibili, prossimi, appuntamenti elettorali, dobbiamo fare i conti con partiti ipotetici e non-partiti. Dis-organizzati e poco radicati. Anzi, s-radicati nella società e sul territorio. E mentre si cerca — e insegue — un Uomo Forte, incontriamo leader deboli, oppure indeboliti. I modelli, positivi e negativi, di conseguenza, vengono cercati altrove. Soprattutto, negli Usa. Da noi, però, non c’è un Trump — per fortuna, aggiungo. Ma solo pallide imitazioni. Più che popolari: populiste.
Così, due mesi dopo il referendum, tutto sembra cambiato. E oggi marciamo sicuri. Verso il passato.
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L’onda lunga del movimento che non vuole la globalizzazione 

Dopo Corbyn in Gran Bretagna e Podemos in Spagna anche la Francia scommette sul paladino del reddito di cittadinanza 
Cesare Martinetti Busiarda 30 1 2017
Benoit Hamon stravince le primarie socialiste francesi, la sconfitta di Manuel Valls sancisce la fine definitiva dell’hollandismo, che non è solo il tramonto politico di un uomo come François Hollande che si è smarrito nel tatticismo, nell’ambiguità e nell’inadeguatezza al ruolo di monarca repubblicano che la Francia si attende dal suo presidente.
È la sconfitta di una sinistra europeista e globalista. Hamon porta il Ps che fu di Mitterrand ad allinearsi con quella «rivolta del cuore» che in Europa si è diversamente espressa. Con Jeremy Corbyn segretario del Labour che rinnega Blair in Inghilterra, Alexis Tsipras e Syriza in Grecia, in Portogallo con Antonio Costa socialista premier in un governo di sinistra unita secondo una formula ovunque dispersa.
E infine anche con Pablo Iglesias capo di Podemos il movimento nato dagli Indignados della Puerta del Sol di Madrid. 
Cosa unisce queste sinistre con origini e traiettorie differenti? Innanzitutto la parola d’ordine dell’anti-austerità.
E quindi del rifiuto dell’impostazioni di fondo delle politiche economiche europee (non dell’Europa) dopo la crisi del 2008. La proposta slogan di Hamon è stata il «revenu universel», quella che noi chiamiamo reddito di cittadinanza ed è la risposta a disoccupazione e precarietà, soprattutto tra i giovani. In Italia è la proposta faro del Movimento 5 Stelle, il partito che condivide in alcuni punti questi programmi. 
Il vecchio partito socialista francese si trova così scisso in due partiti alternativi, mai scontro di linee e di uomini è stato tanto radicale. Ci vorranno anni per rifondarlo e perché con esso la sinistra ritrovi una sua bandiera. I sondaggi per le presidenziali danno i socialisti nettamente in svantaggio rispetto ai due candidati maggiori, Marine Le Pen e François Fillon. Al momento sembra impossibile che Hamon possa arrivare al ballottaggio del 7 maggio, anche se la situazione è talmente mobile che nulla si può escludere. Fillon, eletto candidato della destra repubblicana nelle primarie di dicembre e che sembrava già sulla soglia dell’Eliseo è ora alle prese con lo scandalo rivelato dal Canard Enchainé della moglie assunta come assistente parlamentare e remunerata come tale pur non avendolo mai fatto. Mentre i socialisti si dividevano nel ballottaggio delle primarie, ieri, Fillon ha tenuto il suo meeting di lancio della campagna elettorale a Le Bourget denunciando un complotto. Nessun passo indietro dunque e si vedrà dove arriveranno quelle che De Gaulle chiamava «bulles puantes» (bolle puzzolenti) e che visibilmente sono state sganciate dall’interno del partito dei «républicains», dove le divisioni non sono state meno crude che tra i socialisti, specie con l’esclusione di Nicolas Sarkozy.
Per Manuel Valls una sconfitta così netta ha il sapore di uno smacco cocente, come per Matteo Renzi di cui si è sempre dichiarato alleato e ammiratore. Hollande l’aveva nominato ministro dell’Interno nel suo primo governo, nel 2012, e due anni dopo primo ministro per marcare una svolta più forte verso una linea socialdemocratica e di alleanza sociale con sindacati e imprenditori, quel patto per il lavoro che non ha dato i risultati sperati, specie sull’occupazione. Valls era allora il socialista più popolare di Francia, mentre la curva di gradimento di Hollande aveva già imboccato quella traiettoria discendente che l’avrebbe eletto a presidente meno amato. La vera rottura con l’elettorato di sinistra e buona parte del Ps (come dimostra in modo inequivocabile il voto di ieri) è stata sulla legge di riforma del lavoro che ha cambiato le regole dei negoziati, delegando alle trattative aziendali buona parte dei contratti. È stata vissuta come una perdita di diritti per i lavoratori, ne è nato un vasto movimento sociale cresciuto intorno a place de la République di Parigi chiamato «nuit debout», la notte in piedi, divenuta il punto di ritrovo e di riferimento della capitale dopo gli attentati islamisti di Charlie e del Bataclan. Anche intorno a questo movimento sono nate e cresciute le candidature alle primarie socialiste, in particolare quella di Benoit Hamon che pur faceva parte del primo governo della presidenza Hollande, ma dal quale venne escluso con la svolta «a destra» della nomina di Valls. 
Che può succedere ora? Dopo un confronto così radicale è ben difficile che l’elettorato di Valls si riversi su Hamon, è ben possibile invece che ne guadagni Emmanuel Macron, la vera sorpresa di questa campagna. Ha meno di quarant’anni, è candidato indipendente del movimento «En marche!» (in marcia), è stato anche lui ministro – all’Economia – con Valls, ha una linea europeista, liberale e socialdemocratica, antipopulista eppure popolare quella che la Francia non ha mai avuto e che in definitiva rappresenta la vera alternativa a Marine Le Pen.
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Il Sanders francese cita Tocqueville e fa sognare i giovani elettori 
Allievo di Rocard, cresciuto con Jospin, è stato ministro prima di contestare il governo

ANAIS GINORI Rep
«Papà, falli a pezzetti». Benoît Hamon estrae dalla tasca il suo talismano: un biglietto scritto a mano dalle figlie in cui viene rappresentato come un supereroe. «Missione compiuta» scherza con i collaboratori prima di salire sul palco per il discorso da trionfatore. Fino a qualche settimana fa, era un Signor Nessuno. In fondo ai sondaggi, rappresentante della minoranza nella minoranza del partito socialista. In libreria non si trova neppure una biografia su di lui. Ora gli editori devono correre ai ripari per tentare di raccontare il “Bernie Sanders” francese, nuovo idolo dei giovani che, contrariamente al democratico americano, è riuscito a fare un blitz per conquistare la candidatura. Ai ragazzi che lo applaudivano ha dedicato una citazione di Tocqueville: «Ogni generazione rappresenta un nuovo popolo».
Il radicale Hamon è diventato forte non grazie ai superpoteri, ma sfruttando l’incredibile debolezza dei suoi avversari, l’anima moderata e social-democratica uscita a pezzi dall’esperienza di governo. Quarantanove anni, padre ingegnere navale e madre segretaria, nato a Brest ma cresciuto in Senegal, è l’uomo di «un’altra sinistra è possibile». Il suo programma è un laboratorio di proposte-shock: reddito universale o visto umanitario per i migranti, in rottura con una sinistra orfana di sogni e identità. È uno dei pochi candidati della gauche che parla di ecologia e della partecipazione diretta dei cittadini, con la promozione di referendum di iniziativa popolare e il passaggio dalla Quinta alla Sesta Repubblica. Non usa il termine “decrescita” ma è convinto che la ripresa non tornerà più ai livelli di prima della crisi, così come l’occupazione. E quando gli viene obiettato di fare analisi “irrealiste” lui sventola rapporti di molti economisti, compresi all’Ocse.
Nel suo lessico ci sono espressioni romantiche come il “futuro desiderabile” e poi l’amore su cui ha costruito il suo slogan (“Far battere il cuore della Francia”) e la coreografia dei comizi: mano sul petto prima e dopo l’intervento. «Preferisco dire ‘noi’, anziché ‘io’» spiega Hamon che coltiva una semplicità nei modi e nell’abbigliamento, anche se convive – niente matrimonio, solo un Pacs - con una manager del gruppo del lusso Lvmh. Poche arie, nei discorsi spesso è costretto a correggersi, non ha paura di mostrare qualche esitazione. Ieri sera ha passato l’attesa dei risultati guardando la finale di pallamano tra Francia e Norvegia. La serata è stata positiva sia per la nazionale che per l’outsider socialista. Dopo essere stato messo all’angolo negli ultimi anni insieme ai “frondisti” umiliati dal governo, ora si gode la rivincita. Temperamento duro, a tratti focoso, è riuscito a “uccidere” il concorrente più vicino a lui, Arnaud Montebourg, esponente dell’ala radicale eliminato una settimana fa. E poi ieri sera l’ex premier Valls, il nemico di questi anni, di cui è stato ministro fino all’agosto 2014.
Laureato in Storia, ha cominciato la politica con il socialista Michel Rocard. Anche se oggi Hamon è il simbolo di una sinistra che torna a sognare la rivoluzione, i suoi debutti sono stati con il teorico della “deuxième gauche” in rottura con la cultura marxista. Ha dimostrato di saper ben navigare tra le correnti del partito socialista, prima consigliere di Lionel Jospin, poi portavoce di Martine Aubry. È stato ministro due volte nell’ultima legislatura: al dicastero dell’Istruzione e prima come sottosegratario per l’Economia solidale, tema che è molto presente nel suo programma da candidato. «Non possiedo nessuna verità ma voglio offrirvi un’altra opzione ha detto ieri, con un chiaro riferimento polemico alla sinistra “responsabile e di verità” rappresentata da Valls e bocciata clamorosamente nelle primarie. La sua idea di “sinistra totale” è condannata all’opposizione o può diventare una forza di governo? Dietro alla battaglia per l’Eliseo c’è già quella per il futuro del partito socialista dopo le presidenziali. Il golpe di Hamon rischia di lasciare molte cicatrici anche se la colonna sonora di ieri sera, tra i suoi giovani militanti, era un classico dei Beatles: “All you need is love”.

“Lavoro ed ecologia con Hamon vince una nuova sinistra” Per il politologo le primarie socialiste sanciscono la sconfitta delle politiche di Hollande: e il successo di un partito più attento alle ideeANAIS GINORI IL VINCITORE Rep 31 1 2017
Marc Lazar, professore a Sciences Po e alla Luiss di Roma, con la vittoria di Benoît Hamon la gauche abbandona il realismo e sceglie l’utopia?
«Il voto delle primarie è soprattutto contro François Hollande e i suoi governi. Una parte della sinistra si è mobilitata per esprimere chiaramente il rigetto di quello che è stato fatto negli ultimi cinque anni. Poi la forza di Hamon è aver saputo offrire una narrazione nuova, spostando il partito a sinistra. Il concetto di utopia in questo caso è da maneggiare con cura».
Perché?
«Hamon non rappresenta una sinistra movimentista, solo di protesta e di opposizione. Lui vuole il potere. Le sue proposte sono discutibili, si può essere perplessi sulla fattibilità di alcune misure, ma sono lo specchio di una nuova visione del mondo, del lavoro, dell’ecologia».
L’idea di versare a tutti un reddito universale, che costerebbe allo Stato centinaia di miliardi di euro, non denota un’assenza di realismo?
«Ci sono riflessioni di filosofi su questa misura, che affascina in modo trasversale, e nasconde un dibattito serio su quale sarà il futuro del lavoro. Sicuramente nell’immediato è un’illusione. Se per caso vincesse, ipotesi improbabile, Hamon avrebbe difficoltà a versare il reddito universale e potrebbe deludere i suoi elettori. Ma bisogna guardare la proposta da un altro punto di vista».
Quale?
«E’ un risposta, magari sbagliata, a una domanda giusta, che esiste soprattutto tra i giovani. Ovvero immaginare la trasformazione del mondo e colmare quel vuoto di speranza, ideali, che ha portato all’attuale crisi della sinistra non solo in Francia. Hamon è il sintomo di radicalizzazione della sinistra sia all’interno di alcuni partiti, com’è accaduto nel Labour con Jeremy Corbyn, sia fuori, con la nascita di forze nuove come Syriza, Podemos».
Una sorta di rivincita sul riformismo di esponenti come Manuel Valls o Matteo Renzi?
«Nella loro lunga storia i riformisti o socialdemocratici hanno sempre sofferto di un deficit di credibilità sull’economia. La destra li ha sempre descritti come capaci solo di “tax and spend”, tassare e spendere soldi pubblici. I riformisti hanno dimostrato in Francia o in Italia di poter invece amministrare, governare. Ma per un certo elettorato di sinistra non è sufficiente. E probabilmente c’è anche una questione di metodo: sia a Valls che a Renzi è mancata l’arte del compromesso e una certa pedagogia nello spiegare le riforme».
Perché la svolta all’estrema sinistra del Ps non ha beneficiato Arnaud Montebourg?
«Montebourg ha una visione economica molto protezionista, mentre Hamon è aperto al mondo, unisce l’aspetto sociale a quello ecologico. La mancanza di notorietà del prescelto è un vantaggio: è apparso come un nome nuovo».
Hamon sarà sostenuto da Valls e dagli altri socialisti?
«Valls l’ha promesso ma penso che, in pratica, sarà fatto con poca convinzione, come accadde nel 2007 quando Ségolène Royal non venne appoggiata dall’apparato. L’ala destra del partito socialista si asterrà o farà poco. Il problema di Hamon è anche aprire un dialogo con i candidati fuori dal partito, come Mélenchon o Jadot (esponente dei Verdi, ndr.). E’ stato abile, già ieri ha lanciato un appello all’unità, in modo da farli sembrare settari».
Cosa succederà in caso di eliminazione di Hamon al primo turno?
«Dipende dalla percentuale che ottiene. Se ha un risultato dignitoso, strappando abbastanza voti a Mélenchon, come sembrano suggerire i primi sondaggi, allora potrà prendere il controllo del partito nell’autunno prossimo. Se invece finirà dietro a Mélenchon, allora Valls lancerà la battaglia per riconquistare la leadership».
E’ possibile la scomparsa del vecchio Ps?
«Non credo che possa sparire nel giro di qualche mese com’è accaduto al Partito socialista di Craxi. Nonostante la crisi, è una forza politica radicata nel Paese, negli enti locali, nell’amministrazione dello Stato. Di certo si è chiuso quello che noi chiamiamo il ‘ciclo di Epinay’ dal nome del congresso del 1971. E’ allora che François Mitterrand è riuscito a mettere insieme le diverse anime del socialismo. Una lunga storia terminata. Dopo le presidenziali, ci sarà un chiarimento: in un senso o nell’altro».
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