venerdì 3 febbraio 2017

Il mito della concorrenza col culo degli altri presso i liberali italiani

Alfredo Gigliobianco e Gianni Toniolo (a cura di): Concorrenza, mercato e crescita in Italia: il lungo periodo, Banca d’Italia-Marsilio, pp. 586, € 50

Risvolto
Che cosa insegna la storia a proposito del nesso fra concorrenza e crescita? Qual è stato il ruolo della concorrenza nel definire i caratteri dell'economia italiana? Con quali implicazioni per la situazione attuale? La ricerca, promossa dalla Banca d'Italia, dopo uno sguardo generale all'esperienza storica europea, si focalizza sull'Italia. L'evoluzione della concorrenza nel nostro Paese, le politiche che l'hanno promossa e ostacolata, sono analizzate a livello aggregato e a livello settoriale.            



La concorrenza? Non è più una minaccia ma uno stimolo all’innovazione 

A lungo osteggiata per la convergenza ideologica di comunisti e cattolico-sociali e gli interessi della politica, sdoganata solo dagli Anni 90: in un libro i pro e i contro 

Alberto Mingardi Busiarda 3 2 2017
Nei titoli di prima pagina di questo giornale, la parola «concorrenza» appariva meno di frequente negli Anni Settanta che negli Anni Cinquanta. Quando capitava aveva un’accezione negativa, era associata «alla minaccia della concorrenza internazionale». Soltanto negli ultimi quattro lustri la concorrenza comincia a essere considerata un vettore di stimolo e innovazione. Questo è uno dei tanti segnali che Alfredo Gigliobianco e Cristina Giorgiantonio assemblano nel loro saggio su Concorrenza e mercato nella cultura, capitolo centrale del nuovo libro della collana storica della Banca d’Italia, curato per Marsilio da Gigliobianco e da Gianni Toniolo (pp. 586, € 50). 
In Italia la normativa a tutela della concorrenza risale al 1990, il legislatore ci mette mano solo quando la nostra adesione al club europeo la rende inevitabile. Il treno era stato perso all’epoca della Costituente. Ricorda Filippo Cavazzuti in un istruttivo Racconto di politica economia sul protezionismo: «Le proposte per la razionalizzazione delle imprese statali, per la riforma delle società per azioni, per contrastare i monopoli non trovarono riferimenti nei “maestosi articoli” scolpiti nella Costituzione». In parte, ciò accadde per la convergenza ideologica di comunisti e cattolico-sociali. Ma in parte ciò avvenne perché un pezzo importante dell’Italia fascista, la forte presenza pubblica nell’economia, trasmigrò immutato nell’Italia repubblicana. L’Iri, nel 1949-54, aveva partecipazioni pari «al 65,8% del complessivo capitale delle Spa italiane».
La politica si teneva caro uno strumento d’influenza così potente, mentre cercava anche di guadagnarsi il sostegno delle aziende private, tramite iniziative che sono assimilabili a un «protezionismo interno»: dai salvataggi industriali ai sussidi a fondo perduto al credito agevolato. Nondimeno, nell’industria manifatturiera, dimostrano Federico Barbiellini Amidei e Matteo Gomellini in uno dei saggi più densi del volume, «la crescente apertura alla penetrazione delle importazioni nel secondo dopoguerra», dovuta in primis al mercato comune europeo, riuscì a imporre la disciplina della competizione alle imprese italiane. 
Altri contributi tendono a circoscrivere i vantaggi della concorrenza, segnalando come «l’oligopolio possa svolgere il ruolo di motore della crescita in una prospettiva dinamica». Giusto ricordare che i mercati reali non assomigliano al cliché della «concorrenza perfetta», nella quale tante imprese producono tutte il medesimo bene. Se il finanziere americano Peter Thiel fa l’elogio del monopolio, perché chiunque faccia una cosa nuova ne è per un certo periodo un monopolista, e dunque di monopoli c’è bisogno perché c’è bisogno di cose nuove, il monopolio in questione è però temporaneo, esposto alla sfida di eventuali nuovi entranti, mai rinsaldato dal presidio dello Stato. 
Luigi Einaudi avrebbe voluto scrivere in Costituzione che «la legge non è uno strumento di formazione di monopoli» proprio perché ben comprendeva che il problema è la politicizzazione di posizioni di rendita, non il fatto che l’innovatore arrivi per primo e ne goda i vantaggi. Le difficoltà degli innovatori coincidono con quelle della concorrenza: sono le barriere che impediscono di entrare in un mercato, o di «crearne» uno nuovo. Non sembri un dettaglio: la posizione di vantaggio temporaneo conquistata con le proprie forze è tutt’altra cosa che quella garantita dalle norme. È la differenza tra vincere una partita e scendere in campo sapendo già il risultato.
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