Predrag Matvejevic, voce dal crogiolo
Avvenire Piero Del Giudice giovedì 2 febbraio 2017
Tuttavia è L’epistolario dell’altra Europa il lavoro che a mio avviso descrive meglio il coraggio e la parte sempre molto combattiva e ribelle di Predrag. Perché lui era un grande combattente, sempre in soccorso degli ultimi.
Nel 1993 scrive lettere a Milosevic e Tudjman consigliando a entrambi il suicidio per il bene dei loro popoli. Ma ancora prima si era rivolto a Tito consigliandogli di dimettersi e pensare a un successore per il bene del paese. Ovviamente, tutti messaggi e suggerimenti inascoltati. Erano una critica serrata, dolente e vissuta del socialismo reale, la radiografia di quella temperie politica. Come si evince dalle lettere scritte a Havel, Sacharov, Solzenicin, Brodski, Kundera, per citare solo alcuni dei suoi interlocutori; in quelle righe vi erano chiarimenti ma anche appoggio agli intellettuali dell’Est perseguitati dai regimi totalitari.
«Sono nato in un paese senza frontiere e poi le frontiere si sono costruite» diceva Predrag Matvejevic. Speriamo che non se ne sollevino molte altre.
SCHEDA
L’amore per la lingua di Dante
Predrag Matvejevic, socialismo dionisiaco
Erano gli stessi anni in cui viveva a Roma, tra asilo ed esilio, Predrag Matvejević, che fece parte del Comitato organizzativo della Scuola di Curzola, il palco internazionale di quella rivista e il luogo dove avveniva il dialogo tra le varie anime delle sinistre di un mondo diviso dalla Guerra fredda e dai muri. Animato dalla volontà di capire di più di quella stagione della storia culturale della Jugoslavia, nell’ormai lontano 2001, provvisto di un registratore per cassette (all’epoca si faceva cosi), in un caldo luglio romano, catturai alcuni suoi ricordi e riflessioni di quegli anni.
Partita dalla Scuola estiva di Curzola, quella intervista si è trasformata in molto di più, una visione personale dello scrittore su alcune esperienze significative della sua vita e del paese in cui aveva vissuto. Non è un resoconto pignolo dei fatti, ma piuttosto una loro interpretazione. Questo è il suo pregio, anche se qualche storico potrebbe pensare diversamente.
In ricordo di questa personalità straordinaria, convito che la vita si conservi nel pensiero e nella parola, propongo un estratto di quel suo racconto/ricordo del mondo di ieri.
D: Quali sono stati i suoi primi contatti con i filosofi e gli intellettuali della rivista Praxis?
R: Quando la rivista Praxis iniziò a uscire alla metà degli anni Sessanta io ero ancora in Francia. Il mio avvicinamento ai filosofi praxisti risale al 1968. Ero da poco tornato a Zagabria poiché nel dicembre del 1967 avevo discusso il dottorato alla Sorbonne e da ricercatore ero diventato docente all’Università di Zagabria. A maggio, e più tardi nel giugno del ‘68, la rivolta studentesca parigina si espanse in molte città europee, tra le quali anche Belgrado e Zagabria. Mi ricordo che nei primi giorni di quel giugno ci siamo radunati nel Centro studentesco. Le manifestazioni erano già iniziate a Belgrado e la polizia ci sorvegliava. Poiché avevo vissuto a Parigi ed ero stato testimone del clima culturale che aveva preceduto il maggio francese, gli studenti di Zagabria mi chiesero di parlare. Fui tra quelli che suggerirono di far intervenire in quell’occasione anche Gajo Petrovi, capo redattore della rivista Praxis e Mladen Čaldarović, uno dei membri della redazione. Il discorso che tenni quel giorno uscì sulla rivista Razlog con il titolo Cosa hanno in comune i movimenti studenteschi in Europa. Seguendo le sorti del testo del programma d’azione degli studenti di Belgrado, quel mio contributo venne proibito. Confesso che non ho mai compreso perché fu vietato, poiché in esso non c’era nulla di veramente sovversivo. Questo fu il mio primo contato diretto, in qualche modo “intimo”, con i compagni della rivista Praxis.
D: Che seguito hanno avuto questi primi contatti?
R: Dopo quei fatti il collega Branko Bošnjak, membro della redazione della rivista Praxis, mi chiese di far parte del Comitato direttivo della Scuola di Curzola.
D: Se lo aspettava questo invito?
R: Sinceramente no, per due ragioni. In primo luogo mi ritenevo ancora troppo giovane e poi loro erano filosofi, mentre la mia formazione era letteraria. Credo che Bošnjak abbia contato sul fatto che le mie relazioni con l’Inteligencija francese potessero essere utili alla Scuola, anche perché a quel tempo collaboravo con alcuni giornali francesi e in particolare con il supplemento letterario di Le Monde.
D: Cosa hanno rappresentato per lei i filosofi della rivista Praxis?
R: Sono stato solo un membro del Comitato direttivo della Scuola e non della redazione della rivista. Non scrivevo per Praxis in quanto non mi sentivo un filosofo e vedevo questa saggistica filosofica come un pericolo per la letteratura. Comunque, la stagione della Scuola estiva rappresentò per me un periodo di maturazione. Fu il mio apprendistato, anche se non ho avuto un maestro in particolare. Mi trovai fra intellettuali che cercavano come me di pensare ad un socialismo dal volto umano da contrapporre al socialismo reale.
D: Quando andò la prima volta a Curzola?
R: Partecipai alla Scuola di Curzola per la prima volta nell’estate del 1968. Esisteva già da qualche anno, ma quella volta eravamo davvero in tanti. Quell’estate venne Herbert Marcuse che era al massimo della fama, in qualche modo era un mito del movimento studentesco. Curzola fu il primo posto in cui venne dopo il ‘68 parigino, prima ancora di qualsiasi altro in Francia. Fu una bellissima esperienza, ero giovane e da poco docente, avevo un’auto con la quale aiutavo colleghi e compagni più anziani nell’organizzazione e ogni tanto facevo traduzioni. Ricordo che tra noi c’erano Ernst Bloch, Henry Lefebvre con i suoi studenti di Nanterre, Erich Fromm che chiamavamo “l’Europeo d’America”, Jürgen Habermas che cercava ancora la sua strada, Lucien Goldmann, Kosta Axelos, Jean-Michel Palmier, Mario Spinella, Enzo Paci, Lelio Basso e tantissimi altri. Venivano anche i compagni dell’Istituto Gramsci e tantissimi studenti da ogni dove. In quei giorni avvenne l’occupazione di Praga e durante quei fatti si vide l’ingenuità di Dubček e si capì come Tito nel 1948 fosse stato molto più astuto di Dubček e di Imre Nagy nel 1956. Nessuno nel movimento comunista vedeva in Dubček un controrivoluzionario. L’entrata a Praga delle truppe del patto di Varsavia creò un grande scompiglio e molti dei comunisti espressero le loro riserve verso la politica dell’Unione Sovietica. Tutti eravamo sconvolti e per reagire decidemmo di scrivere delle lettere di contestazione. Bisogna ammettere che il governo jugoslavo permise a tutti quelli che volevano lasciare la Cecoslovacchia di venire e rimanere in Jugoslavia. Anche noi, da parte nostra, abbiamo fatto di tutto per aiutare i colleghi cecoslovacchi a rimanere nel nostro paese o di andare altrove liberamente. Questa fu la mia prima esperienza a Curzola e da allora andai ogni estate fino al 1974, quando la Scuola fu chiusa.
D: Cosa ricorda come una particolarità di quella Scuola in quegli anni?
R: La cosa più importante erano i dibattiti molto liberi come anche gli scontri fortissimi tra opinioni diverse. Non a caso di Curzola si parlava come di un luogo del “socialismo dionisiaco”. Ero spesso assieme ai trotzkisti, tra cui c’era Ernest Mandel, che era la guida del gruppo. Ricordo delle sue critiche totali e violente. Anche gli anarchici venivano in gran numero e tra questi c’era Daniel Guérin. Per molti, educati nel moralismo staliniano, era una sorpresa vedere come Guérin non nascondesse la sua omosessualità. Dato che parlavo francese, ho avuto occasione di tradurre le sue relazioni e ricordo che in quegli stessi anni furono tradotti a Zagabria i suoi scritti.
D: Perché oggi sembra che di tutti quegli sforzi non è rimasto nulla?
R: In primo luogo bisogna considerare che questa guerra è stata una grande tragedia, che ha esaurito, disunito e disarmato le forze intellettuali del paese. Il discorso nazionalista appariva già molto forte negli anni Ottanta, così sono riusciti a dividerci. Dopo la morte di Tito, ma anche negli ultimi decenni della sua vita, il partito era diventato un’organizzazione impotente, senza fini, disunita e nazionalizzata. Tutto questo poi va inquadrato all’interno della crisi che il movimento socialista internazionale stava vivendo e del fallimento dell’Urss, che diventava sempre più palese. Invece di trovare una nuova via noi siamo tornati ai vecchi nazionalismi. Purtroppo anche la parziale realizzazione dell’autogestione ha aiutato il nazionalismo. Io sono stato un difensore dell’autogestione, ma ritengo che bisogna distinguere due livelli, quello che gli inglesi chiamano Self-management (gestione della fabbrica) dal Self-government. In Jugoslavia si è dato vita ad un Self-government, e questo ha dato un apporto positivo all’affermazione delle identità, ma alla fine le ha spinte verso le vecchie ideologie nazionaliste che si sono fatte guerra.
D: Cosa rimane oggi del marxismo umanista della rivista Praxis?
R: Rimane un ricordo importante, uno tra i capitoli più belli della storia dell’Europa dell’Est e della ex Jugoslavia. Le amnesie sono di regola negative, per questo bisogna cercare di non dimenticare.
Foibe, la dignità di un dolore corale Intervista. Polemiche tendenziose ripetute ogni anno su un crimine che in realtà ebbe inizio nel 1920 Tommaso Di Francesco Manifesto Alias 11.2.2017, 22:35
“Certo che bisogna tornare sulle foibe, ogni volta, ogni anno”. A dieci anni esatti dall’istituzione del Giorno del Ricordo, il bilancio di Predrag Matvejevic è ancora una volta critico e insiste a “ricordare tutti i ricordi”. Nel 2004 un’iniziativa revisionista storica della destra post-fascista, riciclata e diventata di governo ed elettoralmente candidabile grazie a Silvio Berlusconi, portò a buon fine la sua battaglia negazionista del passato di crimini italiani nell’ex Jugoslavia. Centrando l’obiettivo di ridurre la prospettiva all’ultimo, infausto periodo, delle responsabilità slave. A questo punto di vista tutto l’arco costituzionale s’inchinò. Favorendo negli anni processi cosiddetti culturali – fiction, cerimonie, opere teatrali – di rimozione della verità storica. Su questo abbiamo voluto ancora una volta ascoltare per i lettori del manifesto il grande scrittore dell’asilo e dell’esilio, l’autore di Breviario mediterraneo – per citare solo una delle sue opere – che ama ancora definirsi jugoslavo. “A proposito di storia, che vergogna che qui, in Croazia, la Chiesa che ha così gravi responsabilità nella connivenza con il nazifascismo e con l’ideologia ustascia, abbia praticamente disertato due settimane fa le celebrazioni del Giorno della Memoria” ci dichiara subito Predrag Marvejevic.
D. Sono passati dieci anni dall’istituzione di questa Giornata da parte delle istituzioni italiane, che ha sempre visto la protesta dei nostri storici democratici. Che bilancio va fatto?
R. Intanto che non bisogna smettere di raccontare la verità. André Gide diceva: “Bisogna ripetere…nessuno ascolta”. Ognuno, soprattutto in questa epoca sembra chiuso nella propria sordità. Il bilancio non è positivo, se a celebrare il Giorno della memoria alla Risiera di San Sabba, il lager nazista al confine tra due popoli, accorrono anche post-fascisti abili a cancellare i crimini del fascismo italiano nelle terre slave. E ogni anno abbondano fiction e rappresentazioni che invece di raccontare il pathos collettivo che riguarda almeno due popoli, riducono tutto, nella forma e nei contenuti, alla sola tragedia delle vittime italiane. Ho scritto sulle vittime delle foibe anni fa in ex Jugoslavia, quando se ne parlava poco in Italia. Ero criticato. Ho avuto modo di sostenere gli esuli italiani dell’Istria e della Dalmazia (detti “esodati”). L’ho fatto prima e dopo aver lasciato il mio paese natio e scelto, a Roma, una via “fra asilo ed esilio”. Continuo anche ora che sono ritornato a Zagabria. Condivido il cordoglio italiano, nazionale e umano, per le vittime innocenti. Credevo comunque che le polemiche su questa tragedia, spesso unilaterali e tendenziose, fossero finite. Invece si ripetono ogni anno, sempre più strumentalizzate.
D. C’è qualche episodio particolare di strumentalizzazione che ricorda?
R. Voglio ricordare il caso del 2008 dello scrittore di confine, il grande Boris Pahor. Ecco uno scrittore che ha fatto della coralità del dolore la sua materia, e infatti ha raccontato la tragedia dei crimini commessi dai fascisti in terra slava e il lascito di odio rimasto. Di fronte all’onorificenza che nel gli offriva il presidente della repubblica Giorgio Napolitano, insorse dichiarando che avrebbe detto no, l’avrebbe rifiutata, se dalla presidenza italiana non arrivava una chiara presa di posizione contro i silenzi sugli eccidi perpetrati da Mussolini.
D. Che cosa fu in realtà il crimine delle Foibe?
R. Sì, le foibe sono un crimine grave. Sì, la stragrande maggioranza di queste vittime furono proprio gli italiani. Ma per la dignità di un dolore corale bisogna dire che questo delitto è stato preparato e anticipato anche da altri, che non sono sempre meno colpevoli degli esecutori dell’ “infoibamento”.
La tragica vicenda è infatti cominciata prima, non lontano dai luoghi dove sono stati poi compiuti quei crimini atroci. Il 20 settembre 1920 Mussolini tiene un discorso a Pola (non certo casuale la scelta della località). E dichiara: “Per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara”. Ecco come entra in scena il razzismo, accompagnato dalla “pulizia etnica”. Gli slavi perdono il diritto che prima, al tempo dell’Austria, avevano, di servirsi della loro lingua nella scuola e sulla stampa, il diritto della predica in chiesa e persino quello della scritta sulla lapide nei cimiteri. Si cambiano massicciamente i loro nomi, si cancellano le origini, si emigra…
Ed è appunto in un contesto del genere che si sente pronunciare, forse per la prima volta, la minaccia della “foiba”. E’ il ministro fascista dei Lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si era affibbiato da solo il nome vittorioso di “Giulio Italico”, a scrivere già nel 1927: “La musa istriana ha chiamato Foiba degno posto di sepoltura per chi nella provincia d’Istria minaccia le caratteristiche nazionali dell’Istria” (da “Gerarchia”, IX, 1927). Affermazione alla quale lo stesso ministro aggiungerà anche i versi di una canzonetta dialettale già in giro: “A Pola xe l’Arena, La Foiba xe a Pisin”, che ha fatto bene a ricordare su Il Manifesto nei giorni scorsi Giacomo Scotti nel suo saggio.
Le foibe sono dunque un’invenzione fascista. E dalla teoria si è passati alla pratica. L’ebreo Raffaello Camerini, che si trovava ai “lavori coatti” in questa zona durante la seconda guerra mondiale ha testimoniato nel giornale triestino Il Piccolo (5. XI. 2001): “Sono stati i fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari”. La vicenda “con esito letale per tutti” che racconta questo testimone, cittadino italiano, fa venire brividi.
D. Come è vissuto il Giorno del Ricordo nell’ex Jugoslavia, quali “ricordi” reali va a risvegliare?
R. La storia (con la S maiuscola) potrebbe aggiungere alcuni altri dati poco conosciuti in Italia. Uno dei peggiori criminali dei Balcani è certamente il duce (poglavnik) degli ustascia croati Ante Pavelic. E il campo di Jasenovac è stato una Auschwitz in formato ridotto, con la differenza che lì il lavoro micidiale veniva fatto “a mano”, mentre i nazisti lo facevano in modo “industriale”. Aggiungiamo che quello stesso criminale Pavelic con la scorta dei suoi più abietti seguaci, poté godere negli anni trenta dell’ospitalità mussoliniana a Lipari, dove ricevevano aiuto e corsi di addestramento dai più rodati squadristi.
Le “camicie nere” hanno eseguito numerose fucilazioni di massa e di singoli individui. Tutta una gioventù ne rimase falciata in Dalmazia, in Slovenia, in Montenegro. A ciò bisogna aggiungere una catena di campi di concentramento, di varia dimensione, dall’isoletta di Mamula all’estremo sud dell’Adriatico, fino ad Arbe, di fronte a Fiume. Spesso si transitava in questi luoghi per raggiungere la risiera di San Sabba a Trieste e, in certi casi, si finiva anche ad Auschwitz e soprattutto a Dachau.
I partigiani non erano protetti in nessun paese dalla Convenzione di Ginevra e pertanto i prigionieri venivano immediatamente sterminati come cani. E così molti giunsero alla fine delle guerra accaniti: “infoibarono” gli innocenti, non solo d’origine italiana. Singole persone esacerbate, di quelle che avevano perduto la famiglia e la casa, i fratelli e i compagni, eseguirono i crimini in prima persona e per proprio conto. La Jugoslavia di Tito non voleva che se ne parlasse. Abbiamo comunque cercato di parlarne. Purtroppo, oggi ne parlano a loro modo soprattutto i nostri ultra-nazionalisti, una specie di “neo-missini” slavi.
Ho sempre pensato che non bisognerebbe costruire i futuri rapporti in questa zona sui cadaveri seminati dagli uni e dagli altri, bensì su altre esperienze. Ad esempio culturali…Per questo auspico la proclamazione congiunta de “Il giorno dei ricordi”. E questo mi sembra il nuovo intendimento che emerge e per i quale dobbiamo batterci.
(riproponiamo questa intervista ancora di grande attualità in questi giorni, pubblicata sul manifesto solo tre anni fa, il 9 febbraio 2014)
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