martedì 21 febbraio 2017

Il piccolo bluff

Pd, scissione, Renzi: Dal «rispetto» al «game over» L'odio freddo tra i ... Corriere
Pd, identikit della Cosa rossa: i volti e i numeri della scissione  Corriere della Sera · 13 ore fa
Da Bersani a D’Alema e gli ex Sel subito i gruppi in Parlamento E c’è già un nome: Nuova sinistra GOFFREDO DE MARCHIS Rep
Nuova sinistra-diritti e lavoro. È uno dei possibili nomi per i gruppi parlamentari della scissione Pd. Sta scritto sui foglietti volanti della riunione che ha messo intorno al tavolo, ieri pomeriggio, alla fine dell’assemblea del Pd, Michele Emiliano, Roberto Speranza, Enrico Rossi in collegamento telefonico, Nico Stumpo, Francesco Boccia e Dario Ginefra. Riunione dove non era ancora chiaro l’approdo, soprattutto per il gruppo dei pugliesi, ma dove qualche conto sui numeri in Parlamento e qualche nome è stato fatto. Certificando che la fine del Pd come lo conosciamo è davvero dietro l’angolo. Questione di ore. E che almeno una parte degli scissionisti ha varcato il Rubicone.
«Va mantenuto l’impianto di centrosinistra e ulivista», dice attorno a quel tavolo Speranza guardando ormai fuori dalla sua vecchia casa. Il nome potrebbe diventare anche Centro sinistra-diritti e lavoro. Ulivo no, perché c’è il copyright e perché è un’ispirazione ma non un marchio spendibile dieci anni dopo la caduta del Prodi 2. Comunque la traccia è quella, è quello il senso della storia.
I numeri: alla Camera vengono dati per sicuri 22 deputati bersaniani in uscita. Si uniranno ai 16 che firmarono per la candidatura di Arturo Scotto alla segreteria di Sinistra italiana. Scotto si è poi legato al nuovo progetto Pisapia e unirà le forze con i fuoriusciti del Pd. Così si costituisce un gruppo di 38 deputati. Al Senato Scotto non ha truppe. Ma i bersaniani sono tra i 12 e i 15, sufficienti per formare un gruppo autonomo, avere un capogruppo, ottenere i finanziamenti destinati alle forze presenti alle Camere. I sondaggi, spiegano, faranno il resto. Con le elezioni politiche alle porte, se il dato di una nuova forza cresce, salirà anche l’attrazione. Perché aumenteranno i posti per essere eletti. Un ragionamento poco nobile ma che fanno anche nel Pd renziano, almeno a giudicare dal fuorionda di Graziano Delrio.
Stumpo, da ieri, è incollato al telefono per capire la reazione dei territori dopo la sfida in assemblea. «Sto lavorando», è la sua risposta secca a chi lo cerca per un commento. Tutto è in movimento, i numeri sono ballerini. Molti dicono per difetto. L’onda dell’entusiasmo, della novità. Federico Fornaro, senatore bersaniano, fa una considerazione giusta: «La scissione è una cosa dolorosa. Io esco. Ma è difficile rispondere per gli altri. Lasciare un partito è una scelta troppo personale». Il gruppo scissionista del Senato è quello decisivo, può orientare le scelte del governo sulle misure che verranno prese per evitare il referendum sui voucher. “Diritti e lavoro” dice già come vorrà orientare il provvedimento dell’esecutivo su una parte del Jobs act.
Le bocche sono cucite, nessun dato è ufficiale. Per due motivi. Primo, non bisogna dare credito alle accuse dei renziani di una scelta organizzata da tempo. Secondo, fino all’ultimo, giurano i dissidenti, è mancata una regia della scissione sperando nella pace. Ma numeri, organigrammi e nomi sono già negli ipad, nei whatsapp dei gruppi che nascono in questi momenti. Il leader naturale della nuova forza è Michele Emiliano. È una decisione condivisa anche da Bersani con il quale, confida il governatore, si è stabilito «un legame d’affetto». Ma Emiliano non è sicuro che un’offerta presentata da Bersani e Massimo D’Alema sia sicura al 100 per cento. Però alla casella “leader” il suo nome c’è. Il capogruppo al Senato potrebbe essere Doris Lo Moro, che i bersaniani avevano già candidato alla guida della prima commissione. Alla Camera sia Speranza sia Scotto hanno già fatto i presidenti dei loro gruppi. Passerebbero la mano ad Andrea Giorgis, costituzionalista.
Le carte, i numeri, sono nelle mani di Stumpo e di Davide Zoggia, la filiera organizzativa del Pd di Bersani. Uno con la delega al centrosud, l’altro con la competenza del centronord. Già oggi Speranza vedrà Giuliano Pisapia a Venezia per trovare un terreno d’intesa. Scotto, dall’opposizione, entrerà in un gruppo pronto a votare la fiducia al governo Gentiloni, obiettivo 2018. «È questa la strada — ammette —. E saremo più di 16, vedrete». Il riferimento, dice, è a “Italia bene comune”, il nome della coalizione di Bersani alle elezioni del 2013.
Si punta anche a un ricambio generazionale, malgrado la presenza dell’ex segretario Pd e di D’Alema. «Ma anche Renzi ha dovuto recuperare Veltroni e Fassino, mi pare», osserva un bersaniano. Si prepara una specie di cerchio magico composto dal nucleo della vecchia Sinistra giovanile, l’organizzazione studentesca dei Ds: Stumpo, Speranza, Scotto. Meno mediatici, ma non si sentono inferiori ai fedelissimi renziani che hanno guidato il Pd negli ultimi tre anni. Di quella nidiata e di quel gruppo di amici fraterni, che hanno diviso case da fuori sede, serate, viaggi e un pezzo di vita, facevano parte, tra gli altri, anche Vinicio Peluffo e Enzo Amendola. E l’alto rappresentate dell’Unione europea Federica Mogherini. Ognuno ha poi scelto il suo percorso. Ma il legame è rimasto. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Il dilemma di Emiliano “Tengo le mani libere un segnale e resto” Il governatore: “So che per noi c’è un’autostrada. Però la mia non sarà mai la scissione di D’Alema” TOMMASO CIRIACO RepResto o sbatto la porta, si arrovella Michele Emiliano mentre cerca invano un bar aperto ai Parioli. «Non ho dormito un minuto, stanotte». Tutto chiuso, è domenica. La partita nel Pd, invece, è ancora aperta: «Fino a mertedì mi tengo le mani libere, lavoro fino alla fine per un’intesa ». Il governatore sconta la privazione di caffè con gli occhi gonfi mostrati in assemblea. «Certo che vorrei restare – confida, scortato da Dario Ginefra e Francesco Boccia – questo è il mio partito». Lui, a dire il vero, non ha mai davvero avuto voglia di sbattere la porta. Anche a rischio di attirarsi l’ironia della platea per un intervento tanto morbido da spiazzare, neanche di fronte ai toni sempre duri di Matteo Renzi. «L’ho fatto per tenere assieme questa comunità ».
Quando sabato mattina gli altoparlanti del teatro Vittoria hanno suonato “Bandiera Rossa”, Emiliano non era ancora arrivato in sala. «Non c’ero...». Meno male, sembra di capire. Perché se i bersanian-dalemiani spingono sull’acceleratore dell’identità “rossa”, più di un tormento frena il governatore. Lui mira al bersaglio grosso. Studia da tempo la scalata del partito, lo immagina come trampolino per il salto verso Palazzo Chigi. Non ha alcuna intenzione, insomma, di finire in una riserva di caccia per puristi della sinistra ortodossa e minoritaria. «Sì, sono d’accordo – ammette c’è il rischio che questa operazione sconti una debolezza: sembrare la scissione di D’Alema. Lo conosco bene, Massimo. Non potete immaginare quante me ne ha fatte da quando ho detto sì alla politica, anche se adesso stiamo lavorando assieme».
E poi, perché rinunciare a contendere la leadership proprio adesso, nel momento di massima debolezza del capo del Pd? Per molti resta un autogol incomprensibile: «C’è un problema – replica Emiliano - io vorrei giocare una partita seria, coi tempi congressuali giusti. Sì, lo so, c’è un’autostrada per noi. Ma se le regole non sono chiare, se addirittura sembrano truccate, cosa posso fare? E se Renzi continua a fare il pazzo, che alternativa ho?».
Il discorso del segretario dal palco spinge l’umore di Emiliano verso il cupo, al limite del crepuscolare. Né basta la mossa a sorpresa di intervenire, ”dimenticando” i patti siglati alla vigilia con gli altri compagni di scissione. Una giravolta che stupisce la platea, innervosisce la minoranza e provoca lo scherno dei renziani. La mano tesa comunque non basta. Renzi ignora l’offerta di dialogo, se si esclude un “batti cinque” pubblico a favore di telecamere. «Da Matteo non è arrivato neanche un segnale – si sfoga il leader pugliese – Ma come si fa?».
La tensione intanto sale. Lo si capisce anche dai social, che Emiliano fiuta costantemente. Stavolta arrivano critiche. “Sei stato troppo morbido”, gli scrivono, che è poi il rimprovero di Pierluigi Bersani e Roberto Speranza. E così, per evitare di spaccare la coalizione delle “tre punte”, arriva il duro comunicato stampa serale. Per tenere assieme la coalizione antirenziana, ma senza cedere definitivamente alla tentazione della scissione. «Io ho una responsabilità verso questa comunità».
Quando fa buio il telefonino del governatore diventa incandescente. «La partita non è chiusa – ripete a tutti, dopo un incontro con gli altri “scissionisti” - e io voglio restare. Resto autonomo, non inseguo Bersani o D’Alema, ma voglio tenere dentro tutti ». La linea non cambia, l’offerta alla segreteria è sempre valida: «Guerini - detta la linea ai suoi, per mettere ordine - non ha capito il senso di quanto abbiamo proposto: se ci concedono le primarie a luglio, noi ci siamo. Franceschini e Orlando hanno anche fatto delle aperture importanti, ma poi non sono stati conseguenti. Possibile che non capiscono che è interesse di tutti restare uniti? E che altrimenti rischiano anche loro di finire in minoranza molto presto?».
Le prossime ore saranno decisive. Nei panni del mediatore Emiliano si muove forse con qualche impaccio, ma non mancano le motivazioni per riuscire nell’impresa. A tutti ripete, come svuotato: «Ci prendiamo una notte per pensarci, dormiamoci su». Un accordo, resta questa voglia matta di un accordo. «E però Renzi niente, neanche mezzo segnale. Cosa dobbiamo fare? Anzi, cosa possiamo fare? ». ©RIPRODUZIONE RISERVATA


C’eravamo poco amati I 10 anni incompiuti dell’ex “partito del futuro”
Sono durate più le trattative per unire ex Dc ed ex Pci che l’unità del Pd Quante ferite mai sanate, fino alla “non vittoria” di Bersani e ai 101 di Prodi

ALESSANDRA LONGO Rep
«Le radici le sentiamo tutti noi e sono quello che fa forte l’albero. A condizioni che gli alberi e le radici si mischino e la linfa vitale della pianta nuova possa circolare liberamente». Così parlava Walter Veltroni, nel 2008, ad un anno dalla faticosa nascita del Pd, nella cornice rutilante di luci della fiera di Milano. Fu allora che le due culture riformiste del Paese, quella laica di sinistra, e quella del cattolicesimo democratico, si unirono ufficialmente per creare «una grande forza riformista di massa». Dieci anni dopo, il Pd, così come l’abbiamo conosciuto noi sfogliando l’album di famiglia, incassa una botta tremenda, muore per scissione. Vivrà forse un’altra vita ma non sarà mai più lo stesso.
Nato male, nato forse troppo tardi. «Il Pd avrebbe dovuto vedere la luce dieci anni fa», diceva Veltroni nel 2008. Ma non fu così facile l’avvio del progetto. Ne sa qualcosa Romano Prodi che lanciò il verbo ulivista nell’inverno del 1995, in serena solitudine. Solo 12 anni dopo, nel 2007, i Ds e la Margherita fanno il grande passo: rinunciano ai propri perimetri politici, al loro mondo consolidato. Si sciolgono, non senza patemi, si contaminano l’un l’altro, intenzionati a dar vita alla nuova creatura.
Gli alberi e le radici si mischiano. Comincia una storia diversa, originale, che costringerà la destra ad una affannata rincorsa. Immagini ormai sbiadite di entusiasmo, di energia. Il percorso del Pd inizia di fatto al Lingotto di Torino tra schermi al quarzo e la musica dei Procol Harum. 2007. Fusione allegra, non la scissione di ieri. Un momento di passione calda non «la passione triste» di oggi raccontata dal libro di Miguel Benasayag e Gerard Schmit. Il Pd di dieci anni fa è gioioso e ambizioso: vuol offrire agli italiani «un sogno», diventare «una forza di sinistra capace di pensarsi oltre le colonne d’Ercole di una funzione minoritaria ». E’mai stato tutto questo? Oppure , come dice Massimo D’Alema, certo non per valutazione super partes, si è rivelato soprattutto «un amalgama mal riuscito»?
Almeno all’inizio, circola molta speranza. Nell’ottobre del 2007, all’atto costitutivo del partito, primo segretario Veltroni, l’orizzonte dichiarato è alto: «Siamo il partito della vita reale, dei cittadini, il partito che bandisce l’odio per l’avversario, che «punta alla crescita, al lavoro, alla giustizia sociale» e mette in cantina «la vecchia valigia con gli utensili del ‘900». No, non è andata proprio come i fondatori sognavano. E’ stata, da allora, da subito, una storia piena di ostacoli, sconfitte, incomprensioni interne, vendette a freddo, spifferi e correnti. Nel 2008, la prima botta: battuti alle Politiche da Silvio Berlusconi, l’avversario che, durante la campagna elettorale, non viene nominato mai. Non basta per vincere l’appello al voto utile, mirato a tagliare l’ala estrema bertinottiana. Un anno dopo, sconfitta amministrativa in Sardegna. Veltroni lascia, è finita. Non andrà in Africa ma farà altro, libri, film, televisione. Già segnali di un percorso tormentato. Seguono l’intermezzo di Franceschini, la segreteria Bersani. E il primo addio illustre, quello di Francesco Rutelli, fondatore della Margherita. Le radici, secondo lui, non hanno attecchito, la linfa non si è mescolata, o meglio è più rossa che verde. Spiega: «Vado via subito, con dolore. Il Pd non è mai nato. Anziché creare un pensiero originale, si oscilla tra babele culturale e voglia di mettere all’angolo chi dissente. Non c’è un partito nuovo, ma il ceppo del Pds con molti indipendenti di centrosinistra ». Pd-post Pci lo chiama.
L’impianto scricchiola, le correnti prosperano, ognuno tende a coltivarsi il proprio gruppo in una spirale di autoreferenzialità che porterà dritta all’esito mesto di ieri. Il colpo vero, il colpo dal quale il partito non si riprende, arriva nel 2013, Bersani ammette: «Ho non vinto le elezioni». Il giaguaro Berlusconi non viene smacchiato, e 101 franchi tiratori, protetti dal voto segreto, accoltellano Prodi, (candidato alla presidenza della Repubblica alternativo a D’Alema). Una brutta storia, che lascia sospetti e veleni, rancori e divisioni. Il flop di Franco Marini poi la convergenza sulla candidatura di Romano Prodi e l’annuncio di Bersani ai grandi elettori del partito: «Siamo tutti con Romano!». Applausi a scena aperta, acclamazione senza voto. Ma in 101 tradiscono. Il fondatore dell’Ulivo viene giubilato.
Una ferita che non si rimargina, che lascia tracce profonde. Il resto è storia più recente: le dimissioni di Bersani, il governo delle larghe intese con Enrico Letta, lo «stai sereno» di Renzi che liquida il collega e scala il potere. Anche, nel mezzo, il bilancio positivo di cose fatte, l’affermarsi di una nuova classe dirigente necessaria al cambiamento e tuttavia proposta brutalmente all’insegna della rottamazione. Renziani, bersaniani, dalemiani, franceschiniani, giovani turchi. Il corpaccione del Pd è attraversato da spinte uguali e contrarie, dall’individualismo, dall’incomunicabilità interna, dagli insulti, dagli aut aut. O con noi o contro di noi. La pesante sconfitta al referendum, con il partito che si divide tra Sì e No, senza una linea unitaria, porta all’implosione. La bandiera di dieci anni fa ieri è stata ammainata. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Nessun commento: