martedì 21 febbraio 2017

I francescani in Cina nel XIII secolo

Quando i gesuiti erano i francescani 

Ben prima di Matteo Ricci l’ordine fu mandato in Cina in missione per conto del Papa

ALBERTO MELLONI Rep 20 2 2017
Le vie della seta sono un groviglio. Un fascio di strade e di rotte, sopra e sotto le grandi catene caucasiche, sulle quali l’audacia commerciale, diplomatica e missionaria dell’Italia medievale e moderna ha avuto un’importanza pari solo al ritardo con cui i grandi mediatori di cultura (la Rai, puta caso) prendono coscienza del dovere di studiarla e raccontarla. Su quelle vie passa attorno alle metà del Duecento una ipotesi diplomatico-militare non meno spericolata di quella dell’ambasciatore saraceno che nel 1238 aveva proposto un’alleanza ai crociati per sconfiggere i mongoli. Innocenzo IV che manda Giovanni da Pian del Carpine alla corte dei “Tartari”: il frate, che assiste all’elezione del
nuovo Kahn il 24 luglio 1246, propone un’alleanza contro gli Abbasidi, declinata con una delle lettera più belle conservate all’Archivio segreto vaticano. L’anno dopo Azzelino e Guicciardo da Cremona approdano con lo stesso scopo nelle città-caserma dell’Asia centrale: e vi trovano i generali cristiani nestoriani, eredi della predicazione del vangelo fatta dai missionari siriaci del VII secolo, fissatasi nella stele di Xi’an, con la traduzione del kerygma e del simbolo, e dove un Cristo assiso sul fiore di loto come un Buddha si distingue da lui per le stigmate.
Il re di Francia, di nuovo, invia Guglielmo di Rubruk (o Ruisbroek) che si fa accompagnare da Bartolomeo da Cremona nella stessa direzione e allo stesso scopo: grazie ai trasporti del signore dell’Orda d’oro arrivano nell’inverno del 1253 alla corte di Kublai Khan. Vedranno la sua nuova capitale, l’odierna Pechino, dove si insedierà la dinastia Yüan e dove rimarrà Bartolomeo, forse coi suoi libri e la sua saggezza. E dove Kublai Khan consegnerà a Marco Polo nel 1265 una lettera per chiedere che il papa mandi sei “uomini savi”: messaggio riferito dal mercante veneziano al cardinale Visconti — il futuro Gregorio X — prima di riportare al sovrano «l’olio de la lampana ch’arde al Sepolcro in Gerusalemme », di cui i cristiani nestoriani di corte gli dovevano aver parlato.
Conosce bene quelle vie Giovanni da Montecorvino — francescano della corrente spirituale, mandato missionario in Persia da Bonagrazia di Persiceto dal 1279, poi nunzio in Armenia alla corte del re Ayeton II. Al montecorvinate l’Ilkhan Argoun in persona consegna una lettera per Niccolò IV, primo papa francescano: gliela consegna a Rieti e il papa ricambia con ventisette missive ai sovrani armeni, georgiani, persiani ed “etiopi”, nelle vecchia logica di un’alleanza anti-islamica. Che ormai è secondaria rispetto a un disegno missionario tutto latino. A luglio del 1289 fra Giovanni riparte con un piccolo seguito e arriva alla capitale del Katai nel 1293, scortato da ultimo sulla grande via d’acqua dell’imperatore, alla corte del successore di Kublai, Temür Khan.
Dell’alleanza militare non si farà nulla. Nasce invece con lui una chiesa latina che entra in polemica con la chiesa siriaca. E le sue lettere portate alla corte papale dai mercanti creano entusiasmo: partono frati con «libros, calices et paramenta», e sette vengono consacrati vescovi da Clemente V perché possano a loro volta consacrare Giovanni e conferirgli i poteri di giurisdizione per fare diocesi e vescovi come delegato dalla bolla Nuper considerantes.
Giovanni organizza diverse diocesi e quando muore nel 1328 viene venerato come un santo in Cina: ma la sua costruzione non gli sopravvive. Andrea da Perugia, uno dei suoi vescovi, confessa otto anni dopo il fallimento ( « ego solus remansi » ), e nonostante l’arrivo di Giovanni da Marignolli nel 1338 e la missione di Giacomo da Firenze, ucciso da autorità musulmane nel 1370, svanisce la presenza stabile di cristiani latini nel regno di mezzo.
Non dei loro libri. Lo Speculum Historiale, parla degli uomini del Katai che hanno dimestichezza con le scritture e onorano le bibbie, si ha traccia flebile del transito di testi sacri rispettati per la loro calligrafia, che come sa chi conosce la cultura cinese è la cosa più preziosa che ci sia. Se ne rende conto l’Itinerarium del citato Guglielmo, ove si parla di un volume con « tota Scriptura Sacra » e si descrive la santa povertà degli Ungari presenti a Pechino che non hanno con sé nulla « nisi biblium et breuiarium » . Anche nello “scriptorium” trecentesco di Montecorvino si legge da un originale ciò che viene tradotto e dettato. Uno di questi libri sacri viene ritrovato tre secoli dopo: quando i gesuiti di Matteo Ricci e di Xu Guangqi impiantano un terzo incontro fra cristianesimo e Cina. Il loro suggestivo esperimento di inculturazione nascerà usando il trattato sull’amicizia di Confucio, ma né la sua traduzione né i libri portati in dono salveranno i gesuiti dalla ottusa diffidenza romana, che vedrà nei “riti” cinesi un sincretismo. L’ottusità impedì di capire che quei “riti” erano il modo necessario a dire l’unica fede in cinese: e che non è la Cina ad aver bisogno del cristianesimo, ma il cristianesimo ad aver bisogno della Cina, per liberarsi dalla circoncisione filosofica della cultura greca che ha dato al cristianesimo un retrogusto “occidentale” che non è un male, ma non gli è essenziale.
Quella ottusità oggi è forse stata superata, se è vero, come molti indizi fanno ritenere, che Cina e Santa Sede abbiano già trovato un accordo, giustamente sottoposto a una sperimentazione prima di essere annunciato («i nostri tempi sono eterni, i vostri infiniti: non ci vorrà molto», dicono che abbia glossato il più autorevole dei negoziatori). Quando sarà reso pubblico in Cina sarà una domenica normale, dove entreranno a una messa cattolica il doppio dei cristiani che lo fanno in Italia. A Roma ci sarà invece la canonizzazione di Montecorvino, di Ricci e di Xu. Una domenica qualunque per una svolta epocale. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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