lunedì 13 febbraio 2017

"Post-verità" a convenienza: sulla Busiarda il prof. De Luna rivendica il primato degli spacciatori di bufale di professione e a pagamento


Post verità, la bugia 2.0 che fa male alla democrazia 

A differenza del passato, oggi le false notizie dilagano senza filtri E si diffondono non soltanto nelle situazioni di emergenza 

Giovanni De Luna Busiarda 12 2 2017
Post verità non è solo un modo per attribuire un certo spessore culturale alle bufale che circolano nel web. Il termine - parola dell’anno 2016 secondo l’Oxford Dictionary - segnala piuttosto una drastica rottura nel nostro modo di percepire la realtà. Un esempio di post verità molto citato è, relativamente alla Brexit, la falsa notizia che la permanenza nell’Europa costava agli inglesi 350 milioni di sterline alla settimana. Ma di simili falsi è ormai pieno lo spazio della comunicazione politica e tutti influenzano i comportamenti collettivi, determinano le scelte politiche ed esistenziali di una folla di elettori e consumatori, incidono profondamente nei meccanismi di funzionamento delle democrazie. 
Realtà e desideri
Di fronte a questa invasione, si ha la tentazione di invocare una rassicurante continuità, pensando che in fondo i falsi propagandistici ci sono sempre stati e sempre hanno avuto come obiettivo quello di screditare il proprio avversario politico. Sarebbe cambiato solo lo strumento usato per diffonderli, con la rete che si è sostituita alla radio, ai giornali, alla televisione ecc. 
Però le cose stanno diversamente. Nel Novecento, un aspetto che ha sempre destato l’attenzione degli storici è stato quello delle «voci», le dicerie che si propagano di bocca in bocca, di quartiere in quartiere, proponendo una rappresentazione della realtà distorta dai desideri e dalle speranze delle singole comunità. Così, nell’Italia della seconda guerra mondiale, una falsa notizia («È morto Hitler» o, al contrario, «È morto Churchill»; «Domani c’è una distribuzione di pane bianco»; «Amazzoni bionde guidano gli Spitfire, gli aerei a due code») si diffondeva per canali informali, aggirando le comunicazioni ufficiali, e segnalava la paura, la fame, la dimensione mitologica assunta da un’esistenza collettiva precipitata nella guerra totale.
C’era un nesso strettissimo tra il dilagare di quelle voci e le condizioni belliche. Ogni guerra, come ci ha ricordato Füssel, produce modernità nella sfera dell’economia e stupidità in quella della cultura, provocando sempre un marcato impoverimento del dibattito culturale, livellandone verso il basso i contenuti con la semplificazione rozza dell’approccio a popoli e culture diverse, il trionfo dei luoghi comuni. 
Al dilagare degli stereotipi più ovvi si accompagna un complessivo impoverimento del linguaggio. Al fronte i soldati comunicano in un gergo di poche centinaia di vocaboli, caratterizzati esclusivamente da allusioni e doppi sensi osceni. Si scrivono, in guerra, molte menzogne; ma gli effetti più diseducativi sono quelli legati a un lessico ambiguo e ammiccante, che non lascia trapelare mai una verità o una bugia completa. In questo contesto si inserisce un bisogno di comunicare spontaneo, dal basso, che si avvale di strumenti totalmente irrazionali, alimentando «voci» nelle quali non c’è solo una stupida credulità, ma anche le speranze e le paure alimentate dalla passività e dalla subalternità di quanti sono espropriati della possibilità di controllare le proprie fonti di informazione, di sapere, di conoscere razionalmente gli avvenimenti. 
In tutto il Novecento si nota quindi un rapporto strettissimo tra l’incremento della povertà culturale a cui attingono le «voci» e le drammatiche emergenze della guerra. Oggi - ed è questa la rottura più profonda - lo stesso meccanismo che le produceva in passato, trasportato nel web, si ripropone invece nella normalità della nostra vita quotidiana. 
La verità accantonata
La rete, inoltre, incide non solo sulla dimensione quantitativa delle post verità, ma ne altera anche la qualità, modificando pesantemente i loro scopi. Le «voci» in guerra erano filtrate e controllate dai bisogni della comunità di appartenenza. I falsi della Guerra fredda erano espliciti e dichiarati: chi ascoltava Radio Praga era convinto che la radio italiana mentisse, e viceversa. 
Oggi questi filtri sono scomparsi; le post verità arrivano direttamente nelle camere da letto degli utenti del web senza che nessuno possa verificarne l’intenzionalità, possa attribuirle a un contesto ideologico definito, possa riconoscerne gli autori. Nella campagna elettorale di Trump è stato dato grande rilievo a un presunto gradimento espresso da papa Francesco nei suoi confronti; la notizia circolava nel web come ripresa dall’autorevole Denver Guardian, un giornale in realtà mai esistito. A questo punto non si tratta più di mascherare la verità ma semplicemente di ignorarla. Accantonandola come un ingombrante relitto della comunicazione politica del passato. 
Anche la democrazia ne esce male. Per tutto il Novecento sono stati soprattutto i regimi totalitari ad alterare in modo parossistico il rapporto tra realtà e rappresentazione della realtà, facendo della propaganda il loro principale strumento di governo. Oggi questa dimensione caratterizza anche i sistemi politici democratici. Tutto questo è abbastanza inquietante. Meglio comunque delle prospettive indicate da quelli che sostengono una sostanziale continuità con il passato delle post verità; se così fosse, il loro dilagare ci avvertirebbe della possibilità, cioè, di essere entrati, senza accorgercene, nelle stesse emergenze culturali dalle quali, in passato, sono state caratterizzate le guerre e le dittature. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

1 commento:

Alessandro Tosolini ha detto...

Non sanno più cosa inventarsi questi giornalai di corte per spalare letame contro tutti quelli che gli si oppongono. Quella della post-verità e degli hacker russi è veramente la balla definitiva.