lunedì 13 febbraio 2017
Il nemico principale. "Ha rappresentato una speranza": aiutiamo il sen. prof. Mario Tronti
Da Scalfari a Pisapia passando per D'Alema e Vendola, questo è il nemico principale.
La fenomenologia becera e particolaristica dei movimenti populisti
consentirà a questi imbroglioni - che del populismo sono stati i
progenitori - di utilizzare una retorica ancora più ricattatoria di
quella dei tempi di Berlusconi e di chiamare a raccolta i difensori
della democrazia contro il "fascismo alle porte", evocando per la
centesima volta lo spettro strumentale e fuori luogo di Weimar.
Autonomia assoluta, sia dai populismi reattivi che dalla Sinistra imperiale-postmoderna [SGA].
Dio, Rep
“Il nostro vero dramma è che non vediamo più gli arrabbiati del bus 776”
L’INTERVISTA/ MARIO TRONTI, SENATORE PD, AUTORE DEL DOCUMENTO DEI 41
CONCETTO VECCHIO Rep 12 2 2017
«Ogni mattina prendo il 776 che passa sotto gli otto ponti del Laurentino 38. È un autobus rumoroso, si conoscono più o meno tutti, vi prevale il malumore di un’umanità disperata. Questo popolo di periferia il Pd l’ha perso: votavano An, ora M5S, però è da qui che la sinistra deve ripartire se vuole avere ancora un futuro». Il teorico dell’operaismo Mario Tronti, 85 anni, senatore eletto nel Pd, vive in un caseggiato popolare di quattordici piani. «Qui si capisce tutto» dice. Guardava con simpatia a Renzi, ora ha fatto scalpore il suo documento, sottoscritto da altri 40 senatori democratici, con cui chiede di confermare «pieno sostegno a Gentiloni fino al 2018».
Di cosa parla la gente sul 776?
«Di lavoro, di redditi perduti, di sicurezza. Quest’ultimo è un grande tema sul quale la sinistra ha mantenuto un approccio ideologico: invocare protezione invece non è un argomento di destra».
Perché la sinistra ha abbandonato questi posti?
«Perché si è interessata alla politica dei diritti, trascurando i bisogni. Va bene la politica dell’Auditorium, e quella del tappeto rosso al Festival del cinema, ma coniugandole con le cose che contano davvero».
Non nasce prima del Pd questo distacco?
«Sì, ma mi chiedo: un partito di sinistra che non guarda alla vita quotidiana delle persone nel loro difficile vivere, che ci sta ancora a fare?».
Non è quel che la minoranza interna rimprovera a Renzi?
«Ma nemmeno loro parlano a quei bisogni. Vedo che tiene banco la scissione. Non me ne faccio niente di un partito del 10 per cento. I deboli hanno bisogno di essere difesi da una forza grande, che conti, un partito a vocazione maggioritaria, popolare, unitario».
È pentito di avere sostenuto Renzi?
«Lei tocca un punto dolente. Ha rappresentato una speranza. Aveva l’energia, e anche l’ambizione, per cambiare le cose, alla fine è mancato il progetto strategico. Non c’è stato un vero cambio di cultura. Oggi il Pd non si capisce cos’è».
Renzi può esserne ancora il leader?
«Non lo so. Vedo che Renzi insegue il M5S, non lo capisco: non bisogna combattere i politici, ma cambiare politica».
Per questo ha scritto quel documento?
«Sì, per avviare un dibattito sulle cose che contano davvero. Nel Pci se alle elezioni perdevi il 2 per cento c’erano assemblee collettive fino allo sfinimento, qui dopo il 4 dicembre non è accaduto nulla. Anzi, sento gli stessi discorsi di prima. Com’è possibile?».
Il ministro Boschi le presentò il libro. Rivoterebbe Sì al referendum?
«Sì, è stato giusto. Non vorrei parlare delle persone, tuttavia i giovani dirigenti devono crescere, maturare. Forse c’è stata troppa fretta. Essere giovani è una grande risorsa, ma è anche un limite per chi fa politica, che è un agire carico di esperienza ».
Lei votò anche il Jobs Act.
Non è una contraddizione?
«L’ho votato con difficoltà, per disciplina di gruppo, ben sapendo che non basta una legge per far ripartire l’occupazione ».
Perché è contrario al voto a giugno?
«Perché con questa legge proporzionale potrebbero verificarsi soltanto due cose: o nessun governo, o uno fatto di forze il cui unico collante è quello di spingere il Pd all’opposizione ».
La sinistra dovrebbe allearsi con i moderati?
«Ma i moderati non ci sono più, sostituiti dagli arrabbiati: il centro ormai è un non-luogo».
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Pd, Renzi pronto a dimettersi Scissione, si guarda a Orlando
Domani la Direzione. La minoranza: niente accelerazione o andiamo via
Alessandro Barbera Francesca Schianchi Busiarda 12 2 2017
«Io chiedo il congresso, e loro: diventerebbe una rissa. Propongo la conferenza programmatica, e la minoranza: devi rendere contendibile il partito. Va bene, facciamo le primarie; risposta: no alla gazebata. Parlo di congresso in autunno e mi dicono: ti devi dimettere subito. Se mi dimetto subito, ora cosa proporranno?». Alla vigilia della Direzione-fine del mondo del Pd, domani pomeriggio, il segretario Matteo Renzi ragiona sul da farsi. Ne ha discusso parecchio in questi giorni, ed è sempre più orientato a dimettersi da segretario per andare verso il congresso anticipato. «E vediamo così la minoranza cos’altro mi chiede». Una conta interna in tempi veloci, con la speranza sempre viva di andare alle urne al più presto: «Votare a giugno resta il nostro obiettivo», conferma il capogruppo alla Camera Ettore Rosato. E se i tempi per l’inizio dell’estate sono stretti, cresce anche l’ipotesi dell’autunno.
«Io non ci sto a farmi cuocere: tanto è chiaro che nessuno vuole trovare l’accordo sulla legge elettorale. E se accelero i tempi del congresso, trovo la minoranza impreparata, divisa tra vari candidati», ha spiegato Renzi a un esponente della sua maggioranza. Per questo, le dimissioni per correre alle primarie diventano probabili: a quel punto, domani il presidente Orfini chiuderà la discussione dando il via al percorso verso il congresso, con la convocazione dell’Assemblea nazionale forse già sabato 18. Un’ipotesi che allarma la minoranza, tanto da evocare nuovamente l’opzione B, la scissione: «Se non si anteponesse la voglia di rivincita al bene del Paese, adesso dovremmo fare la legge elettorale, andare a congresso in ottobre e votare a scadenza naturale», predica il bersaniano Miguel Gotor, «se Renzi invece domani insistesse per il voto a giugno, allora sarebbe un irresponsabile e la scissione diventerebbe possibile».
Un’eventualità che non ha mai preoccupato il segretario, finché a evocarla è stato Massimo D’Alema. Ma negli ultimi giorni, i suoi fedelissimi gli hanno riferito di segnali in arrivo anche da qualcuno nella maggioranza: in particolare dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Da lui hanno colto sintomi di insofferenza, e soprattutto la sensazione che, se una scissione dovesse prodursi e staccare gran parte degli ex diessini dal Pd, il ministro spezzino, per il suo percorso, difficilmente potrebbe decidere di rimanere in un Partito democratico completamente renziano.
«La minoranza vorrebbe fare il congresso dopo le amministrative perché pensano che andranno male e possono così servire a logorare Renzi», sussurrano nell’entourage del segretario. Che è invece molto attento a risollevare la sua immagine dopo la batosta del referendum. Per questo si è infuriato con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, sulla vicenda della manovra aggiuntiva richiesta dall’Europa da 3,4 miliardi, di cui l’ex premier non vuole nemmeno sentire parlare: «Non possiamo passare per quelli che alzano le tasse», gli ha ripetuto. D’altra parte, racconta chi conosce bene il ministro che, per lui, l’aumento di Iva e accise non sia un tabù, a differenza di Renzi e i suoi che ne temono l’effetto politico. «Comunque sia, qualunque operazione si volesse fare per andare incontro all’Europa, bisognerebbe farla dopo il Def di aprile», ha fatto sapere il segretario. Anche perché è convinto che, quando dopodomani uscirà il consuntivo Istat del 2016, il dato del Pil sarà più alto del previsto: «E’ realistico raggiungere l’1 per cento», considera il responsabile economico del partito, Filippo Taddei. Fra gli uomini più vicini al segretario c’è chi è convinto che le misurazioni dell’Istat non siano più in grado di fotografare in tempi rapidi l’andamento dell’economia: basti dire che solo a settembre dello scorso anno il Pil del 2014 venne rialzato dello 0,4 per cento. Dalle parti di Renzi, la convinzione è che pure quest’anno quel dato possa essere sottostimato: se così fosse, sarebbe un motivo in più per opporsi alla manovra aggiuntiva.
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L’ultima scommessa di Matteo
Federico Geremicca Busiarda 12 2 2017
Giocare d’anticipo, evitare di restare per mesi sulla graticola e dunque lasciare - già domani in Direzione - anche la carica di segretario Pd, per tenere il Congresso subito, battere la minoranza interna e avviarsi verso elezioni a giugno. Da giorni, ormai, è questo il progetto attribuito a Matteo Renzi.
E viene da chiedersi se tanto il segretario, quanto i suoi oppositori, abbiano riflettuto a fondo sullo scenario che rischiano di determinare.
Infatti, se le parole pronunciate in queste settimane dall’uno e dagli altri hanno un senso, il quadro che potrebbe presentarsi al Paese tra qualche giorno non è difficile da tratteggiare. In estrema sintesi: Matteo Renzi si dimette dalla segreteria, rendendo inevitabile un Congresso subito; la minoranza interna contesta la scelta, definendo quel Congresso una farsa e un plebiscito; i candidati-segretari (da Speranza a Rossi, fino a Emiliano) si ritirano dalla corsa; la scissione «da sinistra» diventa inesorabilmente realtà; il governo Gentiloni ne viene travolto e, dopo aver rabberciato una qualche legge elettorale, si va a elezioni con un Pd diventato «centrista» e una nuova forza di sinistra concorrenzialmente in campo.
Fermiamoci qui, perché ce ne è già abbastanza per chiedere all’uno e agli altri (ma stavolta soprattutto all’uno, cioè a Renzi) un supplemento di riflessione. C’è modo e modo, infatti, di consegnare il Paese a forze e movimenti che - soprattutto dopo la «prova generale» di Roma - non paiono ancora in grado di esercitare una efficace azione di governo: quello che sembra abbia deciso di sciegliere il Pd, però, è certamente il più incomprensibile e inatteso di tutti.
Matteo Renzi, infatti, non può non sapere (D’Alema lo ha detto in chiaro, da un palco) che l’accoppiata congresso subito ed elezioni a giugno porterebbe inevitabilmente alla spaccatura: perché insiste, allora? L’idea di partenza era rinnovare e rinvigorire il Pd, non «rottamarlo». E poi: considera davvero così mal messo il suo partito da preferirgli una nuova forza che faccia da calamita per ruderi centristi disseminati qua è là? Si fa fatica a crederlo: eppure sembra questo l’approdo inevitabile, se domani la Direzione dovesse davvero seguire il canovaccio fin qui anticipato.
Altre vie - e non per il bene del Pd, ma per gli equilibri e la tenuta del sistema - sono ancora possibili, naturalmente: basta ricercarle. Renzi può rilegittimare il suo ruolo - per esempio - attraverso una discussione dura e vera nel partito, piuttosto che con una prova di forza che rischia di trasformarsi nella nascita di due modeste debolezze; può rimettersi a tessere la tela di un accordo su una buona legge elettorale, recuperando una posizione centrale; e può riprendere la sua battaglia contro «sovranisti» e pentastellati - ancora in ascesa - magari con toni e argomenti più consoni al partito che è stato chiamato a guidare. Può provare a ritrovare centralità, insomma, attraverso la politica, piuttosto che ricorrendo ad una conta che rischia di esser distruttiva.
Tutto sta, naturalmente, ad averne voglia e capacità. Non c’è chi non riconosca a Renzi energia e idee innovative utili a rinnovare il bagaglio culturale della sinistra. Che la prima e le seconde debbano oggi servire a dividere in due il partito di cui è stato acclamato segretario con larga maggioranza, è inspiegabile. L’impressione è che una tale svolta, insomma, non farebbe bene a nessuno. E probabilmente, prima di tutto a lui.
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Minoranze ancora in trincea “Le assise veloci sono un golpe così scatterebbe il liberi tutti”
Bersani vuole che prima sia chiara la legge elettorale E Boccia quantifica: servono 5-6 mesi, non bastano certo 5 settimane
CARMELO LOPAPA Rep 12 2 2017
L’ultimo “warning” la sinista interna pd lo lancerà oggi da Firenze. Alla vigilia della resa dei conti in direzione, i tre candidati alternativi alla leadership - i governatori Michele Emiliano e Enrico Rossi, l’ex capogruppo Roberto Speranza - metteranno in guardia il segretario Renzi. Potrà pure presentarsi dimissionario domani, ma se proporrà che l’assemblea dem convochi un congresso a breve, a brevissimo, tra aprile e maggio, «solo per strappare la conferma della sua leadership nelle solite “gazebarie” e andare al voto a giugno», allora sarà davvero finita qui. No insomma a quello che Emiliano ieri sera in un’iniziativa pd a Nocera Inferiore ha battezzato (attingendo al lessico da ex magistrato) il «congresso con rito abbreviato».
Non sarà minaccia di scissione, ma le somiglia parecchio. «Renzi si assumerà la responsabilità di aver reso la situazione non più recuperabile, avrà snaturato il Pd» per usare le parole dell’ex capogruppo Speranza. All’iniziativa promossa proprio nella città del segretario dal deputato milanese Francesco Laforgia (“Può nascere un fiore. Di nuovo, la sinistra”) hanno risposto tutti gli “antagonisti” interni. Perluigi Bersani non ci sarà, per evitare sovraesposizioni, ma le sue istanze saranno ben rappresentate anche su quel palco. Tre, in particolare. Non bastano le dimissioni, è la linea dell’ex segretario: occorrerà chiarezza intanto sulla legge elettorale, perché prima di fare un congresso in cui decidere se andare da soli o con alleati e quali, sarà fondamentale capire con quale legge si voterà. Secondo: tempi del congresso non accelerati, serve un «congresso vero », che vuol dire dare ai circoli il tempo di esprimersi, poi scrivere le regole congressuali e indire le primarie solo dopo le assise. Terzo: pieno sostegno al governo Gentiloni. Lo spauracchio più temuto resta, neanche a dirlo, il voto anticipato, prima dell’estate. Se le tre condizioni non saranno rispettate, «se Renzi vuole precipitare il Pd in un congresso lampo - spiega Laforgia da Firenze se vuole la conta in un paio di mesi, allora il rischio di strappo è serio». Poi, a quel punto, ogni scenario sarà possibile. Confluire nella nuova “Cosa” di Giuliano Pisapia? I big della sinsitra non ci pensano proprio. Convinti che nell’opzione da “fine mondo” saranno loro a dar vita a qualcosa di nuovo con ambizioni a due cifre e se Pisapia vorrà dialogare sarà il ben accetto. Questo il clima. «Abbiamo bisogno di discutere, di confrontarci, vogliamo un congresso vero e i congressi nel Pd durano dai 5 ai 6 mesi, non 5 settimane - intima Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio alla Camera - Se si vorrà fare un finto congresso, se decide tutto lui, chiederemo un referendum interno, abbiamo già le firme». Resa dei conti, appunto. Che rischia di far implodere il partito, è il timore del governatore toscano Rossi, in corsa anche lui per la segreteria, che dice no alla scissione, convinto che «le alleanze di tutti contro Renzi non convincono affatto: se si continua con diatribe sulla data delle elezioni o del congresso, rischiamo ». Di perdere le prime, soprattutto. Gianni Cuperlo, che si tiene un passo indietro rispetto ai belligeranti, invita almeno a «fissare regole civili» e abbandonare «i signori delle tessere»: «Con meno di questo non ci si rialza, al massimo ci si conta».
Insomma, congresso nel giro di pochi mesi (col carico di elezioni a giugno) per la sinistra interna equivarrebbe a un mezzo “golpe”, a una dichiarazione di guerra, preludio al “liberi tutti”. Significherebbe, dice senza giri di parole invece un “belligerante” come il senatore Miguel Gotor, «che Renzi antepone gli interessi di una fazione, la sua, a quelli del partito e dell’Italia e noi non potremmo seguirlo: non ci serve l’ennesimo referendum plebiscitario su di lui, gli elettori ci punirebbero come il 4 dicembre». La pistola (carica) è sul tavolo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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