giovedì 9 febbraio 2017

Tzvetan Todorov

E' straordinario notare come quando si tratta di denunciare il "totalitarismo", cioè di infamare il socialismo, Libero, La Stampa, Repubblica e il Corriere ritrovino improvvisamente la migliore sintonia [SGA].


Lo studioso è scomparso nella notte del 7 febbraio a Parigi. Aveva 78 anni Trascorse la giovinezza in una Bulgaria stalinista giudicata «scuola di nichilismo» 
di STEFANO MONTEFIORI, nostro corrispondente a Parigi Corriere

Bulgaro naturalizzato francese, era passato dalla critica letteraria alla storia delle idee e all’antropologia. Aveva rivendicato il valore dell’etica nell’universo concentrazionario
di ANTONIO CARIOTI







Il grande filosofo bulgaro naturalizzato francese, considerato uno dei massimi intellettuali contemporanei, aveva 77 anni

Rep 7 2 2017



Con le sue riflessioni fra letteratura e filosofia Tzvetan Todorov ha affrontato i temi cruciali della storia contemporanea. Di origine bulgara, è morto stanotte a Parigi. Aveva 77 anni
Avvenire Alessandro Zaccuri martedì 7 febbraio 2017

Perché l’arte può salvare il mondo 

TZVETAN TODOROV Rep 8 2 2017
Tanto per cominciare, si può ammettere che un giudizio estetico, quello che valuta la bellezza di un’opera, debba essere disinteressato, ma con ciò non si descrive che una minima parte del processo di ricezione di tale opera. Si può poi osservare che, al momento della sua creazione, l’artista non deve curarsi dell’effetto che conseguirà e che in questo senso è anch’egli disinteressato. Tuttavia, questa maniera tutta negativa di descrivere la sua esperienza è chiaramente insufficiente a restituirne un’immagine fedele. Peraltro il disinteresse fa la sua comparsa anche in un altro momento del pensiero kantiano: l’azione umana, per essere morale, per servire il bene, deve essere disinteressata. L’”interesse” s’identifica in questo caso con l’egoismo, perciò l’azione disinteressata è quella che ha saputo superarlo. A sua volta l’artista creatore è incitato a sottrarsi al dominio del proprio interesse personale. Cosa può mettere al posto suo? L’amore del bello, rispondono i moderni, un amore modellato sul puro amore di Dio.
È però possibile formulare un’ipotesi diversa: la grande arte esige che, al posto dell’amore di sé, intervenga una certa forma di amore del mondo. Qui il “mondo” va inteso in tutta la sua ampiezza, ma nel caso della letteratura è chiaro che si tratta anzitutto del mondo umano.
Il “romantico tardivo” Rainer Maria Rilke ha trovato parole eloquenti per definire quest’obbligo di amare il mondo a cui deve soggiacere l’artista per poter creare la sua opera. Le scrive nell’autunno del 1907, nelle lettere indirizzate da Parigi alla moglie Clara, dove le spiega il suo modo di comprendere il lavoro creativo di Cézanne e Rodin, di Baudelaire e Flaubert. L’artista non è forzato a dipingere o descrivere il suo amore e il suo apprezzamento del mondo; tuttavia, è necessario che ami le cose per poterle capire e creare. Si produce allora una “consumazione dell’amore” nella creazione. Il vero artista ha saputo «sopprimere l’amore che nutriva per tutte le mele per concentrarlo sulla mela che dipingeva». Il vero artista non piega il mondo ai propri gusti, ma gli si sottomette: «Non è permesso al creatore di straniarsi da alcuna forma di esistenza». Per evocare questo “puro amore” dell’artista, rivolto non verso Dio o il bello ma verso il mondo, Rilke trova l’immagine più appropriata nel personaggio flaubertiano di san Giuliano Ospitaliere.
«Sdraiarsi accanto al lebbroso, condividere con lui il calore del proprio corpo, sino all’intimo calore delle notti d’amore: bisogna che questo sia accaduto un giorno o l’altro nella vita di un artista, come una vittoria su sé stesso che gli apre la via verso una nuova beatitudine». Ma se si ama in questo modo il mondo e gli esseri che lo abitano, si può ancora sostenere che quest’atto è totalmente estraneo all’idea del bene?
© 2017, Garzanti Traduzione di Doriana Comerlati
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Tzvetan Todorov, una vita nella tessitura del pensiero

Scompare all’età di 77 anni l’infaticabile intellettuale bulgaro. Dagli studi in filologia all’incontro di Roland Barthes, tagliente critico della letteratura attento alla storia delle idee
E. Igor Mineo Manifesto 8.2.2017, 21:00

Se è indubbio che con TzvetanTodorov se ne va una delle maggiori personalità intellettuali del XX secolo, è certo meno facile riassumere in poche battute che tipo di pensatore e di scrittore sia stato. Impossibile l’etichettatura, e non solo perché tutti i cavalli di razza difficilmente si lasciano imbrigliare in abiti preconfezionati. La sua biografia intellettuale è irriducibile a uno schema, o a una carriera, e appare evidentemente bipartita.
Da una parte, tra gli anni ’60 e ’80 del XX secolo, lo studioso delle forme letterarie, dello strutturalismo linguistico, l’erede inquieto del formalismo russo; dall’altro la strana, e fascinosa, figura del saggista-testimone che riflette sul male del Novecento, sulla catastrofe dei fascismi e dello stalinismo, dei campi e dei gulag, della violenza etnica e politica portata all’estremo.


QUESTA CONVERSIONE può essere situata facilmente alla fine degli anni ’80, guarda caso in corrispondenza della caduta del muro di Berlino e della fine dei sistema sovietico. È allora che – sembra di poter dire – Todorov consente a se stesso di alzare il velo su un passato recente che gli appartiene in pieno, quello del regime oppressivo dal quale era riuscito a sfuggire; lui che poco più che ventenne, all’inizio dei ’60, era emigrato dalla Bulgaria comunista e si era installato in una Parigi oltremodo scintillante, vero centro mondiale delle scena artistica e intellettuale.
Todorov è diventato così uno dei rappresentanti esemplari, e fra i più nobili, di un modo di pensare il Novecento «dall’interno» di un suo nucleo presunto, oscuro e per ciò stesso quasi insondabile (e dal quale appunto si era mantenuto a lungo lontano occupandosi di rarefatte geometrie poetiche), che egli, come molti altri prima di lui, fa coincidere con la pulsione totalitaria, a lungo latente nella società europea moderna e che poi, liberatasi da ogni impedimento, assume il suo volto più autentico nei regimi nazi-fascisti e in quello staliniano. È qui che appare il «secolo delle tenebre» come lui stesso ebbe a definirlo.


IL CONFRONTO FATICOSO con una delle categorie più tormentate, ambigue e controverse del dibattito politico e storiografico da molti decenni a questa parte dovette apparirgli ineludibile. Per non restare incagliato nelle sue aporie, di cui era consapevole, Todorov assunse però una prospettiva diversa da quella dei maggiori indagatori del totalitarismo come sistema (Hannah Arendt in primis). Egli provò soprattutto a interrogare criticamente il punto di vista di coloro che avevano vissuto in pieno la violenza totalitaria, facendosene testimoni: figure assai diverse, da Margaret Buber-Neumann a David Rousset, da Primo Levi a Vasilij Grossman. L’interrogazione sulla memoria diveniva centrale, ma sulla scia di Ricoeur, Todorov ha mostrato più volte come sapersi districare nei labirinti dei resoconti fondati sul confronto con il passato privato, come distinguere l’eticità del ricordo dai controsensi dei suoi usi, come rivendicare persino il diritto all’oblio.
Nello stesso modo, è vero che la contrapposizione netta di totalitarismo e democrazia ha costituito in continuità lo schema fondamentale di tutte le sue ricognizioni critiche sul Novecento. Ma sbaglierebbe chi vedesse in questa coerenza la fedeltà a un banale modulo interpretativo. L’euforia, se ci fu, «post-89» si volse presto in una dolorosa presa di coscienza. Il totalitarismo europeo – Todorov ha spesso insistito su questo sulla scia di analisi chiaramente francofortesi – ha solide radici «moderne» illuministiche e razionalitiche, ma la dicotomia gli apparve presto un’illusione.
RIFLETTENDO SULLE GUERRE nella ex-Jugoslavia, e in particolare sulla vicenda dell’intervento della Nato in Kosovo, egli ebbe a scrivere «Il totalitarismo può apparirci, a giusto titolo, l’impero del male; ma da ciò non consegue in alcun modo che la democrazia incarni, sempre e dappertutto, il regno del bene».
Un segno, fra i tanti, della lucidità di uno sguardo che si è mantenuto vigile fino all’ultimo.






SCHEDA. Dai formalisti russi al «male estremo» del Novecento

Nato nel 1939 a Sofia, in Bulgaria, Tzvetan Todorov cominciò a interessarsi di teoria della letteratura nel suo paese, scontrandosi con gli imperativi ideologici. Solo quando arrivò nel 1963 a Parigi i suoi interessi di studioso voltarono pagina definitivamente. In realtà, vi giunse già attrezzato criticamente, sulla scia dei formalisti russi («Conobbi Roman Jacobson in Bulgaria, ne ricevetti una grande impressione. Fui attratto dal suo rigore scientifico, che si combinava felicemente con la passione per la poesia e per l’arte»). A sua cura, presso Einaudi, nel 1965, uscì il libro I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico), mentre fra i numi tutelari della sua ricerca può iscriversi anche Michail Bachtin (al quale dedicò una monografia nel 1981, in Italia tradotta nel 1990): i suoi studi gli indicano la strada verso quella «critica dialogica» che implica nella scrittura un atto di comunicazione. Todorov scelse di perseguire una più libera nozione del testo intenso come un «incontro» polifonico tra diverse voci e autori.
Una direzione questa che lo indusse ad accostarsi al problema dell’«altro» e dei rapporti tra individui e culture (La conquista dell’America, Einaudi, 1984), allargando l’orizzonte verso la storia delle idee (Noi e gli altri, Einaudi, 1991). Passò poi dalla socialità come condizione umana alle ideologie dominanti, indagando quella «banalità del male» presente in istituzioni totali, come i gulag o i campi di sterminio nazisti (Di fronte all’estremo, Garzanti, 1992), non trascurando i cambiamenti fatali dei destini individuali che si producono durante i conflitti (Una tragedia vissuta. Scene di guerra civile, Garzanti, 1995).
Fra le ultime pubblicazioni, un saggio sui totalitarismi, Memoria del male, tentazione del bene (2000), Il nuovo disordine mondiale (2003), La pittura dei lumi. Da Watteau a Goya (2014, in cui l’arte resta strettamente connessa al pensiero che circola nella sua stessa epoca) e, nel 2016, Resistenti, Storie di donne e uomini che hanno lottato per la giustizia.





Addio al filosofo Tzvetan Todorov Celebrò l’uomo contro i totalitarismi 


Nato a Sofia, allievo di Barthes, difese i valori dell’Illuminismo dagli oscurantismi e indagò l’universo concentrazionale 

Massimiliano Panarari Busiarda 8 2 2017
Uno studioso versato negli attraversamenti disciplinari e predisposto alla contaminazione. Un profondo «umanista contemporaneo» (come è stato definito in Francia) e un indomito intellettuale pubblico, europeista convinto. Ecco l’identikit del teorico della letteratura, storico delle idee («etichetta» che lui stesso preferiva a quella di filosofo) e saggista Tzvetan Todorov, nato a Sofia nel marzo del 1939 e scomparso ieri a Parigi all’età di 77 anni. Una figura, insignita di molti premi e riconoscimenti per le scienze sociali, votata alla rottura degli steccati tanto nel sapere quanto nel modo di pensare le società e l’umanità.
Todorov cominciò a muovere i suoi passi sulla scena intellettuale internazionale, dopo la laurea in filologia in patria, con il trasferimento nel ’63 per il dottorato a Parigi, dove fu allievo del celebre semiologo Roland Barthes, e approdò al Cnrs (il Centre national de la recherche scientifique), intraprendendo una brillante carriera che lo porterà a diventare direttore del Centre de recherches sur les arts et le langage presso l’Ecole des hautes études en sciences sociales. Fuoriuscito da uno dei Paesi più «osservanti» e liberticidi del blocco del socialismo reale, di cui descrisse in varie occasioni la perversa capacità di annullamento dei valori (e del valore) dell’individuo, Todorov svolse un ruolo essenziale nell’importazione nell’Europa occidentale della metodologia di analisi dei testi letterari sviluppata dalla scuola del formalismo russo degli Anni Venti (di cui curò una famosa antologia, pubblicata in Italia nel ’68 da Einaudi). Una proposta culturale che incontrò gli immediati favori dello strutturalismo transalpino, verso il quale si orientò da subito il lavoro di Todorov, con la sua ricerca di una scienza della letteratura (la «poetica») in grado di formalizzare le norme astratte e le leggi fondamentali della narrazione. Una visione, appunto, tipicamente strutturalista, veicolata anche attraverso la rivista di teoria letteraria Poétique da lui fondata, nel 1970, insieme a Gérard Genette, ma che saprà rendere via via meno ortodossa nel corso del decennio; in seguito, l’entrata in crisi della critica di impronta semiologica lo indurrà a spostare l’asse della ricerca verso il simbolismo linguistico e una concezione del testo in cui la centralità della «struttura» (e del «sistema») lasciava progressivamente il passo a una sua visione più «dialogica», fondata sulla consapevolezza della rilevanza della molteplicità delle influenze culturali e del confronto tra gli autori (documentata già da un libro come l’Introduzione alla letteratura fantastica, Garzanti).
Il congedo dall’approccio strutturalista lo conduce, negli Anni Ottanta, al nuovo periodo del lavoro sulla storia delle idee, costellato di saggi quali La conquista dell’America (uscito in Italia nel 1984 sempre da Einaudi, e dedicato all’annullamento delle culture indigene amerindie nel nome della colonizzazione) e Noi e gli altri sulle riflessioni, nel pensiero francese tra Settecento e Novecento, intorno al tema della diversità umana. Un’analisi incrociata e comparata, come d’abitudine, che ha fornito il sostrato per la sua nozione, basata su un’idea di moderazione e sulla razionalità, di un «umanesimo ben temperato». 
Queste posizioni lo porteranno, negli Anni Duemila, a individuare ne Lo spirito dell’Illuminismo (Garzanti, 2007) il lascito migliore della storia europea e il solo antidoto al dilagare dell’irrazionalismo e del revanscismo neoidentitario e xenofobo. L’intellettuale franco-bulgaro era entrato da qualche tempo nella sua fase di pensatore morale ed etico, che si era cimentato, nel volume Di fronte all’estremo (Garzanti, 1992), con l’abisso concentrazionario e il progetto di disumanizzazione attuato dai totalitarismi (che non è archiviato una volta per tutte, metteva in guardia, perché l’orrore rimane sempre in agguato sotto altre spoglie).
Il Todorov degli ultimi due decenni è stato il fiero avversario della dottrina dello scontro di civiltà di Samuel Huntington, la firma di Libération che interveniva in maniera «militante» sui temi dell’attualità, e la voce coraggiosa che si faceva puntualmente sentire in questa nostra epoca di pruriti neototalitari rossobruni e di populismi, avendo – lui che disvelò la protervia e il «nichilismo» del comunismo della cortina di ferro – i titoli esemplari per farlo. 
Todorov è stato anche lo studioso multidisciplinare di Benjamin Constant e di Rembrandt, lo storico delle idee che ha rivendicato fortemente la tesi per cui il pensiero non è appannaggio esclusivo dei filosofi, ma viene espresso dagli artisti come dai teorici politici. E da tutti coloro che, di fronte alle minacce alla libertà e alla dignità degli individui, sono capaci di testimoniare e resistere, come i grandi Resistenti (da Pasternak a Luther King ed Etty Hillesum) del suo ultimo libro. 
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Todorov  La voce dell’Europa contro la guerra di civiltà
GIANCARLO BOSETTI Rep 8 2 2017
La “diversità umana” è il tema che ha attraversato tutta la vita e la vastissima produzione di Tzvetan Todorov, morto ieri a 77 anni. Era uno scrittore che univa la grazia e la modestia ad una vastissima cultura, che amava trasmettere al pubblico e non soltanto coltivare tra accademici. “Diversità” e dunque dialogo
e permanente riproporsi delle domande sugli “altri” e sul “noi”. Chi sono i barbari? Riecco l’antico quesito di Montaigne. Fuggito dalla Bulgaria comunista e approdato a Parigi, Todorov vi si afferma subito nella critica letteraria, nella filosofia e antropologia, negli studi sul linguaggio; lavora con Roland Barthes, si avvicina allo strutturalismo ma, rispetto a questa corrente, è attratto dalle grandi domande morali e dalla varietà delle risposte che vi danno le diverse culture umane. Dunque sposta il centro del suo interesse su una forma di “umanismo” che gli piaceva definire “ben temperato”. Che cosa significhi si capirà presto quando si manifesta quella che è forse la sua vocazione principale, quella di storico delle idee. È in questa chiave che affronta il tema che lo fa conoscere a un pubblico più vasto La conquista dell’America. Il problema dell’altro (Einaudi). L’opera non è una ricerca storiografica nuova, ma una indagine sulle idee dei conquistatori, un’analisi delle loro motivazioni, sulla mente del “noi” e sulle idee che avevano degli “altri”. Protagonisti del libro sono questi “noi”, i molti e diversi “noi”, ciascuno con i suoi connotati culturali, ciascuno imbarcato in una diversa forma di “conquista”. Per Colombo quella che è in gioco è la prospettiva di una “vittoria universale del Cristianesimo”. Il gigantesco paradosso di Colombo non è solo quello geografico di “buscar el levante por el ponente”, ma quello filosofico di un monista che spalanca le porte al pluralismo, di una mentalità incorreggibilmente centrata sulla sua cultura che aprirà lo sguardo europeo su altri mondi.
L’”universalismo” mostra qui una incrinatura coloniale e di dominio su cui Todorov tornerà ripetutamente, individuando una severa aporia del pensiero illuministico, su cui aveva già scritto pagine celebri Isaiah Berlin. Ma altri “noi” entrano nel gioco della Conquista: Hernán Cortés, che è il capo militare, studia gli indi meglio non solo di Colombo, ma persino di Bartolomé de Las Casas (che ne diventerà il difensore) e lo fa per usare la conoscenza in funzione strategica, per dominarli, che è il suo obiettivo. Altri come Bernardino de Sahagún approfondiscono lo studio dei nativi, dei loro costumi e della loro religione, con un atteggiamento analitico, ma con l’obiettivo esplicito di estirpare l’idolatria. Altri ancora come Cabeza de Vaca, vivono avventurosamente dall’interno entrambe le culture, la propria e quell’altra, trovandosi in un vero sofferto conflitto con se stessi quando si viene alle armi. Infine Las Casas, colui che prende le parti dei nativi, prova per la loro sorte pietà e amore, si impegna in una battaglia per modificare le leggi e imporre il rispetto dei loro diritti, perché riconosce loro una cultura con la stessa dignità di quella del “noi” europeo. Las Casas smaschera e denuncia gli aspetti ingiu- sti, atroci e sanguinari dell’occupazione spagnola e ne attacca la legittimità. Anche davanti agli aspetti più cruenti della civiltà dei nativi adotta uno sguardo che oggi possiamo definire antropologico o prospettivista.
La giustificazione dei sacrifici umani è un passaggio cruciale delle discussioni sul giudizio morale e sul relativismo, per Todorov, come era stato anche per Montaigne. Lo scrittore bulgaro si serve di questa chiave per smascherare l’etnocentrismo che è in agguato dietro ogni professione di universalismo. E si spinge fino a individuare un limite di “universalismo inconsapevole” che si annida nell’autore degli Essais, quando gli sfuggono valutazioni su “verità” e “ragione” che certo un autentico relativista contemporaneo non accetterebbe mai (in Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Einaudi). Ma certo, data la precoce epoca in cui il sindaco di Bordeaux ha affacciato i suoi pensieri, la seconda metà del ‘500, cinque secoli prima di Nietzsche e di Wittgenstein, Todorov gli riconosce il titolo di valido nemico dell’etnocentrismo.
Negli ultimi anni questa discussione – relativismo contro universalismo – è ritornata negli scritti di Todorov, con evidente riferimento polemico al dopo 11 settembre e ai teorici dei conflitti di civiltà. Riprendendo la riflessione sull’Illuminismo francese e sui rischi di un giudizio morale generalizzante che muova da una cultura verso un’altra, decretando “superiorità”, e immaginando che dietro a questo giudizio si affacci facilmente il dominio militare o economico, Todorov non intende però arrendersi all’opzione nichilista: il fatto che ciascun soggetto sia parte di una cultura e ne sia molto condizionato non impedisce di impegnarci ad attraversare mentalmente le frontiere e a liberarci da una possibile prigionia. A partire da ciascuna cultura è possibile aspirare a valori di civiltà nel nome dell’unità del genere umano, che è un fatto incontestabile tanto quanto la sua diversità culturale. Nelle discussioni roventi che hanno attraversato in questi anni l’Europa e gli Stati Uniti, Todorov si è schierato (in La paura dei barbari, Garzanti) con grande determinazione contro coloro che hanno invocato l’abbandono dell’Islam come soluzione politica individuando nelle pagine di Oriana Fallaci, di Robert Redeker, e di altri polemisti anti-islamici il vizio che ripropone il “noi” etnocentrico, con il suo ben noto orgoglio, contro la “barbarie degli altri”. È l’antico problema della specie umana, quello che con Michail Bachtin, l’autore russo a lui caro, Todorov chiamava il vizio del “monologismo”, grande nemico di una possibile pacifica “polifonia”. Ancora nel libro recente del 2012 – I nemici intimi della democrazia – Todorov invita a cercare il problema dentro di noi non fuori tra i «barbari».
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