Licalbe Steiner, il segno rosso della storia
La mostra. Un ricordo di due grafici storici la cui opera è esposta a Reggio Emilia fino al 16 aprile
Gianluca Pulsoni Manifesto Alias 11.2.2017, 0:01
Licalbe Steiner. Grafici partigiani: è questo il volume che ho per le mani e che sfoglio mentre aspetto di parlare con la curatrice, Anna Steiner. È a tutti gli effetti una pubblicazione ben curata – l’editore è Corraini – e funge da catalogo per la mostra Licalbe Steiner. Alle origini della grafica italiana. Ora, per cosa sta Licalbe? Per chi non lo sapesse è l’unione di due nomi, Lica Covo Steiner (1914-2008) più Albe Steiner (1913-1974), coppia – nella vita e nel lavoro – la cui opera è stata ed è fra le più significative della grafica italiana: per i risultati espressivi raggiunti (c’è tutta una letteratura critica di prestigio) e per come si è legata alla nostra storia, fin dal coinvolgimento nella Resistenza (documenti e testimonianze parlano chiaro).
Anna è una delle figlie della coppia, e da anni – dal 1974 al 2008 assieme alla mamma; sempre supportata dal marito Franco Origoni attraverso il loro studio, Origoni Steiner architetti associati – è attiva nel promuovere quanto creato dai genitori attraverso pubblicazioni e mostre, come in questo caso (le mostre, ad oggi, sono più di quaranta).
Con lei abbiamo colto l’occasione per toccare alcuni temi della storia dei Licalbe.
L’importanza di Lica
La prima cosa su cui viene da interrogarsi è la relazione tra Albe e Lica, soffermando l’attenzione sulla figura tendenzialmente meno ricordata delle due, la seconda. «Erano due persone con diverse storie d’origine ma, anche, autonome personalità. E se non ci fosse stato questo il loro incontro non avrebbe funzionato o non sarebbe stato quello che è stato. Ora, la storia non si fa coi se ma si guarda nel merito dei lavori, scavando un po’, questo si può evincere.» Così Anna, che prosegue: «Nel loro lavoro insieme si fatica a distinguere visivamente le due firme. Io sono riuscita ad isolare delle opere di Lica» – mentre parla mi mostra una natura morta a tempera, fra le poche sopravvissute, che la madre ha realizzato da giovanissima – «elementi che fanno capire che c’è una mano, una qualità, ma anche una storia, dal momento che Lica aveva studiato in una scuola d’arte a Besançon, dove aveva anche studiato musica. Fin da ragazzina era una persona determinata.» La conversazione va avanti, con Anna che ci tiene a precisare dell’importanza del carteggio di Lica con i suoi fratelli, per sottolineare la natura volitiva e lavorativa di lei.
Parliamo dello studio aperto nel 1939, L. A. S., e del fatto che è Lica a sostenere di più la mole e i ritmi di lavoro dello studio – fra le prime loro collaborazioni quella con Agfa per Note fotografiche – mentre Albe è da subito impegnato clandestinamente; parliamo delle qualità intellettuali di lei, della conoscenza delle lingue, delle corrispondenze con personalità come Marguerite Duras, della curatela della pagina dedicata alla donna su l’Unità; parliamo dell’intenzione di Albe, non realizzata per la morte prematura, di aggiungere il nome di Lica a lavori fatti insieme ma firmati solo da lui. E poi, come anticipato, di tutto il lavoro svolto da Lica per tramandare e omaggiare l’opera del marito dopo la sua scomparsa.
Con la passione di sempre.
Il dialogo con gli «altri» e la costante politica
Lica ed Albe si sposano nel 1938 e due anni dopo si iscrivono al PCI. L’impegno politico – in sé, in relazione alla loro opera tra editoria, industria, insegnamento – sarà sempre una costante. Nello stesso tempo però si è trattato di qualcosa che non ha impedito loro il dialogo con personalità che non erano parte di quell’ambito. Il rapporto con Bruno Munari e l’esperienza lavorativa di Urbino con Giancarlo De Carlo sono fra i casi più interessanti. «Con Munari l’incrocio è negli anni ’40. La prima fotografia che testimonia il rapporto è uno scatto di Albe a Munari con lo specchio, visibile nella mostra. La foto è del 1941. A quel tempo Munari lavorava ancora per il regime fascista. Io non sono riuscita mai a darmi spiegazione del suo lavoro per Mussolini, ad ogni modo quello che è certo è che tra Albe e Bruno c’era una grande stima reciproca sul piano professionale. L’antifascismo, invece, per Albe era radicato fin dall’omicidio dello zio Matteotti.»
Giancarlo De Carlo invece è stato un amico di Albe e Lica durante tutta la vita, fin dalla Resistenza, pur con origini del tutto diverse – Albe comunista, Giancarlo anarchico. Albe ha insegnato ad Urbino all’ISIA, ha lavorato al marchio e alla comunicazione del Collegio Universitario (C.U.U.), progettato da De Carlo, e alla «grafica di pubblica utilità» del Comune. Mio padre ha sempre amato l’architettura, e lì tutto era tutto improntato alla necessità di sviluppare una conservazione senza conservatorismo. La loro collaborazione nella realizzazione del libro sul piano regolatore di Urbino sintetizza l’importanza del servizio pubblico e della sperimentazione.»
Infine, si tocca il lavoro sul marchio Coop (1963). «Quello che veniva chiesto non era solo il marchio, ma l’immagine complessiva di una nuova grande avventura. Molta documentazione si ha nei carteggi di Albe e di Lica. Si trattava di un progetto utopistico che non poteva non attirarli, trattandosi appunto di dare una identità visiva alla cooperazione, non solo disegnando un logotipo (una cooperazione di caratteri), ma sviluppando una complessa comunicazione per il primo magazzino a libero servizio, con l’aiuto di un fotografo come Paolo Monti.»
La situazione dell’archivio
Se la storia personale e pubblica dei Licalbe viene raccontata in questa mostra, la loro memoria materiale – il loro archivio – è accessibile al Politecnico di Milano. Racconta Anna: «L’idea della donazione dell’intero archivio professionale per fini didattici c’era da sempre nei pensieri dei miei genitori. Da parte nostra (Lica, le figlie Luisa e Anna Steiner) si è fatta una regolare donazione – compresi i pezzi unici – al Politecnico di Milano. L’atto notarile è del luglio 2003, l’apertura al pubblico avvenne invece nel dicembre del 2004. C’è voluto del tempo per scegliere la collocazione dei materiali nella sede più appropriata dell’Ateneo e alla fine fu quella della Bovisa, anche per le vicine attività di Design. È stato tutto collocato in Via Durando 38/a, con un suo spazio autonomo (130 metri quadri circa), allestito con le immagini dei loro lavori alle pareti e afferito, per gli aspetti gestionali, al Dipartimento di Progettazione dell’Architettura, aperto a ricercatori e studenti, con orari stabiliti pubblicamente. Ora, per ragioni interne all’Ateneo, questo Dipartimento si è sciolto e dal 2013 l’Archivio è confluito negli Archivi Storici assieme ad altri fondi, all’interno dell’Area Servizi Bibliotecari di Ateneo. Per la consultazione si deve andare sul sito del Politecnico di Milano e seguire le indicazioni relative di queste due strutture. Purtroppo non vi è più attualmente uno spazio indipendente, ma in futuro dovrebbe a breve essere ripristinato.»
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A Reggio Emilia, alla Sinagoga in via dell’Aquila, da oggi 11 febbraio fino al 16 aprile sarà possibile visitare la mostra Licalbe Steiner. Alle origini della grafica italiana.
A cura di Anna Steiner, attraverso la progettazione espositiva dello studio Origoni-Steiner (in rete www.origonisteiner.it), la mostra propone un percorso di riscoperta e approfondimento dell’opera della coppia di grafici Albe Steiner e Lica Covo Steiner, proseguendo un discorso iniziato negli ultimi tempi attraverso le mostre affini di Milano e Firenze. In questo caso la scelta di Reggio Emilia si lega in modo molto forte alla storia dei Licalbe sotto il segno Coop, dato che qui è nato il movimento cooperativo italiano.
Oltre alla mostra, per saperne di più sui Licalbe consigliamo i due libri pubblicati dall’editore Corraini e focalizzati sul lavoro individuale di entrambi, ma anche il film documentario dal titolo Linea Rossa. Insieme per un disegno di cambiamento, di Franco Bocca Gelsi e Enzo Coluccio (2009).
Gli Steiner, grafici partigiani per la Rinascente Dai fogli militanti all'editoria (Feltrinelli) alle "figure" della produzione . La mostra su Lica e Albe Steiner, allestita nella ex-Sinagoga di Reggio Emilia, indica una ricerca formale radicata nei valori della Resistenza: tutta dedita cioè al bene comune Maurizio Giufrè Alias Manifesto REGGIO EMILIA 19.2.2017, 20:34
L’abbiamo rincorsa per un po’ la mostra dedicata a Lica e Albe Steiner, ma adesso che si trova nell’ottocentesca Sinagoga di Reggio Emilia (dal dopoguerra non più luogo di culto) ne siamo ricompensati perché per molte coincidenze questo, forse, è lo spazio ideale – in senso simbolico – per raccontarla. L’edificio disegnato alla metà del XIX secolo dal neoclassico Pietro Marchelli è uno spazio che ha sofferto la guerra: distrutto, poi ricostruito. Ha visto la comunità ebraica reggiana deportata e annientata. Una violenza, quella fascista, che conobbe di persona a undici anni Albe con l’uccisione di suo zio Giacomo Matteotti, e poi, nel 1943, di suo fratello Mino nel lager di Ebensee. Stessa sorte per il padre di Lica, nel 1944, poco prima dell’adesione con Albe alla lotta partigiana in Val d’Ossola. La grande aula di via dell’Aquila nel dopoguerra è stata, però, anche la sede di una tipografia e sembra ovvio da spiegare, ma tutti quei materiali di carta, che compongono l’universo steineriano, appaiono come destinati da sempre a stare lì dentro. I più fragili, come lettere, locandine, bozzetti e prove grafiche sono orizzontali in teche, gli altri su pannelli, i manifesti in grande formato sul pulpito dove è sospeso all’interno di una nicchia, sopra un piccolo candelabro a sette braccia, un pannello con sopra la poesia di Ludovico Belgiojoso scritta a Mauthausen: «…Ma ho potuto pensare una casa / in cima a uno scoglio sul mare / proporzionata come un tempio antico».
La mostra Licalbe Steiner (fino al 16 aprile), curata dalla figlia Anna, nel passaggio da Milano (al Museo del Novecento per il 70° della Liberazione) ha solo inspiegabilmente cambiato il sottotitolo: da «grafici partigiani» al meno comprensibile «alle origini della grafica italiana». È evidente, quindi, che a Reggio più che a Milano sembrano congiungersi, anche solo per empatia, diverse storie.
Queste attraversano gli anni del conflitto bellico e si addensano dall’immediato dopoguerra ai primi anni cinquanta per proseguire fino alla scomparsa di Albe nel 1974. Raccolte le storie e letti i suoi scritti pubblicati postumi (Il mestiere di grafico, Einaudi, 1978) è lì tutto a confermare la lucida e nettissima posizione «partigiana» di Albe. Anche la presenza casuale e discreta della poesia dell’architetto dei BBPR sembra rimarcare che il lavoro dei Licalbe non è stato mai disgiunto dall’impegno militante. Non è insomma un imprevisto che Steiner si ritrovi con Belgiojoso a collaborare negli anni settanta al memoriale della deportazione di Carpi: non si trattò solo di eseguire un buon progetto di museo-monumento. Paolo Fossati inquadrò bene il mestiere di Albe in particolare nel «difficile dibattito» di quegli anni, non riducibile a una semplice contesa: «lotte estetiche – ha scritto Dorfles – tra rigurgiti novecenteschi e preoccupazioni neorealistiche». Non è stato solo questo. Occorre, quindi, guardare ai documenti esposti seguendo ciò che raccomandò Calvino: «per Albe il piacere dell’invenzione formale e il senso globale della trasformazione della società non erano mai separati». La ragione affonda in un aspetto psicologico che lo scrittore centrò con esattezza e che concerne il carattere ottimista di Steiner. Il fatto, vale a dire, che conobbe il «male assoluto» che lo portava «ad allontanare tutto il negativo al di là di quella linea perché al di qua l’ottimismo restasse l’elemento decisivo».
La mostra è allestita secondo un ordine cronologico e un «parametro tipologico»: criterio già scelto da Lica quando con Mario Cresci decisero di classificare le foto-grafie di Albe (Foto-grafia, Laterza, 1990). Il percorso si apre con gli esordi negli anni trenta fino ai lavori nel decennio della rinascita democratica, con i brevi racconti per immagini dei momenti familiari o vissuti con gli amici, i loro viaggi e soggiorni – importantissimo quello in Messico, dove i Licalbe frequentarono il Taller de Graficá Popular (1945-’48) –, proseguendo con la lunga serie dei marchi, «imballaggi» e prodotti grafici di ogni genere progettati per l’industria (Pirelli, Aurora, Pierrel, Arflex, OMS, Olivetti), la grande distribuzione (La Rinascente, Coop), l’editoria libraria (Feltrinelli, Einaudi) e giornalistica (Milano Sera), le istituzioni culturali (Triennale), le associazioni politiche, il movimento sindacale e la stampa comunista.
Questo multiforme numero di prove ed esperienze hanno come fondamento un metodo rigoroso e una disciplina altrettanto severa, che considera la tecnica ogni volta strumentale e il risultato sempre l’espressione di un processo collettivo. Ancora fidanzati, il soggetto di fotografie e disegni per Lica e Albe sono essi stessi in gesti e occasioni vissute insieme, ma già con l’obiettivo di «fissare la memoria pensando al futuro», come troviamo titolato in catalogo (Corraini). In seguito verranno gli amici con i quali la coppia condividerà sentimenti e progetti: Vittorini, che chiamerà Albe a Il Politecnico (1945); Picasso, che per i suoi ottant’anni inviterà la coppia a Vallauris; e poi Albini, de Carlo e Mucchi, Calvino, Huber e Veronesi, che Albe riprende con la sua Rolleiflex in momenti di svago. Gli scatti sono dei più vari. Si va dai ritratti in pose tradizionali (quelli di Lica saranno negli anni cinquanta utilizzate come sagome per alcune copertine di Feltrinelli), agli arredi della loro casa ripresi in stile Bauhaus, alle tende rattoppate della casa di Panarea trasferite da Polaroid in composizioni astratte (1968).
La sperimentazione fotografica giocherà sempre un ruolo fondamentale nel mestiere di Albe, che sarà però, sempre, un «non-fotografo». Seppure radicato nelle avanguardie artistiche (Man Ray, Moholy-Nagy, Rodchenko), queste non gli sono necessarie in senso tecnico e linguistico, ma, diremmo, in senso politico: «l’idea di avvicinare intimamente – come ha scritto Giovanni Anceschi – la realtà alla vita». Così, Albe non gradì la deviazione formalista delle neoavanguardie del dopoguerra. Steiner appartiene a quegli «operatori pragmatici» (Huber, Munari, Noorda) che, nel confronto con l’industria attraverso la «grafica progettata», vollero conoscere il perché e il come si trasmettono i valori estetici, etici, politici. Sarà lapidario scrivendo del rapporto tra contenuto e forma: del contenuto occorre, con un «segno speciale», farne una sintesi che deve essere «immediatamente percepibile e chiara», tutto l’opposto della «notevole quantità di segni con un bassissimo livello estetico» della relatà presente. Ogni linguaggio della comunicazione si dimostra adeguato solo se «universale» e diretto a «cambiare la vita», ed è questa la ragione della centralità che, nel suo sistema, riveste la formazione e la scuola, con le esperienze didattiche: Convitto Rinascita, Umanitaria…
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