lunedì 9 marzo 2020
Tradotta la storia degli USA di Immerwahr
Mauro Campus
Come
accade sempre più raramente nella saggistica storica statunitense,
questo libro mette alla prova persuasioni radicate, e ridimensiona
qualche luogo comune. Il punto d’avvio della ridiscussione è la
percezione territoriale che gli Stati Uniti hanno avuto di sé dalla loro
formazione a oggi.
Daniel Immerwahr suggerisce che l’iconografia
cartografica degli Stati Uniti – che egli battezza la «mappa-logo» –
releghi la dimensione nazionale americana al suolo continentale e amputi
spazi che qualificarono la personalità internazionale del paese. Il
tema della frontiera materiale e immateriale statunitense ha vaste
ascendenze che vanno dalla visione frontierocentrica di The Winning of the West di
Theodore Roosevelt a lavori anche molto fortunati, ma raramente
l’angolazione è stata rovesciata al punto di analizzare la storia del
Paese dalla prospettiva delle acquisizioni territoriali successive al
riempimento della mappa-logo.
È ciò che questo libro fa, aprendo
lo sguardo a una storia degli Usa che supera la dimensione continentale
di ciò che l’autore chiama – aggiornando la definizione di Grande America del secolo XIX – i Grandi Stati Uniti,
la cui vicenda divide in tre atti. Il primo comprende l’espansione
verso ovest dei confini nazionali, il conseguente sradicamento dei
nativi americani e la creazione di un’enclave indiana:
un’operazione che con la guerra contro il Messico negli anni Quaranta
dell’Ottocento Immerwahr ascrive a un istinto quintessenzialmente
coloniale. Il secondo riguarda lo straripamento della frontiera fuori
dai contorni continentali: un’azione che gli Usa avevano iniziato
annettendo le “isole del guano”, salvo disinteressarsene dopo averle
completamente raschiate. Il terzo rappresenta la rimozione dell’idea
d’impero territoriale che gli Stati Uniti operarono dopo la Seconda
guerra mondiale, riuscendo perfino, con una prassi economica e politica
nuova, a rimodulare la semantica del termine “impero”.
Il
ragionamento, che è montato su una serie impressionante di testimonianze
letterarie, fotografiche e documentarie, è l’attestazione di come gli
Stati Uniti definirono in maniera originale il proprio modo di
costruire, gestire e nascondere le loro ambizioni imperiali. I passaggi
costitutivi di quell’impero cominciarono poco dopo il completamento
dell’unità. Quella che Carl Schurz definì la «grande colonia della
libera umanità» si mise presto ad annettere territori. Inizialmente
isole disabitate dei Caraibi e del Pacifico. Poi, nel 1867, l’acquisto
dell’Alaska dalla Russia. Dal 1898 al 1900 gli Stati Uniti assorbirono
la maggior parte dell’impero oltremare della Spagna (le Filippine,
Puerto Rico e Guam) e incorporarono le Hawaii, l’isola di Wake e le
Samoa. Nel 1917 acquistarono le Isole Vergini.
Il Paese aveva
subìto una metamorfosi. Il bruco aveva spiegato le sue ali di farfalla.
Alla fine degli anni Trenta i territori non continentali costituivano
quasi un quinto della superficie dei Grandi Stati Uniti. Se questo
quadro è collegabile al loro ingresso sulla scena politica mondiale nel
ruolo di vera potenza, è vero anche che così l’ex colonia divenne
titolare di un impero certo assai più contenuto di quello britannico o
francese ma non irrilevante. La non irrilevanza è data – questo uno
degli argomenti dell’autore – dalla volontà di mantenere i territori
secondari rispetto alla costruzione nazionale e internazionale della
Repubblica.
All’alba dell’American Century gli Stati Uniti
presero le distanze dal loro impero coloniale. Lo fecero perché i
colonizzati opposero resistenza, e ciò avvenne sia all’interno dei Grandi Stati Uniti,
sia all’esterno, dove il credito dell’antimperialismo impedì ulteriori
espansioni. Un’altra ragione ha a che vedere con la rivoluzione
tecnologica che si sviluppò negli Stati Uniti durante la Seconda guerra
mondiale. Fu in quella fase che maturò una serie di tecnologie
straordinarie che diedero al Paese i vantaggi dell’impero senza dover
effettivamente colonizzare territori. La plastica e altri materiali
sintetici consentirono agli Usa di rimpiazzare prodotti tropicali con
prodotti realizzati dall’uomo. Aerei e radio consentirono di trasportare
merci, persone e idee in Paesi stranieri senza assoggettarli. Furono
queste tecnologie che allontanarono gli Stati Uniti dal modello classico
di impero formale. La colonizzazione fu rimpiazzata dalla
globalizzazione.
Globalizzazione
è una parola talmente abusata da avere contorni evanescenti, ma
riferirla al programma di espansione non territoriale degli Usa nel
secondo dopoguerra aiuta a non banalizzarne il significato alla sola
globalizzazione finanziaria. La tecnologia che divenne di uso comune
dalla seconda metà del Novecento era funzionale a stabilire una nuova
relazione con il territorio. In modo spettacolare, e nel giro di pochi
anni, l’esercito americano rifornì i fronti di tutto il mondo con un
flusso inarrestabile di oggetti e costruì una rete logistica
impressionante per la sua indipendenza dalle colonie. Impressionante
anche perché accentrò il commercio, i trasporti e la comunicazione
mondiale in quegli Stati Uniti che avevano compreso dai tempi di Herbert
Hoover – che era persuaso che fosse il mercato a tenere il mondo unito,
e non gli imperi – che la standardizzazione e la semplificazione
fossero le chiavi della prosperità.
Fu sulla base di quella
rivoluzione tecnica e organizzativa che dopo la seconda guerra mondiale,
gli Stati Uniti non conquistarono fisicamente l’Europa occidentale, ma
imposero un modello economico che rese quel quadrante strutturalmente
funzionale alle esigenze dell’enorme sviluppo economico indotto dalla
guerra. Del resto tradizionalmente gli imperi imponevano alle colonie
nuovi linguaggi, leggi, idee, sport, convenzioni militari, mode, pesi e
misure, norme di comportamento, valute e organizzazione aziendali.
Gli
anni successivi alla Seconda guerra mondiale hanno portato le truppe
statunitensi in un Paese dopo l’altro. Accanto alle guerre ricordate da
tutti – Corea, Vietnam, Iraq, Afghanistan – un flusso continuo di
“scontri minori” ha fatto sì che dal 1945 a oggi le forze armate
statunitensi sono state schierate 211 volte in 67 Paesi. Il controllo
del territorio, dunque, persino in quest’epoca di globalizzazione, non è
scomparso: liberandosi delle colonie più grandi e inserendo nel proprio
dominio nuove basi militari, minuscoli puntini a sovranità limitata,
gli Stati Uniti hanno re-inventato (rendendoli meno palesi) i propri
investimenti imperiali. Dando seguito a quanto annunciò Harry Truman –
cioè che gli Usa non avrebbero preteso nuove colonie, ma avrebbero
potuto mantenere le basi militari necessarie per proteggere al meglio
gli interessi americani e la pace mondiale – oggi sono circa ottocento
le basi militari oltremare in tutto il mondo. Quei granelli sono le
fondamenta del potere degli Usa: costituiscono quello che l’autore
definisce un «impero puntillista» esteso su tutto il pianeta.
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