lunedì 9 marzo 2020

Tradotta la storia degli USA di Immerwahr

Daniel Immerwahr:  L’impero nascosto. Breve storia dei Grandi Stati Uniti d’America

Einaudi, Torino, pagg. 616, € 34, L’America e le sue metamorfosi

Mauro Campus
Come accade sempre più raramente nella saggistica storica statunitense, questo libro mette alla prova persuasioni radicate, e ridimensiona qualche luogo comune. Il punto d’avvio della ridiscussione è la percezione territoriale che gli Stati Uniti hanno avuto di sé dalla loro formazione a oggi.
Daniel Immerwahr suggerisce che l’iconografia cartografica degli Stati Uniti – che egli battezza la «mappa-logo» – releghi la dimensione nazionale americana al suolo continentale e amputi spazi che qualificarono la personalità internazionale del paese. Il tema della frontiera materiale e immateriale statunitense ha vaste ascendenze che vanno dalla visione frontierocentrica di The Winning of the West di Theodore Roosevelt a lavori anche molto fortunati, ma raramente l’angolazione è stata rovesciata al punto di analizzare la storia del Paese dalla prospettiva delle acquisizioni territoriali successive al riempimento della mappa-logo.
È ciò che questo libro fa, aprendo lo sguardo a una storia degli Usa che supera la dimensione continentale di ciò che l’autore chiama – aggiornando la definizione di Grande America del secolo XIX – i Grandi Stati Uniti, la cui vicenda divide in tre atti. Il primo comprende l’espansione verso ovest dei confini nazionali, il conseguente sradicamento dei nativi americani e la creazione di un’enclave indiana: un’operazione che con la guerra contro il Messico negli anni Quaranta dell’Ottocento Immerwahr ascrive a un istinto quintessenzialmente coloniale. Il secondo riguarda lo straripamento della frontiera fuori dai contorni continentali: un’azione che gli Usa avevano iniziato annettendo le “isole del guano”, salvo disinteressarsene dopo averle completamente raschiate. Il terzo rappresenta la rimozione dell’idea d’impero territoriale che gli Stati Uniti operarono dopo la Seconda guerra mondiale, riuscendo perfino, con una prassi economica e politica nuova, a rimodulare la semantica del termine “impero”.
Il ragionamento, che è montato su una serie impressionante di testimonianze letterarie, fotografiche e documentarie, è l’attestazione di come gli Stati Uniti definirono in maniera originale il proprio modo di costruire, gestire e nascondere le loro ambizioni imperiali. I passaggi costitutivi di quell’impero cominciarono poco dopo il completamento dell’unità. Quella che Carl Schurz definì la «grande colonia della libera umanità» si mise presto ad annettere territori. Inizialmente isole disabitate dei Caraibi e del Pacifico. Poi, nel 1867, l’acquisto dell’Alaska dalla Russia. Dal 1898 al 1900 gli Stati Uniti assorbirono la maggior parte dell’impero oltremare della Spagna (le Filippine, Puerto Rico e Guam) e incorporarono le Hawaii, l’isola di Wake e le Samoa. Nel 1917 acquistarono le Isole Vergini.
Il Paese aveva subìto una metamorfosi. Il bruco aveva spiegato le sue ali di farfalla. Alla fine degli anni Trenta i territori non continentali costituivano quasi un quinto della superficie dei Grandi Stati Uniti. Se questo quadro è collegabile al loro ingresso sulla scena politica mondiale nel ruolo di vera potenza, è vero anche che così l’ex colonia divenne titolare di un impero certo assai più contenuto di quello britannico o francese ma non irrilevante. La non irrilevanza è data – questo uno degli argomenti dell’autore – dalla volontà di mantenere i territori secondari rispetto alla costruzione nazionale e internazionale della Repubblica.
All’alba dell’American Century gli Stati Uniti presero le distanze dal loro impero coloniale. Lo fecero perché i colonizzati opposero resistenza, e ciò avvenne sia all’interno dei Grandi Stati Uniti, sia all’esterno, dove il credito dell’antimperialismo impedì ulteriori espansioni. Un’altra ragione ha a che vedere con la rivoluzione tecnologica che si sviluppò negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale. Fu in quella fase che maturò una serie di tecnologie straordinarie che diedero al Paese i vantaggi dell’impero senza dover effettivamente colonizzare territori. La plastica e altri materiali sintetici consentirono agli Usa di rimpiazzare prodotti tropicali con prodotti realizzati dall’uomo. Aerei e radio consentirono di trasportare merci, persone e idee in Paesi stranieri senza assoggettarli. Furono queste tecnologie che allontanarono gli Stati Uniti dal modello classico di impero formale. La colonizzazione fu rimpiazzata dalla globalizzazione.
Globalizzazione è una parola talmente abusata da avere contorni evanescenti, ma riferirla al programma di espansione non territoriale degli Usa nel secondo dopoguerra aiuta a non banalizzarne il significato alla sola globalizzazione finanziaria. La tecnologia che divenne di uso comune dalla seconda metà del Novecento era funzionale a stabilire una nuova relazione con il territorio. In modo spettacolare, e nel giro di pochi anni, l’esercito americano rifornì i fronti di tutto il mondo con un flusso inarrestabile di oggetti e costruì una rete logistica impressionante per la sua indipendenza dalle colonie. Impressionante anche perché accentrò il commercio, i trasporti e la comunicazione mondiale in quegli Stati Uniti che avevano compreso dai tempi di Herbert Hoover – che era persuaso che fosse il mercato a tenere il mondo unito, e non gli imperi – che la standardizzazione e la semplificazione fossero le chiavi della prosperità.
Fu sulla base di quella rivoluzione tecnica e organizzativa che dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti non conquistarono fisicamente l’Europa occidentale, ma imposero un modello economico che rese quel quadrante strutturalmente funzionale alle esigenze dell’enorme sviluppo economico indotto dalla guerra. Del resto tradizionalmente gli imperi imponevano alle colonie nuovi linguaggi, leggi, idee, sport, convenzioni militari, mode, pesi e misure, norme di comportamento, valute e organizzazione aziendali.
Gli anni successivi alla Seconda guerra mondiale hanno portato le truppe statunitensi in un Paese dopo l’altro. Accanto alle guerre ricordate da tutti – Corea, Vietnam, Iraq, Afghanistan – un flusso continuo di “scontri minori” ha fatto sì che dal 1945 a oggi le forze armate statunitensi sono state schierate 211 volte in 67 Paesi. Il controllo del territorio, dunque, persino in quest’epoca di globalizzazione, non è scomparso: liberandosi delle colonie più grandi e inserendo nel proprio dominio nuove basi militari, minuscoli puntini a sovranità limitata, gli Stati Uniti hanno re-inventato (rendendoli meno palesi) i propri investimenti imperiali. Dando seguito a quanto annunciò Harry Truman – cioè che gli Usa non avrebbero preteso nuove colonie, ma avrebbero potuto mantenere le basi militari necessarie per proteggere al meglio gli interessi americani e la pace mondiale – oggi sono circa ottocento le basi militari oltremare in tutto il mondo. Quei granelli sono le fondamenta del potere degli Usa: costituiscono quello che l’autore definisce un «impero puntillista» esteso su tutto il pianeta.
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